IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Commemorazione dei Defunti: la memoria che ci interroga e ci giudica

Scorcio di un cimitero

di Pompeo Maritati

Il 2 novembre, giorno della Commemorazione dei Defunti, è una data che rischia di essere confinata a un rituale di consuetudine: un fiore deposto, una candela accesa, un pensiero fugace rivolto a chi non c’è più. Ma ridurre questa giornata a un gesto privato e malinconico significa tradirne il senso più profondo. La memoria dei morti non è soltanto un atto di affetto o di nostalgia: è un dovere civile, un richiamo collettivo che ci obbliga a guardare in faccia il presente e a chiederci quale valore attribuiamo oggi alla vita e alla dignità umana.

Viviamo in un’epoca in cui la morte non è più soltanto il naturale compimento dell’esistenza. È diventata il prodotto di scelte politiche, di conflitti interminabili, di economie che sacrificano vite sull’altare del profitto. È la morte dei civili sotto le bombe, dei migranti inghiottiti dal mare, dei lavoratori sfruttati fino all’ultimo respiro. È la morte che non scuote più, perché anestetizzati da immagini che scorrono sugli schermi, trasformando la tragedia in routine. La morte, oggi, è diventata invisibile proprio perché onnipresente.

Eppure, commemorare i defunti significa riaffermare che ogni vita conta. Non solo quella dei nostri cari, ma quella di ogni essere umano, indipendentemente da confini, religioni, condizioni sociali. Ricordare i morti è un atto di giustizia verso i vivi: ci ricorda che la dignità non è un privilegio, ma un diritto universale. È un monito che ci chiede di non abituarci all’ingiustizia, di non accettare l’indifferenza come normalità.

Il 2 novembre dovrebbe essere letto come un giorno di resistenza morale. Non basta piangere i defunti: bisogna difendere i vivi. Non basta deporre un fiore: occorre coltivare un’etica della responsabilità. Non basta ricordare i nostri cari: bisogna indignarsi per chi oggi viene privato del diritto stesso di vivere con dignità. La memoria, se resta confinata nei cimiteri, è sterile. Ma se diventa coscienza, allora si trasforma in forza collettiva, in impegno, in speranza.

La Commemorazione dei Defunti ci mette davanti a una verità scomoda: la morte è inevitabile, ma la disumanità no. Ogni volta che un uomo viene trattato come un numero, ogni volta che una vita viene sacrificata senza che il mondo si fermi a riflettere, stiamo tradendo la memoria di chi ci ha preceduto. I morti non ci chiedono lacrime, ma coerenza. Non ci chiedono fiori, ma giustizia. Non ci chiedono nostalgia, ma responsabilità.

In un tempo in cui il rispetto per la vita sembra dissolversi, commemorare i defunti significa ribadire che la vita è sacra, sempre. Non per retorica, ma per necessità. Perché senza questo riconoscimento, non c’è futuro che valga la pena di essere vissuto.

Il 2 novembre non è dunque un giorno di malinconia, ma un giorno di giudizio. È la memoria che ci interroga: siamo ancora capaci di riconoscere nell’altro un essere umano e non un nemico, un peso, un ostacolo? Siamo ancora capaci di indignarci di fronte all’ingiustizia? Siamo ancora capaci di difendere la dignità, anche quando non ci riguarda direttamente?

La risposta a queste domande non si trova nei cimiteri, ma nelle nostre scelte quotidiane. La Commemorazione dei Defunti non è un rito che appartiene al passato: è un impegno che riguarda il presente e che decide il futuro. Perché ricordare i morti significa, in ultima analisi, scegliere da che parte stare: dalla parte della vita, sempre.


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