Alla ricerca della Pace perduta

di Pompeo Maritati
Ci sono parole che pesano come macigni e, tra queste, una in particolare sembra oggi smarrita, lacerata, dimenticata nei cassetti della storia: pace. Una parola che ho sentito risuonare per tutta la vita come una meta da raggiungere, un ideale verso cui orientare il cammino dell’umanità, una promessa fatta e troppe volte tradita. Ora, nella mia età avanzata, osservo il mondo con occhi stanchi, ma ancora vigili, e vedo affievolirsi sempre più quella speranza che per decenni mi ha sostenuto.
Il XXI secolo si sta rivelando una tragica ironia della storia. Dove ci aspettavamo progresso, evoluzione etica, consapevolezza globale, troviamo invece il ritorno feroce della violenza, la spettacolarizzazione del conflitto, l’assuefazione alla guerra. Guerre dimenticate, guerre ignorate, guerre giustificate da interessi economici, geopolitici, ideologici. Ma tutte, indistintamente, guerre ingiuste.
Ci troviamo, oggi, sotto il giogo di una manciata di uomini, dieci, venti, forse trenta al massimo che, agendo nell’ombra o alla luce delle telecamere, orientano il destino di interi popoli. Soggetti al servizio non di ideali superiori, non del bene comune, ma dei profitti insaziabili delle multinazionali, dei colossi della produzione bellica, delle lobby che manovrano a loro piacimento le agende politiche delle nazioni.
La diplomazia, un tempo nobile arte per scongiurare i conflitti, appare oggi relegata a recita di facciata, un esercizio retorico privo di reale volontà. Le parole sono svuotate, i tavoli dei negoziati sono spesso solo scenografie per nascondere l’inevitabile: la scelta della guerra come strumento privilegiato per risolvere le controversie internazionali. Non per incapacità di dialogare, ma per precisa volontà di non farlo. Perché la guerra, per alcuni, è semplicemente più redditizia.
In questo contesto, il mio rammarico diventa lamento. Ho vissuto sperando che il genere umano imparasse dalla propria storia. Dopo le atrocità del Novecento, dopo due guerre mondiali, dopo genocidi, pulizie etniche, bombardamenti indiscriminati, credevo ingenuamente, ora lo ammetto, che l’umanità avrebbe scelto una via diversa, più luminosa. Invece, si torna a parlare di armi come di pane quotidiano. Si tornano a produrre missili, droni, mine, strumenti di morte di ultima generazione con orgoglio tecnologico. Come se uccidere con più precisione fosse un merito.
E ciò che fa più male non è solo la scelta dei potenti, ma la passività delle masse. Una passività alimentata, costruita, coltivata scientificamente da mezzi di comunicazione che non informano, ma ipnotizzano. I mass media, divenuti megafoni del potere economico, hanno riplasmato le coscienze, sterilizzato il pensiero critico, svuotato le parole del loro senso originario. Le guerre diventano “operazioni”, le vittime “effetti collaterali”, gli assassini “difensori della libertà”.
C’è una disumanizzazione in atto, silenziosa e profonda. La morte, lo strazio, le rovine delle città bombardate, i volti dei bambini straziati da ordigni, tutto questo scorre sugli schermi con lo stesso distacco con cui si guarda una serie televisiva. La realtà e la fiction si confondono. E l’indifferenza cresce, come una muffa sulle pareti dell’anima.
Mi domando: dov’è finito lo spirito civico? Dov’è l’indignazione collettiva? Dove sono le piazze piene di persone che urlano no alla guerra? Perché non ci si ribella più? Perché l’essere umano ha smesso di sentire sulla propria pelle il dolore dell’altro?
La risposta, forse, è semplice e al tempo stesso spaventosa: ci siamo arresi. Abbiamo accettato il mondo così com’è, cinico, spietato, programmato per la sopraffazione. Ci siamo convinti che nulla si possa cambiare. Ed è in questa rassegnazione che si annida il nostro fallimento più grande.
Non c’è giustificazione possibile alla guerra. Nessuna. E non ci sono guerre giuste. Ogni conflitto è il fallimento della civiltà. Ogni bomba che cade su una scuola, su un ospedale, su un mercato, è una vergogna incancellabile per tutta l’umanità. Ogni madre che piange un figlio morto al fronte o sotto le macerie, è un atto d’accusa che pesa sulle nostre coscienze.
È un mondo che ha perso l’orientamento. Ha smarrito la bussola morale. Non riconosce più il valore della pace come fondamento stesso della vita sociale. Preferisce investire in armi anziché in istruzione, in propaganda anziché in cultura, in sorveglianza anziché in dialogo.
Ed io, che ho dedicato anni a credere nella possibilità di una società più giusta, oggi vedo prevalere la paura, l’odio, la diffidenza. Vedo uomini che si voltano dall’altra parte, che chiudono le finestre per non sentire le urla, che cambiano canale per non vedere il dolore. E mi chiedo, con profonda amarezza: se questo è un uomo.
La pace non è un’utopia. È una scelta. È un atto politico, etico, umano. È una costruzione faticosa, quotidiana, che parte dal rispetto per l’altro, dalla capacità di ascolto, dal coraggio di dire no alla logica della vendetta, della punizione, dell’annientamento.
Ciò che manca oggi non sono le possibilità di dialogo, ma la volontà di esercitarle. E ciò che manca alla società civile è la consapevolezza del proprio potere. Se milioni di persone scendessero in strada, , se si facesse pressione vera sui governi, sui parlamenti, sulle istituzioni internazionali, allora forse qualcosa potrebbe ancora cambiare. Ma per farlo bisogna svegliarsi. Uscire dalla trance dell’informazione pilotata, dalla trappola dell’individualismo, dalla prigione della paura.
Alla mia età, non posso più essere illuso. Ma posso ancora essere testimone. E il mio testamento ideale è questo: non smettete di cercare la pace. Non lasciate che vi venga sottratta come se fosse una questione tecnica, militare, geopolitica. La pace è nostra, è di ciascuno di noi. E solo noi possiamo custodirla o perderla.
In questo tempo di menzogne travestite da verità, di armi travestite da sicurezza, di odio travestito da difesa, occorre un atto di coraggio: tornare a pensare. Tornare a sentire. Tornare a scegliere.
Alla ricerca della pace perduta, dunque, non come nostalgici di un’epoca che forse non è mai esistita, ma come custodi di un’idea che non può morire. Perché quando la pace muore, con essa muore l’umanità.
E allora, ancora una volta, lo ripeto con fermezza: SE QUESTO È UN UOMO, come scrisse il grande Primo Levi nel suo libro immortale, se questo è davvero l’uomo che stiamo diventando, indifferente, violento, manipolabile, disumano, allora è nostro dovere morale rifiutare questa immagine e ricostruirne una nuova, fondata sulla compassione, sul dialogo e sulla giustizia.
Se questo è un uomo, non può essere l’uomo che vogliamo essere.