IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

 “Bartolo Campailla”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello  – Prima parte

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Quartiere Coppedè Roma

In casa del conte C. quella sera c’era una strana aria di mistero.

Sin dal pomeriggio il signor conte aveva avvertito il portiere di

accompagnare con discrezione due signori che avrebbero

chiesto di lui.

Appena dopo il tramonto, il portiere restò vivamente sorpreso

allorché bussarono al grande portone dell’elegante palazzo

seicentesco, che il conte aveva ereditato dai suoi illustri parenti,

due individui: uno grasso, calvo, vestito da contadino; l’altro,

magro e alto, con una barbetta che gli ricopriva il mento.

Evidentemente egli si aspettava, come avveniva di frequente,

ospiti illustri elegantemente vestiti che venivano a trovare il

conte per conversazioni culturali, a cui seguivano gli

immancabili rinfreschi.

Questa volta, dunque, il portiere a malincuore accolse quei due

sconosciuti e li precedette lungo l’ampia scalinata fino alla

porta dell’appartamento del conte. Questi salutò affabilmente

quei signori e licenziò il portiere che si affrettò a scendere le

scale.

-“Che persone poco raccomandabili riceve stasera il signor

conte!”, pensava il portiere mentre raggiungeva il suo posto di

guardiania.

Nello studio del conte intanto il giovane Bartolo Campailla

aveva provveduto a chiudere la porta. Il conte rassicurò i due

visitatori, presentando il giovanotto come un suo figliolo e

pertanto potevano parlare liberamente. I due accennarono a un

sorriso, puntando gli occhi sul giovane; quello dall’aspetto un

po’ rozzo e anziano disse:

-“Signor conte, la ringrazio per avere accettato di ricevere me e

questo mio compagno che come le ho fatto sapere è un

simpatizzante del partito anarchico. Le confesso che nel nostro

territorio ne abbiamo abbastanza, non se ne può più delle

squadracce che continuano a fare soprusi”.

-“Sì, lo so, Pietro. Il tuo caro compagno di banco delle

elementari si sta rivelando un politico senza scrupoli; anche io

ho dovuto subire qualche affronto, come pure una gran parte dei

miei amici che sono dello stesso parere. Ma vedi, non possiamo

attaccarlo con i suoi stessi metodi violenti”.

-“Signor conte, mi scusi se la interrompo, ma quello non è

cambiato molto da come era da ragazzo. Me lo ricordo che

sapeva imporsi con i più deboli, ma stava ben attento a non

attaccare briga con i ragazzi più forti. Secondo me, dovremmo

mettere in atto un’azione dimostrativa di forza”.

-“Se pensate ad azioni violente o peggio a prove di attentati, vi

dico subito che io non posso aiutarvi. Sono troppo esposto, ho

quasi sempre alle costole spie, soggetti strani che riferiscono su

tutto quello che faccio e sulle persone che incontro. Quasi

sicuramente la vostra visita è sotto la lente della polizia, quindi

vi invito a muovervi con molta prudenza”.

A quel punto intervenne l’amico di Pietro:

-“Signor conte, io sono giovane e non posso immaginare il mio

futuro senza libertà, non sono disposto a subire prepotenze e

vessazioni. Sto perciò avvicinandomi sempre più alle idee

dell’anarchia. La società non può accettare dittatori o cesari

senza che ne riceva danni gravissimi. Per questo penso che sia

necessario intervenire prima che sia troppo tardi”.

-“Non posso che ammirare la vostra determinazione, disse il

conte, ma vi ho già detto qual è la mia posizione. Quel che

posso fare è di offrirvi un supporto economico, logistico. E

comunque riflettete bene prima di agire”.

Fino a quel momento, il giovane figlio del conte si era limitato

ad ascoltare i discorsi di quei congiurati, d’improvviso sentì il

bisogno di dire il suo parere:

-“Secondo me, poiché mi sembra di capire che c’è una ferma

volontà di fare qualcosa contro di Lui, io suggerirei di invitare

all’azione una persona insospettabile, una persona

completamente estranea, fuori del gioco politico. Così, se

dovesse essere acciuffata, non potrebbe coinvolgere nessuno”.

-“E chi potrebbe essere questa persona? intervenne in tono

ironico Pietro.

-“Io un’idea ce l’ho. Ma ora vi posso solo dire che potrebbe

essere una donna e per giunta straniera. Comunque vi prego di

concedermi di mantenere il segreto, fino a che non parlerò a

quattr’occhi con mio padre”.

-“Signor conte, disse l’amico di Pietro, il vostro figliolo mi

sembra molto furbo. Ascoltatelo e poi ci farete sapere”.

Pietro aggiunse che si sarebbero fermati all’albergo Tre stelle

per una decina di giorni, fino al 7 aprile. Quel giorno si sarebbe

svolto a Roma un Convegno di chirurghi europei e certamente

Lui sarebbe intervenuto con un suo discorso. Chissà, quella

poteva essere una buona occasione.

