Alla memoria di Elio Leo di Tuglie combattente antifascista ANPI
A p. 259 del libro di Adelmo Cervi – Io che conosco il tuo cuore. Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio (Prima edizione: Piemme Voci, 2014, pp. 434; riedizione 2025 col titolo I miei sette padri) trovo scritto dall’autore quanto segue: «Mettere piede nella vita dei miei mi costa fatica, l’ho detto e lo ripeto, ma non posso evitarlo. Dalla loro intimità arrivo io. Sono già lì, sulla porta./ E devo stare attento, perché i ricordi – sia miei, sia delle persone care – si sbriciolano, diventano polvere e si confondono. Quella storia lì, quella volta che… è tutto vero? Me l’hanno detto o l’ho letto chissà dove? O me lo sono inventato?/ E dove sta esattamente la differenza tra “vero” e “inventato”? Non è che magari è un po’ tutto “mezzo vero”?»
So che «Adelmo Cervi è figlio di Verina Castagnetti e Aldo, terzogenito dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti al poligono di tiro di Reggio Emilia il 28 dicembre 1943. Adelmo aveva appena compiuto quattro mesi. Suo nonno Alcide, la cui figura entusiasmò Italo Calvino, ha pubblicato, nel 1955, I miei sette figli, a cura di Renato Nicolai, un classico della Resistenza stampato in centinaia di migliaia di copie e tradotto in molte lingue».
Aldo Cervi dunque è il personaggio chiave del romanzo di suo figlio Adelmo. Ma, intorno alla sua figura di partigiano, vivono anche altri. In primo luogo gli altri fratelli di Aldo, che sono: Gelindo, Antenore, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore, tutti nati a Gattatico (Reggio Emilia) e tutti fucilati, assieme a un ottavo, Quarto Camurri che, però, non è un familiare dei Cervi. L’eccidio del poligono di tiro di Reggio Emilia del 28 dicembre 1943 è stato deliberatamente eseguito dai fascisti italiani come oltraggio alla vita. Una famiglia decimata senza alcuna pietà. Questo è stato uno dei massimi abomini eseguito dai banditi fascisti italiani.
Dopo l’assassinio, in Casa Cervi, rimasero undici bambini, le mogli dei fucilati, il nonno Alcide e la nonna Genoeffa. Anche la loro Casa fu data alle fiamme dalle canaglie fasciste. Più volte ho letto la storia di Alcide Cervi I miei sette figli nelle varie edizioni che si sono susseguite dal 1955 ad oggi. La mia copia è del 1956, cioè appena un anno dopo la prima con la Prefazione di Piero Calamandrei. È nella collana “Il Milione” degli Editori Riuniti, stampata dalla “Poligrafica” il 5 febbraio 1956, VIII edizione, 350° migliaio, copertina flessibile con al centro un disegnino di una scena agricola, Roma, pp. 93. Nella Presentazione, Nicolai scrive:
«Questo libro è nato dall’esigenza di far rivivere una delle più significative e gloriose vicende della Resistenza italiana: la vita e il sacrificio dei sette fratelli Cervi. […] Tra passato e presente, il legame memore e vivo veniva ad essere il padre, non soltanto genitore, ma educatore della famiglia, instillatore di quella ragione ideale di vivere che segnò drammaticamente la vita dei figli. Più che la cronaca stentata e riassuntiva, il racconto del padre poteva dare maggiore autenticità e immediatezza alla vicenda, nella sua unità interna e soprattutto umana. Se dunque si è scelta questa interpretazione dei fatti, non fu a consigliarla una facile infatuazione letteraria sul “valore del documento” e sulla suggestività del “linguaggio”, ma un’esigenza di comunicatività con il lettore che rendesse più facile, oggi, il parlare al cuore degli italiani della potente, e spesso sconosciuta, attualità della Resistenza».
La stessa edizione del 1955 è stata ristampata, tale e quale, come pubblicazione frutto di una collaborazione tra l’Istituto “Alcide Cervi” di Gattatico (Reggio Emilia) e «Patria Indipendente», periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), allegata al n. 4 del 20 aprile 2008, stampata dalle Grafiche PD di Fondi, con la Grafica e impaginazione di Duògradi s.n.c, Roma.
Un’altra edizione in mio possesso è la XV dell’ottobre 1974 con la copertina di Tito Scalbi, (stampa della Tipo-litografia “L. Chiovini”, Roma, pp. 160) e la Prefazione di Mario Alighiero Manacorda, che scrive:
«Un tempo c’erano gli eroi [di guerre], e c’erano poeti che li cantavano, e moltitudini d’uomini che ascoltavano e, identificandosi con l’immaginazione con quei personaggi, si educavano a imitarli. […] Di fronte a quegli eroi, tutti gli altri apparivano moltitudine senza nome e senza volto. […] L’eroe popolare di oggi non ha la guerra come sua vocazione e mestiere, anche se talvolta – troppo spesso ancora! – può essere costretto a combattere: mai però per togliere la libertà ad altri, bensì solo per difendere la sua libertà, la sua terra, la sua gente, il suo lavoro. […] I sette fratelli Cervi furono eroi come possono esserlo appunto degli uomini semplici e schietti, che vivevano prima la loro vita di tutti i giorni, nutrendo pensieri d’amore e di lavoro, cercando insieme di rendere feconda la terra su cui vivevano, di affinare le loro tecniche contadine, di migliorare se stessi; e che la dittatura [mussoliniana], e la guerra che inevitabilmente la segue, hanno costretto a inventare con altrettanta fantasia e a compiere con altrettanta tenacia atti nuovi, atti di “eroismo”. […] Papà Cervi e i suoi sette figli, che la sorte ha fatto nascere contadini, e che la loro scelta ha fatto morire come nuovi eroi, sono personaggi emblematici del nostro tempo nella vita quotidiana e nel loro destino ultimo. […] Lottano per conquistarsi una coscienza politica, leggendo i classici, per superare gli aspetti subalterni della mentalità contadina, dove tutto – il buonsenso, la morale, la religione – rischia di farsi elemento di rassegnazione e di conservazione, e per agguerrirsi idealmente contro la stolida e brutale dittatura fascista. […] Dietro di loro c’è l’esempio del padre, la sua arguzia e la sua autorità bonaria, […] e c’è l’esempio della madre [Genoeffa], come Marta e Maria insieme, che segna l’educazione dei suoi figli già con quelle prime fole in cui i cattivi sono sempre puniti e i buoni sono sempre i più furbi. Così, forti di questa loro esperienza di una vita semplice e schietta, i sette fratelli Cervi, guidati da Aldo, quello che tra loro era politicamente il più consapevole, ma ognuno con la sua rilevata personalità, Agostino, Antenore, Ettore, Ferdinando, Gelindo, Ovidio, danno inizio alla loro avventura “eroica”. […] Le gesta dei sette fratelli non furono eccezionali nella resistenza antinazista: migliaia di altri uomini semplici come loro, in Italia, in Europa, in tutti i paesi del mondo, furono strappati alla loro vita quotidiana – al lavoro, all’amore, alle carezze della sposa, ai giochi dei figli, al conversare con gli amici – per armarsi e uccidere ed essere uccisi. […] I Cervi furono sette fratelli insieme, tutti i figli maschi del vecchio Alcide, e che tutti e sette la stupida ferocia dei nazifascisti volle che morissero insieme, […] Nel piccolo gruppo dei sette fratelli Cervi emerge non più l’eroe individuale, ma l’eroe collettivo, un popolo, tutti i popoli del mondo combattenti per la libertà. Ma qui, oltre a questi sette eroi di tipo nuovo, c’è un protagonista di tipo nuovo, che, come l’antico Omero della leggenda [Iliade], è un vecchio: il padre Alcide».
Nella Nota a questa stessa edizione c’è scritto:
«I miei sette figli può dunque essere considerato la massima espressione letteraria ed emozionale dell’epopea partigiana italiana, “la cui pubblicazione – ha scritto Roberto Battaglia – segna una data memorabile nella pubblicistica della Resistenza”. Il libro, inoltre, ha fatto dei Cervi una grande leggenda umana del nostro tempo, a livello mondiale».
