“Adda venì baffone”: dall’Italia di Stalin alla Gaza di oggi, la giustizia che il potere teme
Adda venì baffone”: dall’Italia di Stalin alla Gaza di oggi, la giustizia che il potere teme (foto generata con AI)
Di Simona Mazza
Dal vecchio detto popolare alla cronaca internazionale: mentre Gaza sanguina e il governo Meloni si specchia nel proprio vittimismo, il popolo — tra ironia e indignazione — riscopre la lingua del risveglio civile
Il proverbio ritorna, e con esso il senso

Il detto “Adda venì baffone” nacque nell’Italia del dopoguerra, quando la figura di Iosif Stalin, “il Baffone” per antonomasia, circolava nei racconti e nei bar come quella di un giustiziere implacabile.
Per molti, soprattutto nei quartieri popolari e nel Mezzogiorno, quel nome divenne presto una maschera ironica: non un omaggio al dittatore, ma la caricatura di un potere forte che, prima o poi, avrebbe “fatto pulizia” tra corrotti e prepotenti.
Era la voce della gente semplice, stanca di subire e priva di strumenti per reagire, che condensava nella battuta ciò che la politica non sapeva più dire: la speranza — un po’ ingenua, un po’ disperata — che la giustizia arrivasse comunque, anche travestita.
Col passare degli anni, il riferimento a Stalin si è dissolto, ma il detto è rimasto, assumendo un valore universale: una vendetta simbolica contro l’arroganza del potere.
E oggi torna a risuonare, perché lo scenario è fin troppo simile.
Il governo predica moralità mentre moltiplica contraddizioni, la premier si immagina protagonista di un dramma universale e il popolo — come allora — reagisce con l’unica forma di saggezza che non si estingue: l’amara ironia. Cerchiamo di capire meglio.
Gaza e l’auto-vittimismo di Stato
Dopo il 7 ottobre 2023, Gaza è diventata il punto cieco della coscienza occidentale.
Le città del mondo si riempiono di cortei, da Parigi a Tokyo; ma l’Italia, anziché unirsi al dolore, si concentra su sé stessa.
Risultato? Ogni striscione è un sospetto, ogni manifestante un potenziale nemico, ogni corteo il presagio di una rivoluzione che serpeggia.
Così, mentre altrove si invoca la pace, qui si discute di ordine pubblico — come se la speranza stessa fosse ormai considerata un reato di piazza. Insomma, il riflesso è sempre lo stesso: chi governa si sente perseguitato.
Per fare un esempio concreto, la Meloni interpreta le proteste internazionali come un attacco personale, come se da Buenos Aires a Oslo milioni di persone si alzassero ogni sabato solo per nuocere al suo indice di gradimento.
E intanto la parola genocidio scompare dal lessico istituzionale, quasi fosse un peccato di lesa diplomazia.
Nemmeno il Papa, che pure ama definirsi “voce dei senza voce”, osa pronunciarla.
E la stessa leader del nostro Paese, che proclama “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”, sembra avere smarrito il senso originario di quelle parole: perché essere cristiani non è un titolo, ma una prova quotidiana di umanità.
E in questa prova, il governo italiano è stato bocciato con lode.
La giravolta come sistema: da kefiah a NATO
Ma la coerenza, si sa, non è mai stata un requisito curricolare della politica italiana.
Basta guardare la parabola di chi oggi ci governa.
La giovane Giorgia Meloni, che negli anni Novanta sfilava con la kefiah e gridava “Palestina libera!”, oggi è la più fervente sostenitrice di Israele.
Matteo Salvini, che un tempo posava con la maglietta di Putin, ora indossa l’elmetto atlantico.
Antonio Tajani, invece, si limita a tradurre le oscillazioni altrui in burocratese, come un segretario che verbalizza le capriole.
È un piccolo capolavoro di Verdonismo istituzionale: “je taglierebbe ’ste gambe, poi gliele rimetterebbe, poi je le ritaglierebbe”.
Solo che qui la battuta non fa ridere: costa credibilità, posti all’ONU e un’idea minima di serietà internazionale.
Il “buco” dell’accordo e la metafora della casa
E poi c’è la storia che nessuno vuole più raccontare.
Quando si dice che i palestinesi “rifiutarono la pace”, bisognerebbe ricordare che tipo di pace fu proposta.
La Risoluzione ONU 181 del 1947 assegnava allo Stato ebraico il 55% della Palestina storica, benché gli ebrei rappresentassero solo un terzo della popolazione, lasciando ai palestinesi un 45% spezzettato in territori discontinui e privi di sbocco al mare.
Dopo la guerra del 1948 Israele ampliò il controllo al 78%, e nel 1967 completò il lavoro con Cisgiordania, Gaza ed Est Gerusalemme.
A questo punto, la metafora domestica si impone da sé: è come se qualcuno entrasse in casa tua, si prendesse il salotto, la cucina e il giardino, ti lasciasse la cantina e pretendesse pure la tua firma per ringraziarlo.
