Chi ci salverà dagli stupidi? L’arte di sopravvivere all’idiozia contemporanea
Chi ci salverà dagli stupidi? L’arte di sopravvivere all’idiozia contemporanea
Di Simona Mazza
Sono più pericolosi i malvagi o gli stupidi?
Dietrich Bonhoeffer, teologo impiccato dai nazisti nel 1945 per la sua opposizione al regime, non aveva dubbi: la stupidità è il vero nemico dell’uomo libero.
E, se guardiamo il mondo di oggi, vien difficile dargli torto
L’invisibile esercito degli stupidi

Esiste una categoria di persone che nessun codice penale contempla, ma che andrebbe considerata a tutti gli effetti una minaccia pubblica: gli stupidi.
Bonhoeffer ne intuì la natura mentre era rinchiuso nel carcere di Tegel, osservando l’obbedienza cieca di un popolo intero.
Capì che la stupidità non è un difetto della mente, ma una resa della coscienza: è più pericolosa del male perché agisce senza rendersene conto, e proprio per questo non conosce limiti.
Il malvagio, almeno, sa di esserlo. Egli calcola, sceglie, trama.
Lo stupido, invece, si muove nella convinzione di fare il bene; è l’ingranaggio perfetto del male sistemico, perché non riflette.
È, per dirla con le parole di Hannah Arendt, la “banalità del male”.
Arendt osservò questo meccanismo nel processo al nazista Adolf Eichmann, burocrate incaricato della logistica dello sterminio ebreo: un uomo mediocre, privo di odio, che si difese affermando di “aver solo eseguito ordini”.
In lui, scrisse la filosofa, non c’era il demone dell’orrore, ma la più spaventosa normalità: quella di chi smette di pensare e trasforma l’obbedienza in virtù civile.
Il male, dunque, non nasce solo dalla crudeltà: spesso germoglia nel vuoto lasciato dal pensiero.
E mentre il male agisce nell’ombra, la stupidità preferisce la luce. Ha infatti bisogno di essere vista, condivisa, legittimata. È sociale, contagiosa, loquace. Ma torniamo al teologo tedesco.
Bonhoeffer e la stupidità come resa della libertà
Per Bonhoeffer, la stupidità, in quanto “malattia morale” è il cedimento dell’intelligenza sotto la pressione del conformismo.
In altre parole, lo stupido non è privo di ragione, ma la mette al servizio del gruppo, del partito, della moda del momento.
Nasce così la stupidità collettiva: una zona grigia in cui il pensiero individuale si ritira e lascia campo alla voce della maggioranza.
Ecco allora perché questa stoltezza non è l’opposto dell’intelligenza, ma della libertà.
Pensare, infatti, è un atto di coraggio: significa accettare il dubbio, esporsi, restare soli contro il coro.
Lo stupido, al contrario, preferisce la sicurezza del numero, il conforto dell’approvazione e la pace dell’uniformità.
Così diventa volontario di un male che non capisce e difensore di idee che non gli appartengono.
È, in definitiva, impermeabile al ragionamento perché non ragiona più: obbedisce.
Dostoevskij e l’“idiota” che capiva troppo
A questa resa della mente, Dostoevskij oppose un altro tipo di follia: quella dell’innocenza.
Nel romanzo “L’idiota”, il principe Myškin viene deriso come ingenuo, ma la sua presunta “idiozia” è, in realtà, purezza morale.
È un uomo che vede con chiarezza ciò che gli altri, troppo intelligenti o troppo cinici, non percepiscono più, vale a dire la compassione.
In un mondo che confonde l’astuzia con la saggezza e la volgarità con la sincerità, Myškin rappresenta pertanto l’anti-stupido per eccellenza: colui che pensa e sente, ma non calcola.
In pratica, la sua diversità smaschera la falsità di una società che scambia la bontà per debolezza.
Ragion per cui, in lui, la vera intelligenza non coincide con l’acume logico, bensì con la capacità di discernere il bene.
Dostoevskij, dunque, rovescia la prospettiva: se Bonhoeffer descrive lo stupido come l’uomo che non pensa, Myškin è colui che pensa troppo e per questo appare folle.