In appendice, c’è infine la «riproduzione, della parte inziale e della parte finale del discorso commemorativo dei fratelli Cervi, tenuto a Roma il 17 gennaio 1954 da Piero Calamandrei, il cui testo integrale è pubblicato nel volume dello stesso autore Uomini e città della Resistenza, Laterza, Bari, 1955». Calamandrei scrive:
«La storia della famiglia Cervi, meglio di ogni altra, riassume in sé gli aspetti più umani, più naturali e più semplici della Resistenza, e insieme i suoi aspetti più puri e spirituali, e direi perfino più celestiali: questa famiglia patriarcale di agricoltori emiliani, composta dal padre contadino e di sette figli contadini, la quale, subito dopo l’armistizio, nell’ora delle generali perplessità, si trova tutta unita e concorde fin dal primo giorno, senza un attimo di esitazione, dalla parte della libertà e della riscossa, dando l’impressione, più che di un gruppo di uomini, tenuti stretti da un comune senso di solidarietà, di una perfetta fusione di volontà, da cui nasce una ripartizione di compiti coordinati da una coscienza unica, e il senso di un’unica responsabilità, quale non può trovarsi che in una persona sola. Colla stessa naturale concordia con cui fino a ieri avevano coltivato i loro campi, colla stessa pacata e consapevole unanimità, senza iattanza e senza turbamento, la famiglia tutta unita va incontro alla morte: e quando, dopo lo sterminio dei sette figli, il vecchio Cide torna solo alla terra, unico uomo settantenne rimasto colle donne e coi bambini, ecco che in lui è ancora presente la famiglia, come se i sette figli, lasciandolo, avessero moltiplicato per sette le sue forze, come se avessero restituito a questo vecchio, insieme col dolore, la forza giovanile ricevuta da lui. La tempra di questa famiglia è tutta nella frase detta da Cide: “Uno era come dire sette, sette era come dire uno”. […] Il fatto della famiglia Cervi ha, nella sua semplice realtà, tutti gli elementi per divenire leggenda: la nostra storia anche recente conosce coppie gloriose di fratelli caduti insieme per la libertà: i fratelli Bandiera, i fratelli Rosselli. Ma il sacrificio di sette fratelli, caduti nello stesso istante per la stessa causa, nella nostra storia non c’era ancora: forse non c’è nella storia di nessun popolo. Per ritrovare qualcosa che somigli a questo sterminio familiare, bisogna risalire ai miti della tragedia greca, ai fantasmi biblici od omerici, ai figli di Niobe, ai sette Maccabei, ai sette fratelli di Andromaca. Ma i fratelli Cervi non sono poesia: sono storia, sono la nostra storia. […] In quei giorni che babbo Cervi passò nella prigione di San Tommaso, prima di sapere che i suoi sette figli erano morti, egli disse, in quel suo linguaggio duro di contadino, parole solenni come una profezia. “Cervi s’alzò e cominciò a passeggiare. Ogni tanto agitava il suo grosso braccio di contadino, o si fregava un fianco quasi che lo tormentasse una maglia di lana. Parlava. I suoi erano modesti pensieri. Ad un tratto disse: – Noi siamo così. Amiamo la libertà”. […] Sì, babbo Cervi, la profezia continuerà ad avverarsi. Altre mura cadranno, fatalmente, senza bisogno di spargere altro sangue: cadranno le mura dell’ignoranza, cadranno le mura dei nazionalismi, cadranno le mura dei fortilizi, cadranno le mura della guerra: “e noi ritorneremo alle nostre case e col lavoro rifaremo tutto quello che ci hanno distrutto”. […] Italiani della Resistenza! Onoriamo, ma non compiangiamo il padre di questi figli. Se qualcuno si deve compiangere, compiangiamo i padri dei loro fucilatori».
Appena un anno dopo l’edizione del 1974, venne pubblicata una ristampa della stessa con le stesse caratteristiche della precedente, cambiò solo la copertina, con la curatela e un dipinto di Franco Gentilini, che raffigura una masseria e, in primo piano, una bicicletta poggiata a terra.
Invece una nuova edizione rispetto alla precedente, e la prima della collana “Biblioteca giovani” degli Editori Riuniti, che è del 1980 (stampa Litografica ’79 di Roma, pp. 124) con la Prefazione di Sandro Pertini, in quel momento Presidente della Repubblica, che scrive:
«Da quando sono al Quirinale, mi è occorso più volte, a partire dal discorso ai partigiani di Boves, di sottolineare l’importanza che avrebbe avuto per i nostri giovani una seria informazione sulla Resistenza, informazione che la scuola repubblicana ha fatto loro quasi interamente mancare. […] La nuova edizione di questo libro mi conferma appieno nel mio convincimento. Riletto a venticinque anni di distanza dalla prima edizione, il volume firmato da Alcide Cervi e da Renato Nicolai, serba intatto tutto il suo fascino. Nicolai, che fu l’estensore materiale del libro, fece qualcosa di più che trascrivere il dettato di papà Cervi: egli trasfuse sulla pagina lo spirito dell’epopea che i sette contadini del reggiano avevano interpretato fino al supremo sacrificio, cogliendo nelle sfumature più sottili il linguaggio, la saggezza, l’ineguagliabile patrimonio di cultura schiettamente popolare che venivano affiorando dal racconto del vecchio patriarca./ Ciò che colpisce, ancora oggi, in questo racconto, è in primo luogo l’arguzia, l’allegria, direi la virile felicità con cui la famiglia Cervi visse dal principio alla fine la sua tragica avventura. Non c’è una riga del libro che tradisca un atteggiamento vittimistico, un rimpianto, un compiacimento eroico. La scelta di vita attraverso cui una famiglia cristiana diventa, tutta intera, comunista e si vota senza esitazioni alla lotta, contro il regime fascistico prima, contro l’occupazione nazista poi, scaturisce con la più assoluta naturalezza dal confronto tra un ideale consapevole e l’abietta realtà della dittatura. C’è di più. La storia dei Cervi dimostra come si possa diventare antifascisti partendo dai valori più elementari ed essenziali: l’amore per l’uomo, il culto della famiglia, la passione per il lavoro dei campi. I Cervi si convertono all’ideale socialistico nello stesso tempo in cui, faticando secondo tutte le regole dell’arte e scoprendo sui libri i fattori del progresso tecnico e politico, ingrandiscono e perfezionano la loro azienda agricola./ Questo processo di maturazione non avviene in un luogo senza tempo e senza storia. Basta citare, per convincersene, il ricordo che papà Cervi dedica a Camillo Prampolini, il grande apostolo del socialismo democratico e della cooperazione, “un cristo alto, con la barba grigia, gentile e dolce di voce” che, “parlava semplice e chiaro, faceva dialoghi e raccontava parabole”. E un passo che io, socialista da sempre e fervido discepolo di Filippo Turati e Claudio Treves, ho riscoperto con commozione. Alle spalle dei comunisti di ieri e di oggi, questo è un fatto, c’è la lunga, onesta, aspra milizia dei socialisti di un tempo, da Costa a Prampolini, da Turati a Treves, di quei riformisti romantici, ingenui e disinteressati che il fascismo spense nel sangue e nel fuoco, con la criminale speranza di dissolvere, insieme con le Case del Popolo e con le Camere del Lavoro create in oltre trent’anni di dure battaglie, la loro incontaminata realtà./ Il libro si raccomanda alle lettura dei più giovani anche e soprattutto per la semplicità della narrazione. Anche a questo riguardo la vicenda dei Cervi non si libra nel vuoto: il linguaggio di papà Cervi, i cento episodi che egli riferisce a Nicolai, nascono da una antichissima tradizione che parte da Omero e arriva a Victor Hugo, a Balzac, a Barbusse, a Jack London, a Verga, la tradizione del mondo contadino e della redenzione operaia, della rivoluzione umanistica e del pacifismo. Si guardi, per esempio, al momento in cui i ragazzi di papà Cervi si gettano a capofitto nell’opera di livellamento del terreno, tutte buche e dossi, appena acquistato; si rilegga l’aneddoto, mirabile, dell’imbandigione di pastasciutta che la famiglia offre a tutto il paese per festeggiare il crollo del regime, all’indomani del 25 luglio [1943]; si consideri la nuda grandezza con cui il patriarca narra l’assalto di 250 banditi fascisti al casolare dove la famiglia vive e tiene nascosti tanti prigionieri alleati (“Cervi, arrendetevi!”) o la tristissima serata in cui sua moglie trova finalmente il coraggio di comunicargli che i sette ragazzi sono stati fucilati. Fino alle ultimissime pagine: “non ci fermeranno più… Guardate la mia famiglia: avevo sette figli, e ora ho undici nipoti. Avevo quattro mucche, e adesso sono cinquantaquattro capi di bestiame, con la produzione del grano che è salita a cinque volte quella del ’35… In più, abbiamo dato sette vite alla patria”./ È un piccolo capolavoro di dolcezza, di fierezza e di forza. Una testimonianza della perennità di quei valori della Resistenza ai quali così spesso mi rifaccio come al fondamento del nostro consorzio civile, quando sprono tutti gli italiani alla nuova Resistenza contro la barbarie del terrorismo. Oggi, come allora, sono i contadini e gli operai, è il movimento dei lavoratori manuali, tecnici ed intellettuali, a combattere in prima fila per difendere la nostra Repubblica democratica che è nata dal sacrificio di migliaia di partigiani come Alcide Cervi e i sette purissimi eroi ai quali egli è sopravvissuto per un disegno non arcano della storia./ Roma, febbraio 1980».