I due ospiti se ne erano appena andati, quando il conte disse:

-“Ora, mio caro, mi spieghi quel che ti passa in testa. Chi

sarebbe questa donna straniera? Hai combinato qualche

pasticcio il mese scorso durante la tua vacanza in Irlanda”?

-“No, stai tranquillo, è tutto a posto. Ora ti racconto. Un

pomeriggio me ne stavo seduto al bar a bere una birra. A un

tratto accadde un fatto straordinario: vidi passare una bella

ragazza bionda, si fermò per un attimo, mi sorrise e poi si

allontanò rapidamente. Di colpo si tolse la camicetta, la lanciò

in aria e cominciò a slacciarsi la gonna. Una giovane donna

bruna, gridando, le correva dietro disperata. La raggiunse, cercò

di calmarla, recuperò la camicetta e gliela infilò alla meglio. Io

prontamente mi alzai e andai incontro alle due donne e,

spendendo quel po’ di inglese che conosco, le invitai alla calma

e a sedersi al bar. Le due ragazze, prima titubanti, poi

sorridendo accettarono e io offrii una bevanda di loro

gradimento. La ragazza bionda, che chiunque avrebbe preso per

squilibrata per quel tentativo di denudarsi in strada, conversava

con me con tanta dolcezza e raffinatezza di modi da non farmi

prendere in considerazione qualsiasi ipotesi di follia. In breve,

nel corso di quel mese di vacanza, non passò giorno che non ci

trovassimo insieme a passeggiare nei parchi, a girare per i

negozi, a farmi conoscere le bellezze della sua città. Seppi dalla

sua governante che Violet soffriva di gravi crisi di nervi che la

portavano alla depressione con alterazione del comportamento.

Mi parlò di un fatto accaduto molti anni prima, quando il padre

era morto a seguito di una grave malattia. La madre una sera

d’inverno, tornando a casa, aveva subito violenza da un

ubriaco. Dopo quella brutta disavventura, la madre manifestò

per la figlia adolescente una vigilanza puntigliosa, che col

tempo divenne assolutamente morbosa, al punto di non farla

mai uscire di casa senza avere con sé nella borsetta una pistola

che era appartenuta al padre. Quella pistola me la mostrò più

volte durante i nostri incontri. Per lei era diventato un oggetto

molto familiare, mi assicurava che la teneva sempre carica e

aveva imparato ad usarla molto bene. Non potei fare a meno di

pensare che l’avrebbe usata contro di me se solo avessi provato

a insidiarla.

Naturalmente rimasi impressionato da quel suo atteggiamento e

cominciai a perdere ogni interesse per la sua persona. Non

glielo feci capire subito, anzi quando finì la mia vacanza

ricordo che le dissi che le

avrei scritto per invitarla a Roma come mia ospite. Ecco, quella

donna straniera non perfettamente equilibrata potrebbe essere

utile per lo scopo che desiderano perseguire quei due signori

che sono venuti a trovarti. Io sono certo che se le mando un

telegramma dicendole di raggiungermi a Roma, Violet non si

tirerà indietro. Per il resto non sarà difficile, vista la fragilità del

suo carattere, spingerla ad agire secondo le nostre intenzioni”.

-“Devo ammettere che non conoscevo questo aspetto della tua

personalità, disse il conte, ti vedo molto deciso e senza scrupoli.

Sarai un ottimo uomo d’azione, un decisionista, pronto a saltare

ogni ostacolo. Dammi tempo fino a domani per valutare la tua

idea. Non voglio che tu ti comprometta in alcun modo. Devi

restare fuori completamente da questa faccenda. Quando tuo

padre rispose positivamente alla mia pressante richiesta di

poterti adottare come figlio, ebbe una grande fiducia in me. E io

questa fiducia non voglio tradirla. Tuo padre, come mezzadro

delle mie terre di Sicilia, ha avuto sempre un comportamento

esemplare. Io l’ho ammirato per la sua onestà, per la grande

capacità lavorativa e per la sua abilità ed esperienza di vita.

Dunque non vorrei deluderlo. Ti ho offerto un alto tenore di

vita, hai potuto studiare, laurearti. Ed ora, tramite le mie

amicizie, potrai scegliere tra vari progetti di lavoro che ti

daranno soddisfazione e sicurezza economica”.

Quando si ritirò nella sua stanza, il conte passeggiò a lungo

prima di mettersi a letto. Era molto agitato e nervoso. Una

inquietudine si era impadronita di lui e si interrogava

continuamente se era giusto coinvolgere Bartolo in quegli

avvenimenti che si andavano profilando. Per sé non aveva

preoccupazione trovandosi in una età vicina alla sessantina,

quando calvizie e pinguedine fanno scempio del corpo di un

uomo. Ma per Bartolo non era la stessa cosa! A venticinque

anni, aveva la bellezza, qualità intellettuali, legami familiari che

gli avrebbero garantito un sicuro prestigio sociale, una vita di

successo.