Insomma, due facce opposte della stessa crisi morale dell’umanità.
Gli stupidi ai tempi nostri
Dove si annida lo stupido? Ovunque.
Anzi, non si nasconde affatto: si esibisce con naturalezza, convinto che la propria opinione sia un atto di coraggio.
Lo riconosci in ufficio, nel rampantino di turno che organizza “riunioni creative” per farsi notare dal capo, o nel dirigente che parla di “sinergie aziendali” senza mai aver letto un report.
È quello che dice sempre di sì alle proposte del superiore, salvo demolirlo poi alla macchinetta del caffè.
Ma lo stesso spirito lo ritrovi nei consigli di classe, nelle chat dei genitori, nelle assemblee condominiali, nei talk show dove ognuno si sente esperto di qualsiasi materia.
E in questi casi, l’incompetenza non solo non si nasconde più ma si autopromuove.
Lo aveva capito, già negli anni Cinquanta, Ennio Flaiano, il grande umorista romano autore del “Tempo di uccidere”, quando scrisse: “La madre dei cretini è sempre incinta.”
Un aforisma che, riletto oggi, suona profetico: la stirpe dei cretini si è solo aggiornata, passando dall’osteria al Wi-Fi.
Il cretino contemporaneo infatti non si limita a parlare ma trasmette.
Misura il proprio valore in like, monetizza la propria ignoranza, si autocelebra in diretta.
E tuttavia, la sua colpa è relativa: è il figlio di un’epoca che confonde la visibilità con la conoscenza, la rapidità con la verità.
In un mondo che premia chi parla, non chi capisce, la stupidità dunque non è più soltanto un limite — è diventata una carriera.
Quando la stupidità diventa sistema
Bonhoeffer comprese che la stupidità non è un incidente psicologico, ma un meccanismo politico.
Le dittature, come ogni potere autoritario, prosperano sulla passività del pensiero: trasformano i cittadini in esecutori felici.
La stupidità collettiva è il risultato di una pedagogia della paura: chi non riflette obbedisce, chi obbedisce diventa complice, e chi è complice finisce per credere nella giustezza di ciò che fa.
Ecco perché il male, quando assume la forma del potere, preferisce gli stupidi: perché non serve controllarli, basta lusingarli.
È così che la coscienza si addormenta e la barbarie si traveste da normalità.
L’unico antidoto: l’ironia che libera
A questo punto ci si chiede se esista una cura contro la stupidità.
Forse sì — ma non è un vaccino da laboratorio.
Si chiama ironia, ed è la forma più alta di intelligenza morale.
Non l’ironia cinica, che disprezza, ma quella socratica, che sospende il giudizio, ride anche di sé e non si lascia imprigionare dalle proprie convinzioni.
Lo stupido non ride mai di sé: prende tutto sul serio, soprattutto sé stesso.
Ecco perché l’ironia è libertà: perché scioglie la rigidità del dogma e restituisce leggerezza al pensiero.
Chi sa ridere di sé resta libero; chi non lo fa è già prigioniero delle proprie certezze.
In fondo, ridere è un atto politico, è l’ossigeno dell’intelligenza: smaschera il potere, disinnesca la paura, restituisce dignità al dubbio.
L’intelligenza spirituale
E allora, alla fine, non resta che una preghiera laica:
Dio, salvaci dagli stupidi — e da quella parte di stupidità che vive in noi.
Perché nessuno ne è immune: basta un momento d’orgoglio, una frase impulsiva, una convinzione troppo comoda, e la stupidità ci sfiora.
La differenza è che l’intelligente, almeno, sospetta di poter sbagliare.
È questo il suo sigillo: il dubbio come forma di grazia.
Come Dostoevskij ci ha insegnato la pietà per l’“idiota”, Bonhoeffer il coraggio di denunciare il conformismo, e Arendt la lucidità di smascherarne la macchina, a noi spetta il compito più difficile: convivere con lo stupido senza diventarne complici.
Il che, a pensarci bene, è già un esercizio quotidiano di intelligenza spirituale.