Non mi sono accorto, ma di fatto ho trascritto tutta la Prefazione di Sandro Pertini al libro I miei sette figli di Alcide Cervi e Renato Nicolai, il quale aggiunge una nuova Nota. Come è nato questo libro?, e scrive:
«Quando scrissi questo libro, era l’inverno 1954. Alcide Cervi, allora, aveva 82 anni e, come sempre gli accadeva nei mesi più gelidi, soffriva di una di quelle sue bronchiti che lo portarono poi all’asma. Potei quindi scambiare con lui solo qualche conversazione. Operazione fallita, dunque da rinviare?/ No, perché conoscevo il vecchio Alcide da tempo e di lui avevo studiato il personaggio, certi suoi modi di dire estrosi, evangelici e predicatori ma anche molto gustosi e divertenti. Insomma da tempo avevo catturato il personaggio. Ma farne cosa?/ Impegnarlo a scrivere il libro era impossibile perché Alcide, pur essendo sveglio e spesso sorprendente, aveva ottantadue anni e per di più, come studi, non poté andare oltre la terza elementare. […] Feci così un’inchiesta molto minuta e fitta, parlando con tutti coloro che avevano conosciuto i sette fratelli nei loro impegni di lotta ma anche nei loro più elementari divertimenti, modi di atteggiarsi, di vestirsi, di dire, perché capivo che solo gustandoli in vita li avremmo molto amati quando tutti e sette insieme ci vengono portati via di colpo, e per sempre. […] Ogni notizia, perciò, ogni episodio, scaturivano portando con sé sapori antichi e anche modernissimi, che richiamavano famosi capolavori dell’umorismo o dell’avventura, poemi dell’antichità o del Cinquecento, come pure un mondo tecnico-inventivo d’avanguardia nella meccanica e nell’agricoltura che in America già trionfava e che nella mente dei Cervi era solo idea intuitiva, precorritrice per l’Italia./ Tutti questi umori, climi, echi di altre voci, esperienze, leggende, non potevano andare persi, ma anzi dovevano arricchire il racconto della vicenda, farla diventare così nutrita di valori reali e ideali da renderla patrimonio di tutti, cioè universali./ Ma a questo punto ci voleva colui che narra. Chi, se non il padre? […] E lungo quel linguaggio [dialetto reggiano, che è italiano, letterario e popolare insieme], feci scorrere con forte naturalezza tutto il racconto. Così il vecchio Alcide poté apparire, giustamente, non più soltanto come genitore di sette eroici figli, ma come autore di eventi e poeta della storia./ Ma un amico reggiano obbiettò: “Eppure ti sei tradito. Si sente che il libro è stato scritto da un romano perché tu fai sempre dire al vecchio Cervi “figli miei”, che è delle vostre parti, mentre noi reggiani diciamo “me’ fiol”./ Aveva ragione. Ma è colpa mia se “figli miei” esprime dolore, amore e pietà, assai più che “miei figli”? Così infatti il vecchio Cervi, alla fine del libro, dirà: “l’Italia è salva. Riposate in pace, figli miei”. Era salva dal fascismo e dalla guerra, allora, dopo la Liberazione. Ma oggi bisogna salvarla ancora».
Infine, in fondo al libro lo stesso Nicolai scrive:
«il successo letterario e popolare fu così immediato che già nell’agosto 1955 la giuria del Premio Viareggio gli dedicò una menzione speciale […] La richiesta del libro assumeva ormai carattere di massa e si allestì perciò un’edizione popolare per una tiratura complessiva di 500.000 copie, che andò esaurita entro la primavera del 1956. Negli anni successivi si stamparono altre due edizioni mentre il libro veniva pubblicato in quattordici paesi stranieri, con ampie diffusioni nell’Unione Sovietica – ove uscì presso due case editrici – in Giappone, in Argentina e, specie in Romania – ove fu anche messa in scena una riduzione teatrale del libro – in Cina – con una pubblicazione a puntate su un popolarissimo periodico – in Francia, ove costituì un episodio di rilevanza letteraria, registrato da numerose riviste francesi./ Nel 1968, il libro forniva la tematica narrativa fondamentale per il film I sette fratelli Cervi (regia di Gianni Puccini, protagonisti Gian Maria Volontè e Lisa Gastoni) che ebbe particolare successo di pubblico in Italia e all’estero».
Ecco la storia dei libri sulla/della famiglia Cervi. Ecco il dramma di una famiglia di contadini reggiani. Ecco la condanna per il regime fascista che del sangue dei Sette Fratelli si è macchiato fino alle budella. Verrebbe da dire: “Morte al fascismo, libertà ai popoli!”, ciò che vale ancora oggi, dove osserviamo gli antichi arsenali fascistoidi impadronirsi di ogni livello istituzionale della Repubblica nata dalla Resistenza.
Ora però è arrivato il tempo di parlare di Adelmo Cervi che, con Giovanni Zucca, ha scritto il libro Io che conosco il tuo cuore. Storia di un padre partigiano raccontata da un figlio (oggi, nella riedizione, il titolo è I miei sette padri). La mia copia contiene una dedica dello stesso Adelmo, che conobbi fisicamente il 15 dicembre 2015 al Liceo Classico “Palmieri” in un’assemblea di studenti che lo avevano invitato per la presentazione del libro. Il nostro incontro fu subito cordiale e amichevole, poi l’ho incontrato in qualche altra occasione ANPI. Il Prologo di questo pregnante romanzo storico è molto incisivo e fortemente realistico. Scrive:
«Mi chiamo Adelmo Cervi, ho settant’anni [oggi che scrivo questa recensione ne tiene 84] e sono il figlio di un mito./ O almeno è così che ogni tanto mi considerano e allora mi tocca dire che no, che non è vero, non è così./ Sono figlio di Aldo Cervi e di Verina Castagnetti, e a dire la verità un po’ ce l’avrei anche su, con questo mito, perché si è portato via mio padre, se l’è mangiato così, in un solo boccone, e mi ha lasciato in cambio soltanto un nome e una lapide, per poi fare di lui un pezzo di un monumento unico, una statua a sette teste./ Sette uomini, sette vite, sette morti – sette medaglie./ E una cosa sola, un mito in cui i singoli uomini spariscono. Ma mia madre non era la compagna di tutti i fratelli, non è andata a letto con il mito. E loro non erano una cosa sola. Erano sette e avevano ognuno un nome, un carattere, una vita, una storia./ Uno di loro era mio padre, Aldo» (pp. 7-8).