Riuscì a prendere sonno solamente quando giunse a decidersi

per un compromesso: subito dopo l’incontro con l’irlandese

l’avrebbe fatto allontanare da Roma, sia che fosse riuscito a

convincere la donna ad accettare il progetto che aveva in mente,

sia che quella si fosse rifiutata.

La mattina a colazione, il conte comunicò a Bartolo la sua

decisione e gli diede il consenso a spedire il telegramma con il

quale invitava a Roma l’irlandese.

Bartolo andò ad accogliere Violet mercoledì 31 marzo. Il treno

arrivò in stazione puntuale alle 10,30; i due, dopo un attimo di

esitazione, si salutarono con calore e, seduti a un bar, fecero

colazione. Bartolo la trovava un po’ invecchiata. Aveva i

capelli in disordine, il trucco del viso non perfettamente curato,

ma attribuì il tutto alla fatica del viaggio.

-“Violet, ti ho prenotato una camera in un hotel, qui vicino alla

stazione. Ti chiedo di perdonarmi se per questi primi giorni non

potrò ospitarti a casa, perché mio padre ha rinviato la sua

partenza. Io verrò a trovarti e possiamo stare insieme per

qualche ora. Vedi, sono sopraggiunti alcuni importanti impegni

che non avevo previsto. Più tardi ti spiegherò meglio, ora è

sufficiente che ti dica che sto preparando la mia carriera

politica”.

Nei due giorni seguenti, Violet si dedicò a girare per la città,

visitando San Pietro, il Colosseo e alcune basiliche. Bartolo la

andò a trovare in hotel, dopo il tramonto. Appena entrato, si

accorse subito che non era di buon umore, si rifiutava di

rispondere alle sue domande di cortesia e sembrava quasi

respingerlo ogni volta che lui si avvicinava per sfiorarle la

mano o cingerle con un braccio la vita. E proprio in uno di quei

momenti, lei che si era fermata alla finestra a guardare la strada,

si girò di scatto e lo fissò negli occhi. Il suo volto si era alterato

in modo strano, tutta la sua persona assunse una espressione

cattiva e gridando lo rimproverò: “Mi hai fatto venire fin qui

per lasciarmi sola, mi hai ingannato, mi hai abbandonato per i

tuoi affari politici, voi uomini siete tutti uguali!”.

Lasciò il suo sguardo e volse gli occhi verso la borsetta posata

su un angolo del letto. Per un attimo Bartolo ebbe l’impressione

che con uno scatto felino Violet volesse afferrare la borsetta.

Impallidì di colpo perché si ricordò immediatamente quel che

custodiva in quella borsetta. Ma poi, vedendo che non si era

mossa, si rincuorò, cercò di calmarla e disse:

-“Senti, Violet, sono disposto a dirti la verità. Hai visto,

visitando la città, come da ogni parte campeggia l’immagine di

quello che chiamano Duce. Ebbene, tra noi si è diffusa la

certezza che sta strangolando la libertà. Non ci sono che soprusi

da parte di squadracce che operano in suo nome. Il popolo lo

ama perché è affascinato dalla sua oratoria. Le sue intenzioni

sono di militarizzare tutti, dai bambini agli adulti, non solo per

difendere il paese, ma soprattutto per condurre guerre di

conquiste. Io ho pensato a te come a una eroina che con il suo

intervento possa liberarci da un uomo politico che ci porterebbe

alla rovina. Tu saresti come Bruto o come Charlotte Corday, e ti

guadagneresti un posto nella storia”.

Finito di parlare, Bartolo trattenne il respiro in attesa della

reazione di Violet. Questa restò impassibile, poi aprì la borsetta;

rapide le sue mani presero la pistola, la accarezzò, se la passò

da una mano all’altra quasi in contemplazione, la depose di

nuovo nella borsetta. Questa volta Bartolo non mostrò alcun

segno di paura, tanto ormai era pronto ad accettare qualsiasi

esito. Nessun muscolo del suo viso lo tradì. Violet sorrise, prese

una sigaretta e l’accese. La inspirò a lungo e poi emise una

lunga scia di fumo che si disperse nella stanza. Senza alzare gli

occhi, come parlando a se stessa, Violet disse: ”Sì, entrare nella

storia! Era proprio destino. Tu non lo sai, ma io ero venuta a

Roma con l’intento di uccidere quel “signore” vestito di bianco di San Pietro.

Ma, fa lo stesso. La mia ira la volgerò contro di il Duce, per la

causa che ti sta a cuore”.

Nel frattempo si era alzata e, avvicinatasi a Bartolo, lo guardò

negli occhi, gli fece una carezza sul collo e lo baciò: “Sei

proprio un bambino! Ma dimmi dove e quando”.

Bartolo si affrettò a dire semplicemente come in un messaggio

scritto: “Campidoglio, mercoledì 7 aprile Congresso di

chirurgia”.

Poi aprì la porta e uscì quasi correndo per le scale dell’albergo.

