IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Andrea 18 anni, figlio di una Italia che non lo vuole più

un giovane di 18 anni e un adulto di sessanta, seduti ad un tavolino di un bar a parlare, loro soli, in bianco e nero

di Pompeo Maritati

Alcuni giorni fa mi sono intrattenuto in una lunga e triste discussione con Andrea, un giovane di 18 anni a me molto caro. Abbiamo discusso sul suo presente e sul suo futuro. Dopo, gli ho chiesto se gli andava di mettere giù due righe che contenessero, succintamente, ma chiaramente,  il suo pensiero, le sue delusioni, le sue speranze. Ecco, qui di seguito la sua riflessione.  

Mi chiamo Andrea, ho diciotto anni e tra pochi mesi dovrei affrontare l’esame di maturità. Dico “dovrei” perché, in fondo, mi chiedo a cosa serva. Un foglio di carta, una stretta di mano da qualche professore stanco e disilluso, e poi? E poi il nulla. O peggio, un salto nel vuoto senza paracadute.

Osservo il mondo che mi circonda e tutto quello che vedo è un grande ingranaggio arrugginito, che continua a girare cigolando, portando avanti una società che non ha più nulla da offrire a noi giovani. Siamo cresciuti con la promessa che studiare fosse la chiave per il futuro, che la fatica avrebbe portato risultati, che il merito sarebbe stato riconosciuto. Bugie. O, almeno, cose che appartenevano a un tempo che non c’è più.

Guardo mio nonno, seduto sulla poltrona, con la televisione accesa su un telegiornale che annuncia l’ennesimo rincaro delle bollette, mentre lui scuote la testa. Lo sento borbottare tra sé e sé, lamentarsi di una pensione che non basta mai, di una sanità che sembra aver dimenticato le persone come lui. “Se ti ammali e non hai soldi, sei finito”, mi dice. Lo guardo negli occhi e vedo il timore di chi ha lavorato una vita intera e ora ha paura persino di avere bisogno di un medico.

Poi ci sono i miei genitori. Tormentati, stanchi, svuotati. Li vedo rientrare la sera dopo dieci, dodici ore di lavoro. Mia madre, con le occhiaie profonde, che cerca di sorridere ma non ci riesce più. Mio padre, che lascia cadere la giacca sulla sedia e si passa una mano tra i capelli, senza nemmeno parlare. Hanno un lavoro, per carità, e dovrei ritenermi fortunato per questo, ma a che prezzo? La loro vita si consuma tra turni massacranti e stipendi che bastano a malapena per pagare affitto, bollette e spese quotidiane. Parlano poco, e quando lo fanno è sempre di soldi che non ci sono mai, di sacrifici sempre più grandi per una vita sempre più piccola.

E poi ci siamo noi, i giovani. Quelli a cui dicono che siamo il futuro, ma che in realtà un futuro non ce l’abbiamo. Studiare all’università? Certo, se i tuoi genitori possono permetterselo. Tra tasse, libri e affitti alle stelle, il diritto allo studio è diventato un privilegio per pochi. Gli altri si arrangiano, cercano lavoretti sottopagati che spesso non portano da nessuna parte, o partono, vanno via, sperando che all’estero ci sia un posto per loro. Perché qui, nella terra in cui sono nati, nessuno li vuole.

Nel frattempo, il mondo intorno a noi va a rotoli. Ogni giorno sentiamo parlare di guerre, di conflitti, di armi, di miliardi spesi per la difesa mentre c’è chi muore di fame e chi non può curarsi. Si investe in distruzione, mentre per costruire qualcosa di buono non ci sono mai soldi. La politica è diventata un’arena in cui si combatte un tutti contro tutti, in cui il buon senso è scomparso e la diplomazia è solo un vecchio ricordo. Gli slogan riempiono le piazze e i social, ma poi non cambia nulla.

E noi restiamo qui, spettatori di un mondo che ci ha tolto tutto: il diritto di sognare, la speranza, persino la leggerezza della nostra età. A diciotto anni dovrei sentirmi pieno di vita, con il cuore che batte forte per il futuro. Invece mi sento svuotato, come se mi avessero rubato qualcosa ancor prima che potessi afferrarlo.

Ci dicono di non lamentarci, che “ai loro tempi” era anche peggio. Ma almeno i nostri nonni sapevano che un lavoro, una casa, una famiglia erano cose possibili. Noi non sappiamo nemmeno se domani ci sveglieremo con qualche nuova crisi economica che spazzerà via anche quel poco che ci è rimasto. Viviamo in un tempo in cui crescere significa perdere pezzi di noi stessi, rinunciare ai sogni per imparare a sopravvivere.

