Buon senso e verità
Gorgia
di Paolo Protopapa
Non c’è niente di più pericoloso che innamorarsi di un filosofo, peggio ancora se filosofo-giornalista o, addirittura, giornalista né filosofo né intellettuale.
Gorgia (un pensatore del tempo del grande Protagora) più di tutti, 2500 anni fa, capì che la parola “fa cose meravigliose”. In questa meraviglia (in greco ‘Thàuma’, stupore abbacinante) si nasconde l’inganno. Perché tra la parola e il fatto, la narrazione e le cose, apparentemente credute nella loro nudità effettuale, c’è, invece, il tessuto che le ‘organizza’ e le tiene semioticamente, vale a dire nella reciprocità del senso che si attribuiscono. Sicché il significato non sta nella (cosiddetta) oggettività del mondo tale quale il parlatore lo parla, quindi del raccontatore che lo racconta, bensì nell’intreccio relazionale del contesto narrativo.
Il narrato (cioè il riferito e affermato) è precisamente il punto di vista del soggetto parlante. Perciò i Sofisti, i più moderni e anticipatori intellettuali dell’Occidente laico e illuminista, intuirono il nesso identificativo tra parola e cosa, interpretazione e fatto interpretato, il nesso inscindibile tra significante e significato. E, per conseguenza maturarono il convincimento che la comunicazione in generale è strutturalmente il mezzo stesso che tende al fine da sostenere. Fine e mezzo, nella loro apparente dualità separativa, sono, invece, in una unità coerentemente esplicativa. Pertanto i filosofi, più degli altri parlanti ordinari, sanno e sceverano il valore complesso delle parole, perché ne hanno studiato l’arcano di “prossimità alla verità”, ma non già l’assolutezza (inesistente) della maiuscola Verità. E, se e quando sono onesti, ne confessano la problematicità e relatività e contendibilità. Perciò sono filosofi e non retori, ricercatori e non vati, ragionatori sociali e non queruli avvocati di parte. Così, quando si innalzano dal linguaggio ordinario della contumelia e del contenzioso ideologico, anelano alla ‘medietas’ del buon senso e del possibile punto d’incontro.
Fu questo il presupposto del sapere di quel ‘popolo di eguali che nell’Agorá parlano tra loro democraticamente’, rispetto al sapere del tempio che si cristallizza dogmaticamente.
Il prete è convinto della Verità, e la cerca per trovarla, perché in fondo sa di averla trovata già prima di trovarla. Il filosofo critico al contrario, si approssima alla verità sapendo di non poterla trovare, poiché essa è il permanente stato di ‘non-nascondimento’ quale condizione ontologica del vivente. La radice di verità (ver), è fede, principio di rotondità e totalità compiuta. La radice di ‘A-lètheia’ (nel lessico greco) è, invece, non-nascondimento, dal verbo ‘Lanthano’, nascondersi. Si tratta di due radici completamente diverse, l’una positiva e l’altra negativa.
Immaginate adesso se e quanta verità abita le nostre parole e il nostro pensiero e la giustezza delle nostre povere e traballanti affermazioni. In un mondo, peraltro, come quello estremamente fallibile della politica. Specie in quella politica brutta dei presuntuosi, ben distribuiti nella nostra quotidiana, dolente umanità.