Ecco la meraviglia di una memoria stupendamente letteraria. Adelmo introduce il suo romanzo storico con un prologo da farci ammutolire. Il suo linguaggio è schietto e chiaro. Raccorda pensiero, memoria, storia, vita di militanza, agitazione poetico-letteraria. Non si smarrisce. Scrive:
«Ancora giovanissimo, Aldo [suo padre] assiste al sorgere minaccioso del fascismo, della dittatura. […] Aldo non è ancora un “politico”, non può esserlo. È un ragazzo, uno che riflette, uno che come i fratelli e le sorelle prima e dopo di lui ha frequentato giusto le elementari. Ma i germi della politica, del senso di giustizia, dentro ce li ha già tutti. Eredità della famiglia./ Ma per fargli scoppiare la “malattia” della politica, quello stato febbrile che lo accompagnerà fino alla morte, ci vorrà qualcosa, una causa scatenante. Qualcosa che al momento della marcia su Roma […] non è ancora successo. [Aldo parte militare. E poco dopo Adelmo ricorda che] per dipingerti meglio, per finire come si deve il tuo ritratto che ho appeso a una parete dentro la mia testa. Vorrei vederti rispuntare qui, anche solo per cinque minuti, per farti una foto. Molti ti vedono con la faccia di Gian Maria Volonté nel film che racconta la vostra storia. [… Tuttavia] vorrei una tomba normale con scritto Aldo Cervi 1909-2001, tanto per farti arrivare in questo secolo. E in cambio darei indietro le strade e le piazze con i vostri nomi» (pp. 35, 39, 50-51).
Adelmo scrive la vita di soldato del padre Aldo e gli anni del carcere che gli fecero fare per un incidente quand’era sotto le armi. Ma è lì, in quel carcere di Gaeta, che Aldo Cervi cominciò a leggere alcuni libri e formarsi una mente comunista. Scrive Adelmo che:
«il nuovo crocefisso di mio padre diventa la bandiera rossa con la falce e il martello gialli. La falce dei contadini e il martello degli operai. Il rosso del sangue e della speranza, il giallo del grano e dell’acciaio fuso. E se mescolo Gesù in croce con la bandiera rossa, nessuno per piacere si offenda e si scandalizzi: per mio padre (e non solo per lui, sia prima che dopo) non c’è contraddizione, sia Gesù, sia Marx predicano la liberazione dall’oppressione: essere cristiani o comunisti (o cristiani e comunisti) vuol dire comunque stare dalla parte dei deboli, di chi ha di meno, di chi ha più fame» (p. 79).
Adelmo ricorda aneddoti della vita agricola e altrimenti civile a Gattatico, a Caprara, ai Campi Rossi, dove la famiglia Cervi vive e lavora la terra, quella terra che per suo padre, nonostante l’attaccamento ai Campi Rossi, qualcosa sembra essere cambiato, specie dopo la parentesi di Gaeta: «i suoi pensieri si erano spostati, non erano più concentrati solo sulle zolle e il foraggio» (p. 89).
L’autore del libro Io che conosco il tuo cuore mostra una certa insofferenza quando alcuni parlano dei fratelli Cervi come se tutti e sette fossero:
«identici e fatti con lo stampino! Gli atteggiamenti erano diversi, ognuno la vedeva a modo suo, la terra e la vita in generale. Anche per questo, quando si parla di mio padre e dei miei zii come dei “sette fratelli Cervi”, come se fossero una creatura sola, strana, un corpo unico con sette teste, a me viene un moto di insofferenza, se non addirittura di ribellione» (p. 90).
Uno dei motti di Adelmo è: «livellare la terra, livellare il mondo» (p. 99) che è tutto un programma di vita. Io lo interpreto “lavorare la terra, lavorare il campo significa comprendere l’immensità della vita”. E soprattutto lavorare quella terra dei Cervi. Adelmo ricorda che:
«Il podere dei Campi Rossi, rossi come il socialismo che è germogliato qui intorno, si trova a Praticello, frazione di Gattatico. Quindi appartiene al comune di Gattatico, ma è al confine con quello di Campegine, il che forse spiega – insieme al fatto che sotto Campegine, il Comune di nascita di tutti i figli di Alcide e Genoeffa, parte Ettore, nato a Olmo di Gattatico, c’erano sia il Tagliavino che Valle Re – come mai il paese che comunemente si associa ai Cervi sia appunto Campegine, dai moti del macinato alla pastasciutta del ‘43» (p. 102).
Perché questa mini cronaca dei luoghi della famiglia Cervi? Perché sono i luoghi dove essa effettivamente viveva e lavorava. Il padre di Adelmo era un bravo contadino, aveva arte e scienza, tant’è che non poche volte anche il regime fascista doveva accorgersene e dargli qualche onorificenza. Adelmo scrive:
«Mio padre, anche se portava a casa i suoi pezzi di carta dove il fascismo era comunque presente, alle favole non ci credeva. Lui lo sentiva che quel regime stava portando l’Italia e le classi lavoratrici alla rovina. Aveva intuito che con quella gente lì in camicia nera non si andava da nessuna parte, se non nella merda. Così aveva convinto anche il resto della famiglia – e non era stata poi una gran fatica, perché ai Cervi i prepotenti non erano mai piaciuti – e insieme avevano messo in piedi non solo un’azienda familiare modello, all’avanguardia, ma anche un modello di propaganda clandestina contro il regime che funzionava a pieno ritmo. Quando è venuto il momento della scelta, nel 1943, Aldo Cervi lo sapeva da un pezzo da che parte stare. E lo sapevano anche Gelindo e Antenore, Agostino e Ferdinando, Ovidio e Ettore. Sapevano anche che era pericoloso. Ma non per questo si sono tirati indietro» (p. 109).
Nel romanzo, c’è un passo dove Adelmo richiama alla memoria il giornale che suo padre leggeva – «l’Unità», organo del Partito comunista italiano (PCI) – per poi riprendere alcune possibili parole dello stesso Aldo, che dice:
«Fame e guerra! Questa è la sola prospettiva di Mussolini: questa è la sola via di uscita per il regime capitalistico. La situazione del capitalismo italiano è così grave che lo stesso Mussolini, costretto a rinunciare alle false e demagogiche promesse, non osa più parlare della nuova era di benessere del corporativismo. E dichiara cinicamente che si deve marciare verso un tenore di vita sempre più basso e verso la guerra ed esalta la miseria e il massacro, come il solo ideale che rimanga da esaltare al regime fascista» (p. 119).
Per Aldo Cervi c’è un orizzonte politico: il comunismo e, per approfondire questo suo ideale, si fa arrivare a casa anche la rivista «Relazioni Internazionali». Scrive Adelmo:
«Il comunismo è come una città lontana. Ci si può arrivare a piedi, ci vuol tempo e magari non si sa la strada. Per arrivarci prima, ci vuole il treno. E i libri, lo studio, sono il treno. Che va sui binari, lo sapete bene, e non sbaglia mica, perché i binari vanno dritto fino a quella città lontana. Però su quel treno lì non ci possiamo salire da soli, dobbiamo essere in tanti. […] Comunque, a sapere che l’interesse dei lavoratoti è opposto a quello del capitalista (il fascismo racconta che non è vero, che dobbiamo andare avanti tutti d’accordo coi padroni, ma sono balle) ci arriviamo da soli, senza bisogno di libri e di storie complicate. Però, intanto che siamo sul treno, nulla ci vieta di usare il tempo del viaggio per imparare di più, per capire come funziona quella città che ci aspetta» (pp. 132-133).
E continua: «Aldo vuole combattere, dunque. Combattere il fascismo. Ma per combattere ci vogliono uomini. Ci vogliono armi» (p.135).
