di Rocco Boccadamo
Non sembra per niente di sognare, si avverte, anzi, una sensazione concreta, quasi che la divina Pallade Atena per i greci o dea Minerva per i romani – il cui nome costituisce parte integrante dell’appellativo originale del piccolo borgo su cui mi accingo a dire, appunto Castrum Minervae – forse a causa di una cocente delusione, avesse lasciato stillare da queste parti una piccola pioggia di lacrime, gocce che, penetrando poi nel terreno e irrorandolo, si sarebbero trasformate in un humus del tutto speciale, a sua volta fonte e origine di una vasta gamma, meglio un concentrato, di bellezze naturali straordinarie e mirabili, quali si riscontrano diffuse in questa ridente e amena plaga del sud Salento.
Un puntino quasi invisibile sulle carte geografiche, che però reca, di per sé, il pregio di ergersi un po’ a una sorta di ombelico del connubio fra gli ultimi strati del verde Adriatico e le più vivaci distese, dalle sfumature di colore blu intenso, del mare Ionio.
Come per effetto di un miracolo strano, ma di prodigio non si tratta, Castro è compostamente «vecchia» sulle orme della sua antica e gloriosa storia, intessuta anche da vicende di saccheggi e distruzioni per opera di orde piratesche e di bramosi eserciti conquistatori che salpavano le ancore dalle opposte sponde, vicinissime, del Canale d’Otranto. Si presenta, nello stesso tempo, gioiosamente giovane, giacché è riuscita a conservare, anche il giorno d’oggi, una compatta voglia di vita e di crescita: qui, si deve rilevare, non esiste, se non in termini modesti, il problema del calo delle nascite, sicché i giovani, i ragazzi e i bimbi appaiono numerosi, almeno quanto (se non addirittura di più) è dato di costatare con riferimento alle persone anziane.
Castro la minuscola, pur tuttavia centro importante nella storia della cristianità. Molti, forse, non sanno che, per tanti e tanti secoli, è stata sede vescovile e, quindi, dimora di una lunga serie di Pastori, con giurisdizione su una decina di piccoli paesi del circondario.
Castro, con appena 100/150 anime, sede diocesana, guidata da alti prelati delle più svariate provenienze, anche se in prevalenza di origini meridionali.
M’immagino tali molteplici figure di successori degli Apostoli in condizioni di naturale e dignitosa povertà, dimoranti sì nel «loro» piccolo palazzo vescovile, ma certamente povere: e, del resto, come poteva essere altrimenti alla luce e in rapporto a una comunità – e relative risorse – così risicate?
Chissà quale vita austera, di là dai paramenti sacri e dagli stemmi, dovevano condurre! Chissà come e con quali mezzi di fortuna si arrischiavano, quando arrivava il momento, ad affrontare i viaggi a Roma, alla sede di Pietro, per le periodiche visite apostoliche «ad limina» secondo la definizione del diritto canonico! Nel corso di così lunghi spostamenti, sostavano forse in lussuose dimore o erano costretti ad accontentarsi dell’ospitalità di qualche «collega» o povero parroco dei paesi che attraversavano? Castro, dunque, e i suoi vescovi, rimasti insediati lì sino all’anno 1818, quando la diocesi, al pari di altri similari organismi di piccola portata, fu abolita, dopo che, negli ultimi periodi, mancando completamente i mezzi per il «mantenimento» della sede, alcuni Presuli erano stati costretti ad abbandonare la loro residenza e si erano trasferiti nei paraggi, prima nella località di Poggiardo e poi in un convento di frati della confinante Marittima.
Un breve inciso. A proposito di Marittima, mette conto di porre l’accento su come i corsi della storia siano davvero strani, ove si pensi che tale convento sia ora di proprietà di un lord inglese, il quale – previo una serie di ammirevoli, importanti e radicali restauri – l’ha adibito a sua stabile dimora e, in aggiunta, vi ha organizzato un’attività turistica nella formula del «bed & breakfast».