E quando ti rifiuti, ti accusa di “non voler convivere”.
Ebbene, la Palestina non ha rifiutato la pace: ha rifiutato l’umiliazione travestita da compromesso. E il mondo, da allora, finge di non capirlo.
Forse perché è più facile discutere di confini che di coscienza.
La Flotilla e l’umanità respinta
A ricordarcelo ci sono le flottiglie umanitarie: navi di volontari, medici, giornalisti, che tentano di portare aiuti a Gaza e vengono regolarmente intercettate.
Arresti, sequestri, silenzi.
In tutto ciò, Israele invoca la sicurezza; l’Europa sospira; l’Italia, la patria del “cuore mediterraneo”, non trova una sola parola di condanna.
È l’umanità respinta, trasformata in pratica amministrativa.
E allora, nei bar e sui social, la battuta ritorna — con quella intelligenza istintiva che è la vera satira del popolo:
“Adda venì baffone.”
Perché se i potenti tacciono, la giustizia popolare, prima o poi, riprende a parlare.
Gas e rendita geopolitica
Ed ecco l’altra parola proibita: gas.
Sotto la Striscia di Gaza giace il giacimento Gaza Marine, più di 30 miliardi di metri cubi di risorse naturali.
Chi controllerà quel gas controllerà il dopoguerra.
Ecco perché la guerra non è solo ideologica: è una questione di trivelle, di porti e di percentuali.
Insomma, ogni missile prepara un contratto e ogni tregua annuncia un affare.
Potemmo definirla la versione 4.0 del colonialismo: distruggere per poter ricostruire a proprio nome.
Il piano “post-Gaza”: Blair, i resort e i profughi
E infatti la ricostruzione è già in bozza.
Si parla di una Gaza International Transitional Authority guidata da Tony Blair, con progetti di “sviluppo integrato” che odorano più di cantiere che di diplomazia.
Porti turistici, zone franche, una “Gaza Riviera” finanziata dai Paesi del Golfo e benedetta dalle cancellerie occidentali.
La pace come business plan, la guerra come pretesto.
Ma resta un punto che nessuno affronta: dove andranno i profughi?
Alcuni documenti parlano di trasferimenti verso Egitto e Giordania, altri ipotizzano quote europee, persino italiane.
Noi, che scomodiamo i santi per quattro migranti, saremmo pronti ad accogliere decine di migliaia di persone in fuga da un conflitto che fingiamo di ignorare?
Il dubbio non è solo politico: è antropologico.
Chi perde l’empatia perde anche la propria identità.
L’Aia e la retorica del martirio politico
Intanto, un’altra storia si scrive in tribunale.
Meloni, Tajani, Crosetto e Cingolani sono stati citati in un esposto alla Corte penale internazionale dell’Aia per presunta complicità in crimini di guerra: non una condanna (al momento non c’è alcuna decisione della CPI sul merito n.d.r), ma un campanello che suona per l’Europa. La premier risponde come sempre: “ci attaccano perché difendiamo la libertà”.
E così, anche davanti all’Aia, il governo recita la parte della vittima designata.
Il vittimismo, in Italia, è l’unica forma di coerenza rimasta.
La domanda dei liceali e la memoria capovolta
Ma il velo della propaganda non resiste alla curiosità dei ragazzi.
Nei licei, qualcuno domanda:
“Prof, ma se la destra perseguitava gli ebrei, perché oggi difende Israele?”
Domanda semplice, risposta complessa.
Dopo il 1945 Israele nacque come rifugio; negli anni Sessanta si avvicinò agli Stati Uniti, divenendo avamposto dell’Occidente nel Medio Oriente.
Da allora la destra europea, che un tempo venerava Hitler e Mussolini, ha cambiato solo lessico: dall’antisemitismo è passata all’islamofobia, trasferendo il bersaglio senza curare la ferita.
Difendere Israele è diventato un modo per ripulire la coscienza, per proclamarsi civilizzati e moralmente rinati? Bella domanda. Sta di fatto che la memoria, quando serve a lavare le mani, non purifica: sbianca.
Conclusione: attenzione a quando arriva davvero “baffone”
Ed eccoci di nuovo al punto di partenza.
“Adda venì baffone” non è nostalgia del pugno di ferro, ma consapevolezza che ogni abuso ha la sua scadenza.
Il popolo italiano, abituato a sopportare, comincia a ridere — e quando il popolo ride, il potere dovrebbe iniziare a tremare.
La satira è tornata la lingua della resistenza civile: ridere (seppur amaramente) è l’ultimo modo per non obbedire.
Sì, baffone arriverà — ma non in uniforme.
Avrà il volto della coscienza collettiva, della pietà che ritorna, della verità che non chiede autorizzazioni.
E allora chi oggi predica fermezza e ordine scivolerà nel suo stesso paradosso: perché quando il popolo si sveglia, i baffoni del potere si sciolgono da soli.