Il compagno e le armi, Aldo le trova in un giovane nella stessa Campegine. Tale Didimo Ferrari, di capelli rossi, ma anche rosso di idee, che il regime lo perseguita per le sue idee e spesso lo incarcera. Ma la repressione fascistica non intimorisce Aldo e Didimo, che si “attrezzano” di libri socialisti e comunisti per far crescere la coscienza politica della gente che sta loro intorno.
L’autore del libro trova il modo di scrivere anche della tenerezza sentimentale di suo padre quando, in una lettera che Aldo scrive alla signorina Verina, prima che ella diventasse sua moglie e madre di Adelmo. Lo fa con una lunga lettera nel cap. 30 (pp. 154-155). E, a proposito di sentimenti, c’è un bellissimo ricordo di Adelmo riferito alla descrizione della più famosa fotografia dell’intera famiglia Cervi. A chiedere al nonno Alcide di farla è la moglie Genoeffa quando sente in giro «tutto il parlare di guerra […] perché non si sa mai». Adelmo così ricorda:
«Pensare che ce l’ho avuta sotto il naso per tutti questi anni la risposta al perché di quella foto. Eccolo, allora, il motivo della foto bella, quella in cui siamo – sono – tutti lì con la giacca e la cravatta, e le sorelle col vestito buono. Era per avere in mano un ricordo tangibile, un santino a cui attaccarsi se qualcuno fosse andato in guerra e non fosse più tornato. Lo spauracchio del periodo ’15-’18, che pure non aveva toccato direttamente i Cervi, non è così lontano. Una fotografia di vita sperando di tenere lontana la morte, ecco cos’è. Verrà buona più avanti. Con la sensibilità di una mamma e lo spiccato senso di umanità che ha cercato di infondere nei suoi figli, la nonna Genoeffa è una che ha la vista lunga. Ha intuito, col cuore, quello che alcuni storici dicono oggi col cervello: l’Italia in quel periodo è entrata in un tunnel chiamato guerra e ci metterà dieci anni – dal 1935 al 1945 – per arrivare all’uscita. Dieci anni di sofferenze, lutti e devastazioni» (p. 177).
È nel 1940 che Adelmo ricorda l’inizio della Resistenza vera per la famiglia Cervi. È una tempesta. Il padre comincia a darsi da fare. L’11 giugno 1940, sulla prima pagina del fogliaccio fascista di Reggio Emilia, «Il Solco Fascista» ha letto: «L’Italia ha dichiarato guerra alla Gran Bretagna e alla Francia».
Aldo Cervi viene chiamato alle armi, ma per fortuna viene dichiarato riformato per via di un’ernia inguinale. Dopo varie tribolazioni, cominciano gli arresti fascisti di alcuni componenti della famiglia:
«arrestano Gelindo – già ammonito nel ’39, un pericoloso recidivo – e Ferdinando».
È il novembre del 1942 e Aldo comincia a scrivere discorsi politici per i contadini della zona intorno a Campi Rossi. Fino a quando non giunge un annuncio:
«Mussolini è caduto! Il duce non c’è più”/ La guerra è finita! La guerra è finita! […] È il 25 luglio 1943. […] Aldo non riesce a crederci, gli sembra impossibile. Sintomi di debolezza del regime già ce n’erano. [… C’è] il malcontento generale, gente che va in piazza nei paesi perché non ha di che sfamare i figli. […] I disastri in campo militare, poi… In Balcania è un disastro, in Nordafrica è peggio, la Russia è meglio non nominarla neanche ai fascisti. Dappertutto stanno in piedi solo perché li tengono su i tedeschi, e la propaganda degli Alleati dipinge Mussolini come il cagnolino fedele di Hitler» (pp. 236-237).
«1943./ Uno-nove-quattro-tre./ Cristo di una Madonna./ Che anno!/ Dovrei ricordarlo con contentezza./ È l’anno che sono nato – scrive Adelmo./ È l’anno che il mondo si è girato ha detto al nazismo e al fascismo di andare a dare via il culo perché il vento sta cambiando./ È l’anno che a un certo momento si sperava che la guerra fosse finita, che si potesse ricominciare a vivere. Dovrei ricordarlo con odio e rabbia./ È l’anno che mi ha portato via mio padre. […] Il giorno dopo, il 26 luglio, è l’euforia generale./ È il delirio. […] il 27 luglio sarà il giorno della pastasciutta. […] O la pastasciutta, Bidoni pieni di pastasciutta. […] Chili e chili di farina impastati a mano dalle donne dei Campi Rossi. Pasta messa a bollire nei pentoloni sotto lo sguardo soddisfatto e orgoglioso del vecchio Alcide (siamo nel ’43, mio nonno ha sessantotto anni, un’età che in quegli anni lì sei già un vecchio, ma lui è forte). […] Sventola anche una bandiera rossa, tirata fuori da qualche cassettone dov’era sepolta. […] Domani la storia si rimetterà in moto./ Ma oggi, per piacere, lasciateci mangiare in pace.» (pp. 240, 243, 248-249, 251).
È commovente questo commento di Adelmo Cervi. Se la prende con il Tempo, ma sa che all’origine di tutto il male c’è sempre lo scellerato fascismo mussoliniano, lo scellerato nazismo hitleriano, che ora comincia a soccombere sotto i tiri dei partigiani, delle staffette, dei patrioti e un po’ anche degli Alleati, che non è che poi hanno fatto più di tanto. Se non ci fosse stata l’Unione Sovietica, anche noi, nell’anno di vita 2025, saremmo ancora sotto il tallone dei discendenti manganellatori di Mussolini e degli Hitler. E tuttavia, proprio oggi, i loro idioti discendenti impazzano nuovamente un po’ dovunque in Occidente. Ecco perché occorre continuare con la nuova Resistenza, che i popoli di questa parte del mondo hanno già iniziato da tempo.
L’autore del libro Che io conosca il tuo cuore, che è Adelmo Cervi, scrive ora un capitolo drammatico, il cap. 52. È la mattina del 28 luglio 1943, appena tre giorni dopo la caduta del fascismo. Scrive Adelmo che:
«i lavoratori delle Officine Meccaniche Reggiane cominciano a lasciare i reparti. Si radunano, fanno mucchio, corrente, fiume, e si avviano verso i cancelli. Vogliono protestare […] La guerra continua? E noi invece vogliamo la pace. Fuori, poco distante dai cancelli, è arrivato un reparto dell’esercito […] Gli operai li vedono, fanno segni, gridano di non sparare, di unirsi alla loro protesta. Siamo fratelli, siamo italiani, vogliamo solo la pace e un lavoro decente, paghe e razioni che uno ci possa vivere e sfamare la famiglia. L’ufficiale ordina di disperdersi. Gli operai però non indietreggiano. Non sono armati, non hanno un atteggiamento aggressivo. Vogliono solo manifestare pacificamente. L’ufficiale fa puntare le armi. Che è sempre un brutto segno. Poi qualcuno spara […] È così che Antonio Artioli, Vincenzo Bellocchi, Eugenio Fava, Nello Ferretti, Armando Grisendi, Gino Menozzi, Osvaldo Notari e Angelo Tanzi non tornano più a casa, dalle famiglie che li aspettano. E a casa non ci tornano nemmeno Domenica Secchi e la creatura che le sta crescendo dentro. I feriti sono più fortunati. Sono più di cinquanta, ma prima o poi torneranno a casa. […] Eccidio, strage, massacro. […] Aldo e gli altri rimangono sconvolti, quando lo vengono a sapere» (pp. 252-254).