Castro cancellata quindi, oramai da due secoli, come diocesi. Attenzione, non si è trattato, però, di un colpo di spugna in ogni senso! Le autorità ecclesiastiche hanno, infatti, gelosamente «conservato» l’antica sede vescovile «castrensis», tenendola annoverata fra le cosiddette «Chiese titolari», quelle cioè che sono attribuite, giusto come titolo, al momento della nomina, a nuovi Vescovi, nelle più svariate parti del mondo, i quali non siano Pastori residenziali di una determinata città o sede, vale a dire, ad esempio, i Vescovi Ausiliari, i Nunzi Apostolici, i prelati preposti a organismi pontifici. Per la cronaca, al momento – precisamente dal dicembre 1979 – il titolo di «Vescovo titolare di Castro delle Puglie» è proprio di un ex Ausiliare dell’arcidiocesi della città nord americana di Milwaukee, S.E.Rev.ma Mons. Richard J. SKLBA, il quale, finché vivrà, conserverà la dignità in questione. (1)
L’antica «Castrum Minervae» richiamata all’inizio, s’identifica oggi con Castro Città o Castro Alta, adagiata su un costone/promontorio discretamente rialzato sul mare e cinta in parte, almeno intorno all’estensione del borgo, da mura e da una catena di castelli con torri cilindriche o a sagoma di cubo/parallelepipedo.
La torre più grande, per la verità, da circa un trentennio è stata «sdemanializzata», passando così in proprietà a un facoltoso medico. Questi l’ha trasformata in lussuosa residenza privata che vanta, soprattutto, un panorama a dir poco mozzafiato. Vi si spazia verso nord, quasi a voler rivolgere un rispettoso saluto ideale alla Serenissima, regina di sempre dell’Adriatico, verso est, dove a portata di mano si trovano, e sovente si scorgono, le coste e i rilievi dell’Albania e della Grecia, verso sud, nella quale direzione lo sguardo, doppiato il capo di Santa Maria di Leuca, sembra invece rivolgersi all’universo delle civiltà musulmane, importanti e contrapposte.
Sostando presso questa torre, si ha veramente la sensazione di «sollevarsi» dall’esistenza quotidiana con i suoi intoppi e le sue brutture e, per un arcano artificio, di salire, ascendere in alto.
A pochi passi, ecco il piccolo, ma molto armonioso, edificio dell’ex cattedrale, con annesso un raccolto e ben restaurato palazzo vescovile. Soffermandosi sia pure per un momento all’interno della chiesa, si riceve una ventata di sublimazione dello spirito: la mente e il cuore si spostano indietro e lontano, si registra intimamente la rievocazione di annunci di Natività, proclami di Resurrezione del Signore, canti solenni di «Te Deum» di ringraziamento, succedutisi nel corso di secoli; quasi non ci si avvede più della comunità del terzo millennio che qui, appena all’esterno, al contrario, è pullulante, viva e attiva. Da due lati, l’ex cattedrale si affaccia su uno slargo molto accogliente e tranquillo, riparato dai venti, dove, anche in pieno inverno, è concesso di godere magnificamente sostando sotto il sole che non brucia, ma riscalda.
Altri pochi metri di distanza e si apre il piccolo e infiorato Vico S. Dorotea, terminante in un belvedere che si affaccia, a fianco di un altro torrione dei castelli, verso il porticciolo della marina, le incombenti serre salentine e il capo di S. Maria di Leuca.
A ridosso del primo castello, cilindrico, si stende un’altra piazzetta, costituente il classico punto di ritrovo dei residenti, in ogni stagione, largo impreziosito da un‘ampia terrazza quasi protesa verso il mare sottostante sul fronte nord/nord est, con veduta delle scogliere della Grotta Zinzulusa, di Porto Miggiano e di Santa Cesarea Terme.
E’ questo il sito da cui, più frequentemente e maggiormente, si ha modo di impattare visivamente con la costa greco/albanese, che in certe occasioni, d’inverno in particolare, grazie ad uno speciale fenomeno di rifrazione della luce volgarmente denominato «Fata Morgana», sembra trovarsi a pochissimi chilometri di distanza, potendo distinguerne finanche determinati particolari, come strade, edifici e altri punti cospicui.
