IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Border-Line: Pensare dal margine- a cura di Cipriano Gentilino

Border Line

Ogni confine è una ferita, ma anche un’occasione di incontro.”
Adriano Favole – Antropologo

Nel lessico culturale del nostro tempo, la parola border-line è spesso usata per indicare una condizione estrema, quasi patologica, al limite della tenuta psichica. Ma se proviamo a decostruirne l’uso diagnostico e restituirle uno statuto concettuale, scopriamo che border-line non designa tanto un’anomalia quanto una postura critica, un’esistenza in tensione rispetto alla logica binaria che struttura il pensiero moderno: quella logica che separa e oppone, che divide il mondo in categorie nette — dentro/fuori, giusto/sbagliato, razionale/emotivo, maschile/femminile. Pensare _border-line_ significa, allora, pensare il limite non come barriera, ma come soglia. La soglia è luogo di passaggio, di contaminazione, di creazione. In essa si dà non l’equilibrio, ma il disequilibrio fecondo: il momento in cui l’identità si interroga, il linguaggio si piega, il sapere si decentra. È qui che il confine diventa esperienza: non spazio di esclusione, ma apertura all’alterità. Molti pensatori contemporanei hanno riflettuto sul valore trasformativo del limite. Per Umberto Galimberti, ad esempio, il limite non è un vincolo da superare, ma la cifra stessa dell’esperienza umana. È ciò che rende possibile il desiderio, la coscienza della finitezza, la tensione verso ciò che eccede.

Il sacro, nel suo pensiero, non si dà nell’oggetto, ma “nel varco che separa il profano da ciò che lo trascende”: è nella soglia che si apre la possibilità del senso, non nella sua chiusura. Simile, ma da altra prospettiva, è la riflessione di Giovanni Ferretti  che nel suo passaggio dalla metafisica al pensiero ermeneutico insiste sulla relatività del confine: non siamo mai chiusi in un’identità data, ma continuamente ridefiniti dall’incontro con l’altro. È l’inatteso, il non prevedibile, a costringerci a ripensarci. In questa visione, il limite non è un’interruzione, ma l’inizio di un pensiero critico. Anche in ambito antropologico, come sottolinea Adriano Favole, i confini non sono dati naturali, ma dispositivi culturali. Le identità non sono blocchi omogenei, ma narrazioni in perenne ridefinizione. L’esperienza border-line diventa allora una forma di consapevolezza della porosità di ogni appartenenza. Stare sul limite significa vedere i meccanismi di esclusione che reggono le nostre mappe sociali e simboliche, ma anche scorgere possibilità altre, zone di contatto e di metamorfosi.

Una prospettiva decisiva in questo senso è offerta da Michel Foucault. Il suo lavoro genealogico ci mostra come le categorie attraverso cui pensiamo la normalità, la devianza, la malattia o l’identità non siano dati oggettivi, ma effetti di potere : costruzioni storiche legate a dispositivi di sapere e controllo. Non esiste, per Foucault, un’essenza dell’uomo, ma una molteplicità di forme di soggettivazione_ modalità attraverso cui ci viene chiesto, o imposto, di essere ciò che siamo. Nell’opera di Foucault, il confine tra normalità e anomalia è un confine tracciato dal potere. E tuttavia, proprio là dove il potere etichetta, isola, patologizza , come nel caso del soggetto borderline, dell’omosessuale, del folle, del prigioniero — si aprono spazi inattesi di resistenza. “Là dove c’è potere, c’è resistenza”, scrive Foucault: e la resistenza non è un gesto eroico dall’esterno, ma qualcosa che nasce all’interno stesso delle relazioni di potere, come scarto, come, differenza non riconciliata.

Il pensiero border-line, in questa prospettiva, è un pensiero che rifiuta le identità imposte, che abita la soglia tra norma e deviazione, tra visibilità e invisibilità. Foucault ci insegna che il sapere non nasce dal centro, ma da chi viene escluso; che la verità non è ciò che si dichiara, ma ciò che trapela attraverso le fratture del discorso dominante. In questa chiave, la condizione border-line non è solo psichiatrica, ma eminentemente politica. È la posizione di chi per storia, desiderio, lingua, corpo non può adeguarsi al modello normativo del soggetto moderno. Ed è proprio in questa inadeguatezza che può sorgere una nuova forma di pensiero critico, una soggettività non normalizzata, capace di reinventare le relazioni tra sapere e potere. Questa logica del passaggio, dell’intreccio più che della separazione, è centrale anche nella filosofia della complessità di Mauro Ceruti, che invita a sostituire la comprensione per scomposizione con una comprensione per relazione: non più isolare per conoscere, ma cogliere le interdipendenze. Il border-line è qui figura del pensiero che si muove tra saperi, tra linguaggi, tra mondi: non nel caos, ma nella complessità. Questa figura — del margine, dell’attraversamento, della soglia — trova una delle sue espressioni più intense nella poetica di Pier Paolo Pasolini. In lui, il confine è una ferita mai rimarginata: tra mondo contadino e modernità, tra corpo e potere, tra parola pura e parola contaminata.

La sua opera non cerca la sintesi, ma resta sul crinale: è una scrittura che non pacifica, ma espone il trauma dell’incontro, la tensione irrisolta tra mondi non conciliabili. Anche la narrativa contemporanea — almeno quella che rinuncia ai grandi sistemi e si affida al frammento, alla voce dissonante, al personaggio non pacificato — sembra, a giudizio di alcuni critici letterari, muoversi in questa direzione. Non a caso si avverte un ritorno al non finito, all’identità franta, al linguaggio come zona di incertezza. In questo senso, la condizione _border-line_ diventa un nuovo orizzonte espressivo ed una forma di resistenza estetica. È la letteratura che si fa crisi, ma anche possibilità: nel senso che non è  più descrizione di mondi ordinati, ma ricerca di senso nei margini, nei residui, nelle fenditure del reale e nella ricerca del sommerso a partire dagli interstizi del quotidiano, come anche la psicanalisi di gruppo propone .


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