L’8 settembre 1943 è giorno dell’armistizio tra gli Alleati angloamericani e di quel che è rimasto dell’Italia. Il re e Badoglio sono scappati al Sud Italia e le orde naziste invadono e occupano l’Italia. È guerra e fuoco dappertutto. Adelmo scrive che:
«Aldo e gli altri [fratelli e compagni] si stanno muovendo. C’è da fare la Resistenza. […] La Resistenza è dire no./ Aldo Cervi è da un pezzo che l’ha detto, il suo no. E ha convinto anche i suoi fratelli che bisogna dire no. Che bisogna ribellarsi, e per ribellarsi bisogna essere incoscienti, bisogna essere matti./ Tanto è una vita che a noi Cervi ci danno dei matti. [… Ma] che cos’è la Resistenza?/ È il nonno Alcide che rifiuta le pressioni per far prendere la tessera del fascio ai suoi figli./ È la nonna Genoeffa che non dà la sua fede d’oro alla patria./ È Massimo, tuo cugino, che porta un carro con un carico di armi a un tale che ha un cavallo anche lui. Massimo stacca il cavallo e torna indietro, quell’altro attacca il suo cavallo e il carro va in montagna./ È Eletta, la sorella di Irnes e la nipote di Iolanda, che con il coraggio dell’adolescenza nasconde una pistola sotto i vestiti e la porta ai Sarzi [partigiani]./ Gesti piccoli./ La Resistenza è avere paura e farla lo stesso./ La Resistenza è sorridere dentro, perché sai che la stai facendo in nome della vita, non in nome della morte./ La Resistenza è mandare al diavolo i burocrati. È ignorare quelli che trovano sempre una scusa buona per aspettare, per rimandare» (p. 271, 273, 293).
Intanto i gruppi partigiani del reggiano si stanno organizzando per prendere la strada della montagna. Aldo Cervi è tra loro. Assumerà lo pseudonimo di Gino.
«Sul monte Ventasso, dunque, a un certo punto arriva anche la banda Cervi. […] Aldo bazzica questa zona di boschi e boscaioli fin dai primi giorni dopo l’8 settembre. La sua presenza insolitamente silenziosa in una casa di Marmoreto […] per discutere dell’organizzazione di bande armate con un conoscente, un antifascista appena tornato da un periodo di prigionia in un carcere alle Tremiti» (p. 320).
Si organizza la lotta partigiana. Aldo Cervi, assieme ad altri, organizza la resistenza armata. E soprattutto camminano,
«hanno catturato per strada un camioncino o un furgone. […] Dodici, forse quindici persone».
Assaltano la stazione dei carabinieri di Toano, li disarmano e portano via le loro armi. Scrive Adelmo:
«Non è un gran bottino, ma è sempre meglio di niente. Ed è una prima vittoria, che non lascia morti sul campo ma va benissimo per tenere alto il morale» (pp. 330-331).
La resistenza di Aldo Cervi continua tra comprensioni e incomprensioni, soprattutto con alcuni dirigenti del PCI reggiano. Un’altra azione partigiana la organizzano il 6 novembre 1943, sempre contro i carabinieri che stazionano a San Martino in Rio, un paesone appeso sotto Correggio. E qui la storia andrà come andrà, senza morti e feriti. Il resto della lotta partigiana della banda Cervi è fatta di rapine per finanziare la Resistenza. No. Anzi. C’è ancora un’altra azione che però va buca. Si tratta di rapire un pezzo grosso dei fascisti reggiani. L’azione però fallisce, perché sfugge al rapimento il commissario federale Giuseppe Scolari. Continuano [invece] le rapine a mano armata e poi si arriva
«al 20 di novembre. Il 21, il 22, il 23… […] Aldo va e viene come un matto e comincia a smistare la “brigata internazionale” [nel gruppo Cervi c’erano dei russi ma anche di altre nazioni] dei Campi Rossi» (pp. 351 e sgg.).
Siamo alla fine del romanzo storico di Adelmo Cervi. «È la notte del 24 novembre» e piove. I fratelli Cervi sono tutti a Campi Rossi. Adelmo pubblica la missiva del podestà di Gattatico, di cui parte di essa recita:
«questa mattina alle ore 6.30 circa la popolazione delle frazioni del capoluogo, di Olmo, Taneto, e Nocetolo fu svegliata dallo sparo di armi da fuoco provenienti da località sita in direzione del viciniore Camune di Campegine./ Dalle indagini esperite, anche a mezzo dell’Arma dei Carabinieri, si poté accertare che precisamente alle 5.00 un reparto di M.V.S.N. (la milizia fascista), comandata dal Centurione Sig. Pilati, aveva raggiunto i pressi della casa colonica della famiglia Cervi Alcide fu Agostino, composta di n. 19 persone, sita in Praticello via Bergonza n. 8, allo scopo di accertare se detta famiglia desse alloggio e protezione a prigionieri di nazionalità nemica, esercitasse la macellazione clandestina, fosse dedita al mercato nero. Ecc./ Il Comandante prima di fare uso delle armi, avvertì del suo compito, ma ne ebbe per pronta risposta una raffica di fucili mitragliatori che fortunatamente non fece vittime fra i militi./ Ingaggiato il combattimento presto i difensori furono sopraffatti e si arresero./ A seguito dell’incendio del fienile si udirono degli scoppi, certo dovuto ad armi e munizioni nascoste./ Oltra ad altra munizione xxxxx scoperta in seguito alla perquisizione operata sono state rinvenute circa/50 pelli bovine conciate e semi conciate, nonché un quarto di vitello/ macellato certamente in data abbastanza recente./ Sembra pure che nell’abitazione si trovassero ospitati prigionieri di nazionalità nemica che sarebbero stati trasportati, unitamente ai Cervi, alle carceri per essere sottoposti al procedimento giudiziario lo(ro) incombente./ La popolazione del Comune, in un primo tempo allarmata dall’avvenimento, è ritornata ora in perfetta calma e attende con spirito sereno il giudizio a carico dei responsabili d(ei) gravissimi reati. Con osservanza…» (pp. 357-358).
Adelmo continua a riflettere:
«Il fascio a casa Cervi arriva la mattina presto, il 25 novembre. Siamo lì tutti, anch’io che ho appena compiuto tre mesi. […] I primi colpi partono che è ancora buio./ “I fascisti”./ Si sono avvicinati senza far rumore./ I Cervi e gli altri uomini saranno due ore che dormono./ Li hanno circondati. Sono in trappola./ Arrendersi o morire, altra scelta non c’è./ Le brevi fiammelle delle armi col buio si vedono di più./ Giù dal letto, chi dorme in solaio, chi nelle camere, chi nella stalla. Mezzi vestiti, stanchi, scarmigliati, presi di sorpresa, pare che l’alba sia il momento più propizio per cogliere qualcuno impreparato./ Dicono che li spiavano da diversi giorni, almeno due agenti in borghese./ Dicono che hanno sparato come matti. Volonté nel film, col mitra alla finestra./ Dicono che no, le armi in buona parte le avevano portate via, o erano impacchettate nel pagliaio, o nel solaio./ Dicono che hanno tirato anche delle bombe a mano: la casa è un arsenale./ Dicono che avevano solo qualche rivoltella sottomano, cosa vuoi che facessero contro cento e passa fascisti?/ “Cervi, arrendetevi!”. [… I fascisti appiccano il fuoco agli edifici] “Lo volete capire sì o no chi comanda?”. “Cervi, arrendetevi!”. Trentadue [fascisti] sono comunque più del doppio di loro./ E c’è il fuoco, e i bambini che piangono spaventati./ Cosa possono fare? Si arrendono. Escono fuori uno dopo l’altro, con le mani alzate. […] Due corriere, […] vi fanno salire, te [Aldo], gli zii e gli stranieri – e il nonno, che vuole venire anche lui, anche se è vecchio. […] Poi la paura, la devastazione, il pensiero di cosa succederà domani. Poi le preghiere della nonna Genoeffa. [C’è un bel capitolo – il 24 – che Adelmo dedica a sua nonna Genoeffa e alle sue due figlie – Diomira e Rina. In esso svela il bel rapporto che vive nella famiglia grazie a nonno Alcide e alla nonna]. Poi basta./ Vi hanno preso./ Ti hanno preso» (pp. 359-362).