All’estremità del Paese, nella parte che conduce a una piccola altura chiamata con un pizzico di esagerazione Monte Lacquaro, si gode ancora di una stupenda veduta su Porto Miggiano, Santa Cesarea Terme e su altre rade e grotte marine, prima fra tutte la Grotta Romanelli.
A Castro città, le giornate si dipanano attive e vive ma, nello stesso tempo, quiete e silenti. Un autentico prodigio rispetto alla frenesia e al movimento, almeno durante la bella stagione e nei weekend, che caratterizzano invece Castro Marina, rinomata località di villeggiatura e di esodo frequentata da migliaia di turisti e visitatori – provenienti non solo dalle zone limitrofe, ma anche da tutta l’Italia, specie dal Nord, e dall’estero – i quali rimangono letteralmente estasiati dalla bellezza di questo mare e inebriati dalle acque cristalline che ridanno vitalità e senso di benessere a chi vi s’immerga.
Fare il bagno nella rada di Castro ingenera un sublime godimento, senza prezzo e senza paragone.
Nell’ambito del porticciolo, accanto ai villeggianti, si svolge anche la vita di un discreto numero di pescatori: certo, ora i pescherecci si sono ridotti appena a un paio e in più rimangono solo i piccoli battelli dei singoli. Eppure, i pescatori di Castro conservano ancora un’abitudine contratta nel corso delle lunghe stagioni delle battute di pesca in gruppo, quella cioè di parlare tra loro solitamente ad alta voce, così come facevano in mare, al largo, per superare i rumori delle onde, della motobarca e dei movimenti dell’attività peschereccia.
Sebbene il mio paese di nascita sia la piccola località contermine di Marittima e abbia trascorso per lavoro diversi decenni fuori regione, Castro è da sempre un po’ parte della mia vita: conosco molti degli abitanti e auspico di arrivare a essere considerato da loro quasi alla stregua di compaesano.
Altro particolare: nel Santuario di Castro Marina, sessantuno anni addietro, mi sono sposato.
Non è un bel quadretto d’insieme?
Ancora, d’estate, nel porticciolo di Castro, lascio agli ormeggi la mia piccola barca a vela per le quotidiane regate nella rada, al largo oppure nei dintorni.
Infine, conservo presenti e integri taluni ricordi molto belli di quando ero ragazzo.
Innanzitutto, le gite su barche da pesca, rigorosamente a remi e dotate di grandi lampare, per accompagnare la statua della Madonna di Pompei in occasione della tradizionale processione a mare nel mese di agosto. Particolarmente impresso nella mente, quindi, un piccolo episodio, risalente al 1950 o 1951, periodo in cui – durante le vacanze scolastiche – mio padre soleva portarmi con sé in Municipio, dove era impiegato, per aiutarlo: un giorno, allo sportello dell’anagrafe, rilasciai la prima carta d’identità a una bellissima ragazza bionda di Castro, di quindici o sedici anni, il cui nome di battesimo era Natalizia. Poco tempo fa, un po’ prima della scomparsa di detta persona, ho scoperto che si trattava della madre di due soci della cooperativa che al porticciolo custodiscono le barche dei villeggianti, compresa la mia. Ho dopo riferito dell’episodio a Luigi, padre dei predetti e vedovo della stupenda Natalizia, il quale si è profondamente commosso ed ha voluto rendere partecipe della mia antica testimonianza un giovane nipote, il quale, da quella volta, ho notato che mi si rivolge con maggior rispetto e riguardo.
Poi, le scalate dei costoni di Pizzo Mucurune alla «caccia» di giovani gazze (qui sono chiamate «ciole») nidificanti nei numerosi anfratti, uccelli che erano portati in casa, in un certo senso addomesticati e giungevano a far parte, per l’intera estate, dei nuclei famigliari.
E che dire, infine, dei richiami ad alta voce, di buon mattino, da parte di pescatori rientranti dalla nottata trascorsa in mare, i quali si fermavano a riva in corrispondenza della «marina» e della semplice casettina di vacanza della mia famiglia per lasciare a mio padre piccoli panieri, o semplici incartate di pesci azzurri spesso ancora guizzanti?
Piccoli amarcord, intrisi però di profondo significato umano.