Il giorno dopo, sul treno che lo portava a Napoli, Bartolo si

sentiva sicuro. Il conte gli aveva raccomandato fino all’ultimo

di presentarsi a certi suoi amici di Tripoli che lo avrebbero

aiutato ad inserirsi nel nuovo ambiente. Inoltre lo aveva fornito

di una discreta somma di denaro e di una lettera indirizzata a un

personaggio di rilievo.

Accanto a lui aveva preso posto una donna sulla cinquantina,

vestita elegantemente e dall’aspetto signorile. Frugava

ansiosamente nella sua capiente borsa che teneva sulle

ginocchia. Infine tirò fuori gli occhiali, li inforcò e cominciò a

leggere il Supplemento pomeridiano del Corriere della sera di

lunedì 5 aprile 1926. Sbirciando, Bartolo si accorse che il

giornale riportava la notizia del congresso di chirurgia presso il

Campidoglio mercoledì 7 aprile. Alla inaugurazione sarebbe

intervenuto il Duce con un discorso. Si compiacque per

l’esattezza dell’informazione data a Violet e subito dopo cercò

di allontanare i suoi pensieri da quell’intrigo nel quale si era

cacciato più per orgoglio personale e per bisogno di

primeggiare che per convinzione.

Il treno sferragliava e fischiava prima di entrare in galleria, i

vetri dei finestrini tremavano continuamente, il rumore si

faceva così alto che per conversare con la vicina bisognava

alzare la voce o interrompere.

La signora parlava con accento emiliano. Aveva lasciato la sua

Bologna in tutta segretezza per andare a far visita al marito, alto

ufficiale dell’esercito, a Tripoli.

-“Anch’io vado a Tripoli, disse Bartolo, e tirò fuori il suo

biglietto. Ho la cabina H24/2 sul piroscafo Italia che parte

questa sera alle 18,00”.

A quel punto anche la signora volle controllare il suo biglietto e

lesse.

-“Che strana coincidenza, la mia cabina è H25/2, è probabile

che sia quella accanto alla sua. Molto bene, così avremo la

possibilità di incontrarci e continuare la nostra conversazione”.

Seguirono le presentazioni. Alle 18,00, come previsto, il

piroscafo lanciò un lungo sibilante fischio di sirena e cominciò

a staccarsi dalla banchina.

In prima classe i viaggiatori erano pochi; salottini e bar erano

riservati esclusivamente a loro. I passeggeri della seconda, né

tanto meno quelli della terza classe, non potevano introdursi in

quei locali, a loro erano riservati altri ambienti più modesti.

Questo naturalmente favorì la frequentazione amichevole della

signora Aurora e di Bartolo. Il viaggio era piacevole, il tempo

sereno e il mare calmo procuravano un rullio appena

percettibile.

I due finirono con lo scambiarsi alcune confidenze. La signora

rivelò che si era trovata costretta a raggiungere il marito senza

avvisare nessuno, perché da qualche tempo girava voce che a

Tripoli tutti gli ufficiali avevano un’amante. Così lei, per fugare

ogni dubbio, si era decisa a raggiungere il marito e, se

necessario, restargli accanto. A Bologna non lasciava parenti,

l’unico figlio era sposato e viveva a Milano.

A sua volta, Bartolo disse di essere figlio di contadini siciliani,

ma che aveva avuto la fortuna di essere stato adottato dal conte

C. di Roma, con il quale viveva sin dalla adolescenza. Aggiunse

di aver viaggiato all’estero e di essere laureato in

giurisprudenza.

La signora Aurora si sciolse in complimenti per il giovane, al

quale augurò un radioso avvenire.

-“Se non ricordo male, ieri mattina lei mi ha detto che il conte

le ha affidato una lettera di presentazione per un noto

personaggio di Tripoli. Può dirmi il nome? Forse è una persona

di cui mi ha parlato mio marito”.

-“Bene, lo vedo subito”.

Bartolo prese la lettera e la mostrò alla signora.

La donna lesse il nome e l’indirizzo sulla busta e scoppiò in una

risata.

-“Ma lei è davvero fortunato! Fortunato!”

-“Perché?, domandò un po’ confuso, lo conosce?”

-”Sicuro che lo conosco, è mio marito. E’ un alto ufficiale

dell’esercito e al momento è il primo collaboratore del

vicegovernatore della Libia. Le basta?”

Bartolo non poteva sperare di meglio, le cose andavano a gonfie

vele. La presentazione era come se già fosse avvenuta.

-“Allora, signora, se appena sbarcati mi consente di

accompagnarla, potrò svolgere l’incarico senza indugio e spero

con successo”.

Il resto della giornata passò piacevolmente tra scambi di

opinioni politiche e culturali. Il tramonto li colse mentre

passeggiavano sul ponte; si fermarono ad ammirare gli

splendidi colori che lasciava dietro di sé il disco immenso del

sole, che andava scomparendo all’orizzonte tra le onde.