Siamo alla fine del romanzo. Anche la narrazione di Adelmo si fa commovente. Adesso scrive del carcere dei Servi a Reggio Emilia,
«anche senza poterci entrare, si capisce che è un poso orrendo, un poso di merda. È stato un convento, poi una caserma. Il fascio repubblichino lo trasforma in prigione e luogo di tortura. […] I panni dei Cervi glieli vanno a prendere le donne, appena saputo che sono rinchiusi lì. E sono sporchi di sangue. […] I Cervi e i Camurri li mettono insieme […] Il nonno lo risparmiano […] ma agli altri fanno fare il “giro della scala”: devi salire una scala in mezzo a due file di militi e secondini che ti pestano con tutto quello che hanno sottomano. Bastoni, cinturoni, bandoliere, giù botte dove capita e guai se cadi. Semplice, rapido, efficace./ Serve a farti capire chi comanda e quanti vali. Zero. […] La prova decisiva contro mio padre e gli altri che l’hanno spalleggiato, i fascisti gliel’hanno trovata proprio in casa. Sono i loro compagni stranieri. […] Dopo tre o quattro giorni ai Servi, i sette fratelli e il loro padre – insieme a Quarto Camurri [disertore della milizia fascista, divenuto anch’egli partigiano], che ormai fa parte del gruppo – vengono spostati dalle autorità fasciste nell’altro carcere, quello giudiziario di San Tommaso» (pp. 363-366).
Ora Adelmo racconta quello che non avrebbe voluto mai raccontare, eppure tocca a lui farlo. È quello che ha raccolto il maggior numero di informazioni. Scrive:
«Il nonno Alcide e i miei zii li interrogano tra il 9 e il 10 dicembre. […] non tradiscono» (pp. 371-372).
Aldo, con lo pseudonimo di Gino, dal carcere di San Tommaso, scriverà alla mamma Genoeffa e alla moglie Verina. Cerca di rassicurarle, prospettando loro che egli non ha paura della fine che gli vorranno fare. Oggi suo figlio Adelmo scrive:
«È il 28 dicembre del 1943. [… È] quel muro lì, non mi sbaglio, […] È dietro e dentro a quel muro lì che è successo l’atto finale. La fine di tutto. Ma per certi versi anche l’inizio, […] È dietro e dentro quel muro lì che ti trovi adesso. È lì che sto arrivando. Aspettami./ La commemorazione./ Il rito./ La gente, le autorità, i discorsi./ Il sole, il freddo di una giornata limpida./ Fermi accanto alle lapidi./ A sinistra la tua, la vostra. A destra l’altra, quella del “nostro” prete./ Fotografie. Fotografie. Fotografie./ La piccola folla che si incolonna lungo il muro di mattoni rossi./ Che freddo, papà./ Oggi fa tanto freddo e vorrei tenerti per mano. Adesso, in quest’alba buia e gelata, tremo e sento che tremi anche tu. È il freddo, certo, ed è la paura. Tu e gli zii avete capito che in questo posto possono avervi portato solo per un motivo. Vorrei tenerti per mano per portarti via da qui, subito, ma non ci vedo bene. Sarà la nebbia, sarà il tempo./ Che brutto questo poligono di tiro. Dove i soldati si addestrano a mirare, un occhio chiuso e l’altro che mette in fila il mirino con la sagoma di legno e cartone. Ma te e gli zii non siete mica fatti di legno e cartone. […] Hai paura papà?/ Dimmelo per favore, ché ho bisogno di saperlo. […] Sei tu che hai voluto fare politica, tu che hai detto [ai tuoi fratelli]: “Cambiamo il mondo”. Tu che hai preso le armi, tu che hai detto: “Via i fascisti a calci in culo”. Ti hanno dato ascolto, hanno ragionato, si sono fidati./ Pensavi che tu potevi anche morire, ma loro no. Non credevi, non volevi far morire anche loro./ Non adesso!/ Adesso che sono i fascisti a prenderti a calci in culo, altro che balle. E i tuoi fratelli, e quel poveraccio di Camurri, che c’entra meno di niente… Tutti a calci in culo./ Li vedo, i fascisti vestiti di scuro che marciano coi fucili in spalla. Non hanno facce, vedo solo gli occhi bianchi nel buio./ Buio perché è presto. Non c’è il sole. […] Forse hanno paura anche loro, quelli con i fucili in spalla. Forse hanno degli amici o dei fratelli come voi, forse pensano che domani potrebbero esserci loro, al vostro posto, chi lo sa. Vorrei parlare anche con loro, se potessi, anche se non so bene cosa dirgli… Forse solo: “Andate via, per piacere, tornatevene a casa, al caldo, tornate dai vostri bambini, lasciate stare il mio papà. È un partigiano, che è una cosa buona. Lui non è cattivo, non ha ucciso nessuno, perché volete fargli del male?”» (pp. 391-393).
Siamo al culmine della tragedia. Ed è come la tragedia di Troia. Solo che in quella, storica e mitica, è il padre Priamo che piange il figlio Ettore, ucciso dal malvagio Achille. Mentre qui, nel poligono di tiro di Reggio Emilia, è il figlio Adelmo che piange il padre Aldo Cervi, ucciso dagli assassini fascisti, tutti, da Mussolini all’ultimo schifoso componente il plotone di esecuzione, senza nome e senza gloria.
Il lamento del figlio Adelmo continua. Non trova pace. Scrive:
«L’ufficiale dà gli ordini, voi li guardate con i vostri occhi di gente buona, loro vi guardano con gli occhi neri dei fucili, lo zio Gelindo grida: “Noi non moriremo mai”. Poi partono i colpi./ Non fanno così tanto rumore, gli schiocchi si perdono subito nell’aria gelata, mangiati dal buio. […] Non, non siete fatti di cartone e di legno: dal cartone e dal legno non esce mica il sangue. Il muro dietro di voi c’è abituato, alle fucilate; sentirà appena un fastidio, come voi con le zanzare d’estate, nei campi./ Cadete.// Cadono./ Le rose in piedi contro il muro, dritte, sottili./ Cadono./ Prima una, che comincia a inclinarsi./ Poi un’altra, e un’altra./ Cadono./ Sembra fatto apposta./ Eppure è vero.// Lo zio Gelindo ha detto una bugia, perché siete morti, stesi sulla terra fredda, state diventando freddi anche voi, il respiro che si disperde e si arresta, il sangue che scappa dai buchi, così scuro in questo buio che fa paura. Ho talmente freddo che neanche se mi buttassi dentro il camino di casa acceso riuscirei a scaldarmi.// Con le rose è più facile./ Le raccogliamo, le mettiamo dritte./ Foto, mormorii./ Gli occhi su quelle otto rose./ Che resteranno lì un po’./ Geleranno, appassiranno./ Finché un custode o un operaio indifferente le raccoglierà e le butterà via» (pp. 394-396).
Appunto la tragedia troiana. Non contendo il malvagio Achille attacca il corpo di Ettore alla sua biga e spavaldamente lo trascina tutt’intorno le mura di Troia. Lo squarta e lo sbrandella. E tuttavia Priamo, il padre di quei poveri resti umani che appartengono al figlio Ettore, li vuole recuperare, vuole dare loro una degna sepoltura. Dovrà trattare col malvagio per averli. Ecco qual è il risultato di una guerra tremenda: sangue e morte.
Adelmo, vive oggi come ieri, la tragedia di suo padre Aldo e dei suoi sei zii – Ovidio, Gelindo, Antenore, Ettore, Ferdinando, Agostino – uccisi dagli assassini fascisti, che:
«i cadaveri te li lasciano lì in bella vista, col sangue, le gambe piegate e le facce attorcigliate in una smorfia storta […] Se non li mostri, i morti [Achille trascina il corpo di Ettore morto sotto le mura di Troia] a cosa serve la rappresaglia?/ Qui invece li nascondono, li fanno sparire. Un finto tribunale, che decide tutto in un’ora. [… LA SENTENZA]: “Il Tribunale straordinario condanna a morte otto individui – La sentenza è stata eseguita.// Questa notte si è riunito d’urgenza il Tribunale Straordinario il quale ha pronunciato la sentenza capitale a carico di otto elementi, rei confessi di violenza e aggressioni di carattere comune e politico, di connivenza e favoreggiamento con elementi antinazionali e comunisti, di sovvertimento dell’ordine nazionale condotto con la propaganda e l’uso delle armi. La sentenza è stata eseguita all’alba di oggi 28 dicembre” [1943] Un’esecuzione arbitraria […] Ricordi quando il regio esercito, prima di processarti, ci ha messo mesi, e pile di incartamenti? Domande, deposizioni, chi ha detto così, chi ha detto cosà…/ Qui niente. Niente verbali, avvocati, cancellieri. Solo boia» (pp. 397-398).