E allora mi chiedo: che senso ha tutto questo? Che senso ha studiare, impegnarsi, credere in qualcosa quando tutto sembra già deciso? Che futuro può avere un Paese che non investe nei suoi giovani, che li abbandona e li costringe a cercare altrove una speranza? Non vogliamo miracoli, vogliamo solo ciò che ci spetta: una possibilità.

Voglio guardare avanti senza paura. Voglio poter immaginare un domani in cui non dovrò scegliere tra pagare un affitto e mangiare, in cui il mio lavoro avrà un valore, in cui potrò costruire qualcosa senza sentirmi sempre sul filo del rasoio. Voglio un mondo in cui la politica torni a essere fatta per le persone e non per gli interessi, in cui la sanità sia un diritto e non un lusso, in cui l’istruzione non sia un privilegio ma una base su cui tutti possano costruire il proprio futuro.

Non voglio più vivere con la sensazione di essere un ospite indesiderato nel mio stesso tempo. Voglio sentirmi parte di qualcosa, voglio avere un posto in questo mondo. Voglio credere che la mia generazione non sarà ricordata come quella dei giovani perduti, ma come quella che ha avuto il coraggio di chiedere di più. Perché ci meritiamo di più. Perché il futuro ci appartiene, e non permetteremo a nessuno di portarcelo via.


Io sono un adulto, parte di quella generazione che Andrea accusa, e non posso fare a meno di sentirmi colpevole. Ho letto le sue parole con un nodo alla gola, con il peso di una responsabilità che non posso negare. I suoi pensieri sono un grido di dolore e di rabbia, il riflesso di un fallimento che non possiamo più ignorare. Abbiamo sempre detto che lavoravamo per costruire un futuro migliore, che volevamo garantire ai nostri figli più di quello che avevamo avuto noi. Ma guardandoci indietro, dobbiamo ammettere che non ci siamo riusciti. Abbiamo inseguito la crescita economica, lo sviluppo tecnologico, il progresso, eppure ci siamo persi lungo la strada. Abbiamo creato una società in cui il valore delle persone è misurato in base alla loro produttività, in cui la stabilità è diventata un lusso e la speranza un sentimento ingenuo.

Non possiamo negarlo: abbiamo fallito nel proteggere il lavoro, rendendolo sempre più precario e malpagato. Abbiamo permesso che il diritto alla salute diventasse una questione economica, che l’istruzione perdesse il suo ruolo di ascensore sociale, trasformandosi in un privilegio per pochi. Abbiamo lasciato che la politica si riducesse a uno scontro sterile tra fazioni, dimenticando che il vero scopo di governare è migliorare la vita delle persone. E mentre i giovani cercano risposte, noi adulti ci rifugiamo nelle scuse. Diciamo che il mondo è cambiato, che la globalizzazione, le crisi economiche e le guerre ci hanno travolto. Ma la verità è che siamo stati complici di questo sistema, chiudendo gli occhi di fronte alle ingiustizie, accettando compromessi, inseguendo il benessere personale invece di lottare per un benessere collettivo.

Andrea ci chiede come sia possibile che si investa in armi mentre non ci sono soldi per l’istruzione e la sanità. E noi, sinceramente, che risposta possiamo dargli? Non possiamo dire che non lo sapevamo, non possiamo dire che non avevamo il potere di cambiare le cose. La verità è che non abbiamo lottato abbastanza, che ci siamo arresi alla logica del “non si può fare altrimenti”. Abbiamo lasciato che la paura e il conformismo ci guidassero, e ora i nostri figli pagano il prezzo delle nostre scelte. Abbiamo insegnato loro a sognare, ma non abbiamo dato loro gli strumenti per realizzare quei sogni. Li abbiamo spinti a studiare, ma non abbiamo garantito loro un posto nel mondo. Abbiamo parlato di sacrifici, ma senza offrire loro un orizzonte in cui credere. Ora, di fronte a questa disillusione, non possiamo restare immobili. Non possiamo rispondere ad Andrea con rassegnazione o paternalismo. Dobbiamo assumerci la nostra responsabilità e fare qualcosa, non per noi, ma per loro. Non basta compatire i giovani o dirsi dispiaciuti. Dobbiamo agire, dobbiamo pretendere un cambiamento reale. Dobbiamo riscoprire il valore della politica come strumento di progresso, dobbiamo rimettere al centro la giustizia sociale, dobbiamo costruire un sistema che non si basi solo sul profitto, ma sul benessere delle persone.

Andrea e i suoi coetanei hanno bisogno di speranza. E se c’è una cosa che possiamo ancora fare è dimostrare loro che il futuro non è già scritto, che le cose possono cambiare se tutti iniziamo a prenderci la responsabilità di farlo. Non è troppo tardi per rimediare, ma dobbiamo volerlo davvero. Perché il futuro non appartiene solo a loro: è nelle nostre mani, e dipende dalle scelte che faremo oggi. Sarebbe ora che uscissimo dalla nostra atavica rassegnazione.


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