Dopo due giorni di navigazione, martedì 6 aprile, il piroscafo

finalmente giunse in porto. Una gran folla si era accalcata sulla

banchina dinanzi alla scaletta: le tuniche bianche degli indigeni

prevalevano, i bambini per lo più scalzi si azzuffavano,

correvano, chiedevano di comprare qualcosa. Militari italiani

presidiavano il porto, i marinai impegnati nelle operazioni di

sbarco dei passeggeri e delle merci chiamavano, gridavano.

Bartolo e Aurora scesero lungo la scaletta e, aiutati da un

giovane indigeno che portava i loro bagagli, si diressero verso

una delle carrozze che stazionavano poco distante.

Il cocchiere era un italiano di una trentina d’anni, che dopo aver

ricevuto l’ordine di portarli al Palazzo del governatore, fece

schioccare in aria la frusta e il cavallo partì al trotto. Capì che

aveva a che fare con persone di riguardo e, saputo che era la

prima volta che venivano a Tripoli, si improvvisò guida

turistica e cominciò a illustrare le vie, le piazze e i palazzi che

man mano scorgevano. A questo scopo fece il giro più lungo,

sperando in una generosa mancia. Così la signora e Bartolo

poterono ammirare quel centro della città che già faceva

intravedere tutta la bellezza creata dal gusto e dalla fantasia

degli architetti italiani, sollecitati e sostenuti dal governatore

Giuseppe Volpi, grande esperto, architetto veneziano.

Bartolo e Aurora rimasero felicemente sorpresi dal

meraviglioso lungomare, che era in via di completamento, dalla

bella Piazza Italia, dalla grande cattedrale in avanzato stato di

costruzione, dall’elegante palazzo Gadzischi di via Vittorio

Veneto, dalle sedi della Cassa di risparmio e della Banca

d’Italia, dal Castello, dagli eleganti negozi di via Roma. La

carrozza, infine, si fermò dinanzi al Palazzo del Governatore,

lungo Via Sicilia.

-“Ma è una reggia! esclamò Aurora”.

-“Davvero splendido”, disse Bartolo, che, pur essendo abituato

alle fastose dimore dei nobili romani, dinanzi a quel palazzo di

un biancore accecante e dall’ampio giardino con palme e

scalinata restò stupito e un po’ intimorito.

Scesero dalla carrozza e Bartolo disse al cocchiere di attendere

qualche minuto. Sulla scalinata venne loro incontro un militare

che li aveva visti entrare.

-“Buongiorno tenente, disse la signora con tono spigliato e

sicuro, sono la moglie del generale R.”.

Il tenente scattò sull’attenti e si affrettò a dire: “Prego, da questa

parte. Vado subito a informare il capitano”.

La porta dalla quale poco prima era sparito il tenente, si riaprì

quasi subito e con un sorriso un capitano alto e robusto accolse

la signora e Bartolo.

-“Chiedo scusa, ma il signor generale non ci aveva informato

del suo arrivo, altrimenti avrei disposto un servizio più

adeguato. Il signor generale in questo momento non c’è, si

trova fuori Tripoli con il vicegovernatore e tornerà stasera. La

faccio accompagnare dal tenente alla palazzina qui a fianco al

palazzo, dove ci sono gli appartamenti degli alti ufficiali”.

Bartolo salutò la signora Aurora cordialmente con l’impegno di

rivedersi il giorno dopo per presentarsi al marito e consegnare

la lettera del conte. Prese alloggio in un albergo nel centrale

Corso Vittorio Emanuele, poi consumò il pasto in una trattoria

che vantava la cucina siciliana.

Il generale ricevette Bartolo il giorno dopo nel suo ufficio

all’interno del palazzo del governatore. Aprì la lettera e mentre

scorreva il contenuto, sorrideva compiaciuto.

-“Bene, disse il generale, il mio vecchio amico mi ha ricordato

alcuni episodi della giovinezza. A Roma ho trascorso un

periodo felice della mia vita, accompagnato dall’amicizia e

dalla allegria del conte. In nome di questa antica amicizia, mi

scrive di tenerla in considerazione per qualche incarico di un

certo rilievo. Mi scrive che lei ha conseguito la laurea in

giurisprudenza. E questo certamente ha una grande importanza.

Ne parlerò oggi stesso al vicegovernatore, che è alla ricerca di

una persona preparata e intelligente per un certo progetto che ha

in mente.

-“Grazie, signor generale!” disse Bartolo.

A quel punto il generale si alzò e andò verso la finestra.

-“Ecco, disse, mia moglie sta uscendo per andare dalla

parrucchiera. La moglie del colonnello, mio vicino di

appartamento, la accompagna dalla sua parrucchiera in via

Roma. Vuole rendersi presentabile dopo il lungo viaggio e

prepararsi al grande evento di domenica prossima 11 aprile

quando arriverà in visita a Tripoli il Duce”.

Quest’ultima frase procurò a Bartolo un improvviso tremore, di

cui per fortuna il generale non si accorse perché era intento a

guardare la strada.

-“A proposito, lei verrà con noi sul palco delle autorità, così

potrà vedere il Duce da vicino. Le farò rilasciare un permesso

speciale.”