La tragedia dei sette fratelli Cervi (più uno fuori famiglia) si è compiuta: Ettore è stato finalmente ucciso e con lui è stata uccisa l’intera città di Troia, incendiata, devastata. Adelmo scrive:
«Ai Campi Rossi è la desolazione. Le donne l’hanno scoperto quasi subito. […] Piange la nonna, piangono le nuore che han perso i mariti, e le sorelle che han perso i fratelli. […] Che gelo, dentro e fuori. Genoeffa [la nonna] è schiantata, il dolore di tanti è niente, è ricordo di vita. Ma questo dolore parla soltanto di morte, non ha nulla di benefico, ristagna dentro come un cancro, morde giorno dopo giorno. […] La mamma dei sette figli, che non ci sono più, resiste tre mesi e poi scoppia./ “Cido [Alcide], i nostri figli li hanno ammazzati, non ci sono più. […] Quando [Alcide] scopre la verità, il nonno tira su un muro. La nonna, invece, comincia a cedere. […] Ai tempi si parla di “crepacuore”. Cosa sia stato, se un infarto o un tumore, io non lo so. So che la nonna Genoeffa se ne è andata nel novembre del ’44, perché non sa più cosa fare sulla porta di casa» (pp. 401, 404-445).
C’è una storia nella storia in questo bellissimo romanzo storico-moderno di Adelmo Cervi, ed è la consapevolezza, nonostante il dolore che si trattiene nei cuori, di chi sopravvive, di chi fa ogni sforzo per continuare a vivere. È questo il più grande monumento della tragedia dei sette fratelli Cervi: la sopravvivenza. Nel corso dei decenni scopriremo che tale monumento è rappresentato da papà Cervi (1875-1970), che con il suo libro renderà leggenda e mito la tragedia del poligono di tiro di Reggio Emilia. Alcide, dopo l’uccisione dei figli, al funerale, disse: «Dopo un raccolto ne viene un altro».
E così che pensò alla sopravvivenza delle sue nuore, delle due figlie, e dei suoi undici nipoti. Continuò a lavorare la terra e dar da mangiare agli animali. Adelmo lo ricorda come un uomo che non cercò mai la vendetta per quello che era successo:
«ha pensato che per essere degno dei suoi figli bisognava lavorare per creare un po’ di giustizia in questo mondo».
«Ecco – scrive Adelmo – la storia potrebbe anche finire qui./ Tu sei morto e sepolto [Aldo, il padre] non ci sei più, e forse non ci sono più neanche io. Di sicuro con te se n’è andato via un bel pezzo di me, un pezzo del mio cuore, della mia testa, dei miei polmoni. […] Che poi lo so, lo capisco, pian piano, che non è finita… Che voi siete andati ma che siete anche restati. E che, dopo di voi, molti sono andati in montagna o qui in città a combattere da partigiani, nei CAP, nelle SAP, nelle Brigate Garibaldi, contro i fascisti e i nazisti.// “Fate largo che passa/ La Brigata Garibaldi/ La più bella, la più forte/ La più ardita che ci sia”,» (p. 407).
Adelmo Cervi, l’autore (assieme a Giovanni Zucca) del libro Io che conosco il tuo cuore (oggi in seconda edizione anche I miei sette padri) si pone ancora altre domande come, ad esempio, il perché ai martiri antifascisti e partigiani del poligono di tiro di Reggio Emilia, lo Stato ha conferito solo delle Medaglie di argento. Adelmo non dimentica. Scrive:
«Morti da coraggiosi, morti senza aspettarvelo, morti perché avete pensato che forse non sareste morti, non tutti, non tutti insieme, non così, porca di quella…/ Morti» (p. 408).
Adelmo avrebbe voluto concludere il suo romanzo già da un pezzo, ma non ce la fa a metterci una pietra su. I ricordi lo affannano e le sorgenti dolorose riemergono. Si sente costretto a scrivere. E continua a farlo:
«Aldo [suo padre] era già partigiano prima ancora di toccare un’arma. Partigiano perché “di parte”, di quella parte che lui sentiva giusta. Perché non c’erano due parti giuste. Ce n’era una sola, e non era quella di Auschwitz, non era quella delle stragi di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema e delle Fosse Ardeatina. È la stessa parte dove sto io./ La parte della pace. Della giustizia. Dell’uguaglianza. La parte dei fratelli Cervi. […] Maledetta guerra che non mi abbandoni. […] La guerra trasforma, schiaccia, uccide, sconvolge esistenze, trova assassini in uomini normali. La guerra non dovrebbe esistere./ Ma la guerra finisce anche. Finisce con quel messaggio che ho sempre portato nel cuore./ ALDO DICE 26 x 1./ Aldo dice ventisei per uno./ Aldo dice “25 Aprile”/ Il messaggio che segnala il giorno dell’insurrezione generale. Che qui a Reggio, che siamo gente sbrigativa, siamo già liberi il 24. E io guardo le foto e ti vedo sfilare coi partigiani in festa nelle strade e nelle piazze di Reggio./ Ti vedo come se fossimo lì tutti e due, e tu mi tieni per mano e insieme gridiamo: “Viva la libertà!”. E vedo anche lo zio Antenore e lo zio Gelindo, lo zio Agostino, lo zio Ovidio e lo zio Ferdinando – e lo zio Ettore, che è venuto in piazza ma ha fretta, perché deve andare a morosa. Chissà com’è bella la sua fidanzata. E che buffi quei berretti a scacchi bianchi e neri che avete tutti e sette. Che matti, noi Cervi./ Il fascio si era illuso di farvi sparire, seppellendovi di nascosto in un cimitero non più in uso. Ma le stesse bombe, che hanno aperto la porta del carcere al nonno, hanno aperto anche le vostre tombe a Villa Ospizio. Vi hanno visti, vi hanno riconosciuti. Il fascio allora vi ha nascosti un’altra volta, ma voi non avete voluto saperne, di sparire./ Vi hanno dato la medaglia e il certificato di patriota e, ai funerali ufficiali, subito dopo la guerra, è venuta un marea di gente./ Tutti lì per i Cervi. Strani, matti e ribelli» (pp. 417, 420-423)
Quando, nel 2015, in un liceo di Lecce, ho conosciuto Adelmo Cervi, sapevo di doverlo ancora incontrare. Aspettavo che il Tempo passasse. Ed è così che la fortuna si è voltata dalla mia parte. Anche dalla sua però. È giugno 2025. L’8 e il 9 si vota al referendum per la dignità del lavoro e la cittadinanza italiana a chi ne ha bisogno. Dal palco in piazza Mazzini, Adelmo incita la gente ad andare a votare e lo fa al grido di Libertà, Libertà, Libertà.
Seduto tra la gente, lo guardo che ha indosso una maglietta rossa e un paio di pantaloncini blu. Così mi viene in mente una poesia, tra le tante pubblicate nel suo libro; una poesia scritta durante la seconda guerra mondiale da un anonimo soldato ucraino, poi fucilato dai cosacchi. Questa: «Rosso si levi/ Il sol dell’avvenire/ Sulle spighe dei campi/ Sui lucenti opifici/ compagno mi chiedevi/ Se lottare e soffrire/ Della guerra ora i lampi/ Ci chiedono sacrifici/ Compagno contadino/ Compagno macchinista/ Sarà comune il mattino/ Della causa comunista!» (p. 298).


