Oggi alle ore 15 si sono chiusi i seggi per i cinque referendum sul lavoro, una consultazione che avrebbe potuto segnare una svolta decisiva in un Paese logorato da precarietà, abusi contrattuali e false tutele. E invece? Il verdetto è impietoso: l’affluenza si ferma attorno al 30%. Nemmeno un italiano su tre ha sentito il dovere di alzarsi dal divano, rinunciare alla gita o interrompere l’aperitivo per esercitare il proprio diritto di incidere su norme che toccano direttamente la pelle e la dignità di milioni di lavoratori.
Non era una scheda qualunque. Non erano referendum “tecnici”. Era una chiamata chiara, netta, diretta a decidere se accettare o meno lo sfruttamento sistemico che avvelena il mercato del lavoro italiano: appalti selvaggi, licenziamenti facili, contratti a termine a catena, abusi nei tirocini formativi, e la vergogna delle tutele ridotte all’osso. Cinque quesiti che parlavano del nostro presente e, soprattutto, del futuro dei nostri figli. Cinque opportunità per dire “basta” a una deriva che ogni giorno rende il lavoro più instabile, più umiliante, più diseguale. Cinque occasioni bruciate.
Ma l’Italia ha voltato le spalle. Ha preferito la spiaggia alla cabina elettorale, la leggerezza alla responsabilità, come se il mondo del lavoro fosse qualcosa che accade altrove, a qualcun altro. È questa la fotografia che ci lascia la giornata di oggi: un popolo stanco, disilluso, o peggio ancora, indifferente. Come se davvero si potesse credere che le attuali regole siano eque, che il sistema funzioni, che la democrazia si possa sospendere quando fa caldo.
La verità è amara, cruda, difficile da digerire: l’etica civile in questo Paese sta franando. Partecipare è diventato opzionale, come se votare fosse un fastidio, non un diritto conquistato con la storia e il sangue. Un cittadino italiano su quasi 4, perché questa è la proporzione reale, ha deciso che questi temi non valevano il tempo di un voto. E intanto, fuori dai radar, nei magazzini, nei call center, nei cantieri e nei laboratori, migliaia di lavoratori continueranno a vivere sotto ricatto, senza tutele, senza voce.
Chi oggi non ha votato, forse non si rende conto che ha consegnato un pezzo di futuro all’arbitrio del profitto. Ha lasciato soli i lavoratori che non possono permettersi il lusso dell’apatia. Ha rinunciato a una battaglia che non si combatte con le bandiere, ma con la matita in mano.
È una sconfitta culturale prima ancora che politica. L’idea stessa di cittadinanza è stata svuotata. Partecipare non interessa più. La libertà è diventata pigra, il senso civico si è ridotto a un gesto che non arriva nemmeno al 30%. Eppure, non ci sarà una seconda possibilità per questi quesiti. La democrazia non è un’app che puoi riaprire quando vuoi. Quando scegli di non scegliere, qualcun altro deciderà per te. E spesso, contro di te.
Oggi non ha perso solo un referendum. Ha perso la dignità collettiva di un Paese che ha dimenticato di essere comunità.