Bartolo ringraziò e salutò il generale, affrettandosi a uscire dal

palazzo. Istintivamente diede uno sguardo all’orologio: erano le

undici. Si guardò attorno: aveva la sensazione di essere seguito.

In realtà si sbagliava, c’era un continuo viavai di militari, di

indigeni, di gente comune che entrava e usciva dai negozi.

Nel pomeriggio preferì non uscire dall’albergo. A un tratto sentì

una grande confusione e un clamore che provenivano dal salone

al piano terra. Scese in fretta le scale e lì apprese dell’attentato:

una donna irlandese aveva sparato in Piazza Campidoglio al

Duce.

La notizia si era diffusa in un baleno nella città e già la stampa

locale ne parlava. L’Eco di Tripoli riportava la notizia: Il Duce

era stato soltanto ferito al volto.

Sulla stampa nazionale venivano riferiti i particolari

dell’attentato. Il Corriere della sera dell’8 aprile scriveva: La

rivoltellata di una straniera contro l’on. Mussolini. L’articolo

parlava della cattura della donna e del suo squilibrio mentale.

Bartolo si ritirò in camera, non volle uscire e quella sera saltò la

cena. Fu assalito da incubi notturni, ma già al mattino aveva

recuperato la sua calma abituale e scese al bar per una

abbondante colazione.

Il giorno dopo, i giornali annunciavano la partenza del Duce

sulla nave Cavour verso la Libia.

In fondo Bartolo era contento che l’attentato fosse fallito e

soprattutto che non si parlava di complici della donna irlandese.

Per l’arrivo del Duce tutto era stato preparato con ordine e

entusiasmo, i militari nella zona del porto e lungo il percorso,

un gran numero di indigeni nei loro caratteristici costumi, uno

squadrone di meharisti con i loro cammelli, tutta la gioventù

italiana di Tripoli: balilla, avanguardisti, giovani fascisti e

naturalmente ritratti del Duce e bandiere tricolori dovunque.

Quando iniziò la sfilata, la figura imponente del Duce, con un

vistoso cerotto sul naso, provocò un coro immenso di gioia e

migliaia di braccia alzate per il saluto fascista.

Bartolo, sul palco delle autorità, accanto alle signore e ai

signori della casta privilegiata, applaudiva come tutti.

Nel pomeriggio dello stesso giorno era prevista un’ultima

cerimonia, durante la quale il Duce salutò la folla, sfoderando la

spada, sopra un cavallo bianco. All’improvviso il cavallo nitrì e

si impennò. A lungo si parlò del tentativo di un giovane

attentatore arabo. Ma si seppe ben poco.

Nulla si capì da quel grumo di carne e di sangue rosso che restò

sul terreno. Qualcuno disse che era uno di quei nemici

indomabili, un berbero della tribù dei tuareg. Ma

non tutti erano d’accordo. Chi vide quel sangue rosso si

convinse che non poteva essere quello di un tuareg. Era noto a

tutti che il sangue dei tuareg fosse blu! Si scelse la strada del

silenzio; i cronisti furono invitati a ignorare l’evento o

comunque a sottovalutarlo e a presentarlo come una semplice

rissa tra giovani locali per accaparrarsi un buon posto da cui

osservare la cerimonia. Uno di loro scrisse: “All’improvviso la

folla elettrizzata dalla superba scena cui stava assistendo, si era

vista pericolosamente ondeggiare, debordare dai limiti imposti

dalle autorità e travolgere un giovane arabo, che era morto

orribilmente schiacciato dalla sua stessa gente!”

Nei giorni seguenti, Bartolo trascorreva il tempo tra passeggiate

e bar, in attesa di essere convocato dal generale. Un

pomeriggio, rientrando in albergo, gli fu consegnato un

biglietto. Era proprio l’invito che attendeva con ansia.

Il colloquio con il vicegovernatore fu assai cordiale. Alle

domande che il vicegovernatore gli poneva, Bartolo rispondeva

con intelligenza e buon senso. Il vicegovernatore alla fine della

conversazione si disse molto soddisfatto e gli fece sapere che

presto avrebbe ricevuto un documento che gli consentiva di

svolgere su tutto il territorio della Tripolitania, senza alcuna

restrizione da parte di autorità militare e di polizia, tutti i

compiti di ispezione che egli riteneva opportuno assegnargli.

Da quel momento la vita di Bartolo ebbe una accelerazione

straordinaria, sia per la complessità della funzione ispettiva, sia

per le distanze enormi che spesso doveva coprire.

Eseguendo con passione e responsabilità gli incarichi che

riceveva, in breve tempo, suscitò molte critiche, lamentele,

invidie, che gli procurarono parecchi nemici. Non accettava

compromessi di alcun genere e se solo intuiva che qualcuno,

per sottrarsi alle manchevolezze rilevate, volesse in qualche

modo addolcirlo, diventava ancora più rigido. L’incorruttibile,

ovviamente, correva dei pericoli. Per questo il vicegovernatore,

soddisfatto delle prime ispezioni compiute e delle relazioni

ricevute, comprese che il giovane Bartolo Campailla aveva

bisogno di una scorta, ogni volta che si muoveva, soprattutto

nelle zone più lontane da Tripoli.

Innumerevole la serie di irregolarità che giorno dopo giorno

Bartolo andava scoperchiando, anche negli ambienti in cui

meno se lo sarebbe aspettato. I rifornimenti militari

(alimentazione, vestiario, pezzi di ricambio, ecc.) furono più

volte oggetto di ispezione. Visitando i magazzini dislocati in

vari punti strategici del territorio, si accorgeva da un veloce

controllo dei registri di carico e scarico, come emergessero

gravi incongruenze, magari coperte ingenuamente da correzioni

grossolane. Spesso era in contrasto con gli alti ufficiali

responsabili del magazzino e degli approvvigionamenti, nulla

poteva farlo recedere dal reale stato di cose che aveva

constatato.

Sul tavolo del vicegovernatore piovevano le relazioni negative

con la segnalazione dei responsabili.

In breve tempo fu noto a tutti che il giovane Campailla era

diventato un personaggio importante e alquanto temuto. Molti

speravano che con l’arrivo del nuovo governatore Badoglio, la

sua autorità venisse ridimensionata. Ma non fu così, perché gli

fu rinnovata la piena fiducia e Bartolo poté continuare il suo

lavoro.

In tre anni di attività aveva consolidato la sua posizione: aveva

investito il denaro che riceveva dal conte e i suoi risparmi

presso la Cassa di Risparmio, il cui direttore era diventato un

suo grande amico e ammiratore. Si era trasferito in un

bellissimo appartamento che aveva preso in affitto nelle

vicinanze di Piazza Italia e quando si trovava a Tripoli

organizzava ricevimenti nella sua casa e frequentava i salotti

delle signore. Una di queste era Aurora, l’amica della prima ora

che gli aveva portato fortuna. Era soprattutto lei ad insistere

perché Bartolo finalmente ponesse fine al suo celibato e

scegliesse una delle belle e brave signorine che gli facevano la

corte. Ma lui si schermiva, dicendo che il lavoro lo impegnava

moltissimo e non gli restava tempo per pensare al matrimonio.

Alla fine del 1929, Bartolo ebbe un incarico speciale che gli

permise di conoscere un giovane geologo, Ardito Desio,

incaricato di compiere una missione geografico-geologica a

Giarabub. Il suo compito era quello di sorvegliare

discretamente alcuni maggiorenti italiani che avevano chiesto e

ottenuto l’autorizzazione a cercare il petrolio. Il lavoro dello

studioso si concluse con la produzione di importanti carte sulla

struttura del sottosuolo e con l’ipotesi che sotto la sabbia si

trovassero grandi quantità di petrolio.

Era la conoscenza delle persone, ciò che più ripagava la fatica

dei viaggi, l’impegno di vigilare su quasi tutti i settori del

vivere civile. Ma le persone erano non solo quelle di prestigio

per cariche, per cultura, ma anche quelle umili, senza badare

all’appartenenza di razza o di religione.

Un giorno di maggio, libero da impegni di lavoro, Bartolo uscì

di buon mattino per una passeggiata in direzione del bosco

Littorio, dove fino a poco tempo prima c’era soltanto un’ampia

area sabbiosa. Ora era tutta trasformata in parco pubblico con

bellissime piante di eucaliptus. Tra porta Benito e porta El

Azizia incontrava frotte di ragazzi indigeni intenti a giocare.

Uno di questi gli si avvicinò e con fare spigliato e allegro gli

disse che la sua casa era lì vicino e che la sua famiglia avrebbe

avuto piacere di conoscere un signore come lui. Restò per un

attimo perplesso per l’insolita richiesta, poi vedendo che il

ragazzo sorrideva e insisteva lo seguì.

Il ragazzo gli disse che si chiamava Tarin e che aveva

quattordici anni. Il suo viso era ovale di colorito bruno; aveva

capelli nerissimi con riccioli che gli pendevano sulle orecchie.

Giunsero in una piccola casa di pietra bianca con finestre verdi,

circondata da un muretto. Il ragazzo spinse un cancelletto di

ferro arrugginito e chiamò.

-“Che Allah ti dia la pace, fratello, disse un arabo dal volto

sorridente con addosso una tunica bianca che gli scendeva fino

ai piedi, la mia umile dimora si onora di accoglierti. Ringrazio

il Profeta che ha ispirato mio figlio Tarin a condurti fra noi”.

Quell’uomo alzò la tenda che chiudeva l’uscio e fece entrare

Bartolo e il ragazzo. Non appena i suoi occhi si abituarono alla

semioscurità che regnava nella grande sala di ingresso, Bartolo

si accorse di un piccolo gruppo di bambini che erano rimasti in

un angolo in attesa di conoscere quel signore. Nello stesso

momento una donna seguita da due ragazze si fece avanti e

salutò l’ospite con un lieve inchino della testa.

-“Ecco, disse Abdullah, tutta la mia famiglia: mia moglie e i

miei otto figli. Più tardi ti farò conoscere il mio anziano padre”.

I più piccoli ripresero i loro giochi interrotti, le due ragazze, già

adolescenti, un po’ vergognose, scomparvero presto dietro un

paravento. Abdullah invitò la moglie a portare il tè per l’ospite.

Il giovane Tarin stava allontanandosi, quando Bartolo pregò il

padre di farlo restare con loro. Sedettero su un tappeto con ampi

e morbidi cuscini e dopo poco Fatima, la moglie, servì il tè,

preparato secondo la tradizione araba con dentro squisite

noccioline.

Abdullah parlava un buon italiano e cominciò a narrare le

disavventure della sua numerosa famiglia.

-“Noi apparteniamo a una tribù di quella terra che voi chiamate

Cirenaica. Vivevamo agiatamente a quel tempo, perché mio

padre, uomo molto religioso, era onorato e rispettato nel

villaggio presso un’oasi con un grande palmeto e due ottimi

pozzi di acqua. Quella vita tranquilla però ebbe fine quando le

vostre truppe sbarcarono sul nostro territorio per strapparlo ai

turchi. La guerra fu lunga e dolorosa. Negli anni successivi

alcune tribù non vollero accettare la presenza dei vostri soldati e

durante la guerriglia accaddero episodi crudeli, vendette

sanguinose da una parte e dall’altra. Un giorno i nostri ribelli

sterminarono una intera compagnia di vostri soldati. Gli italiani

si vendicarono uccidendo la nostra gente, uomini donne vecchi

e bambini. Fu allora che una piccola parte della nostra tribù,

sfuggita al massacro, lasciò il villaggio e si spostò verso

occidente.

Mentre raccontava quei fatti, Abdullah lasciava cadere grosse

lacrime. Quel ricordo era molto doloroso.

-“Sì, lo confortò Bartolo. Conosco quelle tristi terribili vicende

di Sciara Sciat, di Sidi Abdallah, di Margheb. La vendetta è

sempre qualcosa di atroce. Mi dispiace e provo anche grande

vergogna per quello che i miei connazionali allora fecero,

sospinti dal desiderio di vendicare i loro compagni orribilmente

massacrati, ma anche dalla insana follia di compiere azioni

eclatanti contro il nemico, in vista di encomi, di medaglie e di

promozioni sul campo”.

-“Ti ringrazio, fratello, vedo che sei un uomo molto saggio e

giusto. Ecco, vieni, ti faccio conoscere il mio vecchio padre che

è la memoria della nostra tribù”.

Abdullah scostò una tenda e guidò Bartolo in una stanza dove

su un letto giaceva un uomo visibilmente malato, magrissimo e

rugoso. Teneva le mani sopra una coperta di pelle di capra e

alla vista dell’ospite girò lo sguardo e accennò a un sorriso.

-“Padre, questi è un italiano che è venuto a trovarci e ha

mostrato sincera commozione per le sofferenze da noi patite.

Non può parlare, aggiunse Abdullah, ma capisce tutto”.

Il vecchio reagì sollevando e chinando il capo e poi chiuse gli

occhi, come se volesse meglio ricordare quei lontani anni.

Tornando nella sala, Bartolo disse a Tarin, che fino a quel

momento gli era stato accanto: “Tarin, tu sei un ragazzo

intelligente, potresti imparare un mestiere ed essere di grande

aiuto alla tua famiglia. Che ne diresti se parlo di te al direttore

dell’Istituto arti e mestieri che è un mio amico? Ti piacerebbe

frequentare le lezioni? Ci sono degli artigiani molto bravi che

insegnano ai ragazzi della tua età i segreti dei vari mestieri.

Quale mestiere ti piacerebbe imparare?”

-“Oh, grazie grazie, disse con entusiasmo Tarin, davvero mi

piacerebbe imparare a fare il meccanico e poi a guidare le

macchine. I motori degli autocarri e delle automobili mi

affascinano!”

-“Bene, parlerò con il direttore. E per la retta penserò io a

tutto”.

Abdullah non finiva più di ringraziare e per poco non si

commosse fino alle lacrime.

-“Lei, signor Abdullah, forse potrebbe aiutarmi a soddisfare un

desiderio che mi frulla nella mente, ogni volta che passo

dinanzi alla vostra bella moschea Sidi Beliman. Mi piacerebbe

visitarla e assistere alle vostre preghiere”.

-“Posso aiutarla, disse prontamente Abdullah, io sono

benvoluto dall’imam, gliene parlerò e sono sicuro che accorderà

il permesso”.

Vincenzo Fiaschitello

Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso Università di Roma (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I. Autore di vari saggi sulla scuola, di opere di narrativa e di poesia.

Onorificenza su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri: Commendatore  Ordine al Merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997)

La seconda e ultima parte sarà online il prossimo 30 maggio.


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