IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Dal pensiero greco al sublime del Nulla

Contemplativo

di Vincenzo Fiaschitello

Fiedrich Nietzsche è stato un buon profeta. Aveva previsto che il suo pensiero geniale sarebbe stato compreso dopo molti decenni.

Oggi infatti, a distanza di centocinquanta anni, non c’è convegno, discussione culturale, pubblicazione di carattere etico, religioso, teologico, filosofico, che in qualche modo non faccia riferimento al nichilismo.

Heidegger, commentando le parole di Nietzsche che aveva definito il nichilismo come il più inquietante degli ospiti che si aggira tra di noi, aveva ritenuto che era “inutile metterlo alla porta”.

Ma chi è questo ospite? Che cosa ha con sé al punto di generare così tanto sconvolgimento nella cultura occidentale?

Riflettendo sulla etimologia del termine nichilismo, verrebbe subito da pensare al “niente”. Ma è proprio questo “niente” che appunto va interpretato, messo in relazione con l’orizzonte culturale, con la visione del mondo, con la dimensione del tempo e della storia. E già questo ci fa nascere il dubbio che il “niente” dell’ospite inquietante non sia affatto il nulla, ma è una sorta di “carica di esplosivo” che sbriciola un mondo radicato nella tradizione giudaico-cristiana.

La famosa affermazione “Dio è morto”, attorno alla quale si sviluppa tutto il pensiero di Nietzsche, non è nata all’improvviso né è stata espressa con “gioia”, ma ovviamente dopo lunga e attenta esplorazione del mondo occidentale dai greci in poi. Dicendo che Dio è morto Nietzsche constata che tutto il pensiero occidentale è stato fondato e pervaso dall’idea metafisica di presenza di miti, di divinità, di iperurani, fino a giungere al Dio cristiano che offusca e annulla ogni altra presenza soprannaturale. Ebbene, finché tale presenza è stata avvertita dall’uomo come fondamento di ogni suo agire, come fonte di regole di comportamento e di pensiero, il mondo si è mosso senza irreparabili smarrimenti, sia nel bene e nel male sia con divergenze anche notevoli. Basti per esempio pensare alla funzione dei miti e delle divinità presso i greci. Fermi nell’idea della mortalità dell’uomo e quindi della fragilità e della tragicità della vita, così bene evidenziata nelle insuperabili opere di Eschilo, di Sofocle e di Euripide, i greci potevano trovare sollievo e conforto nelle figure divine che presiedevano alle funzioni più importanti del vivere civile (giustizia, amore, forza, ecc.) e agli eventi ciclici della natura (primavera, estate, autunno, inverno; alba, mattino, sera, ecc.).

La ripetitività di tali eventi, tra l’altro, dava loro l’idea di un trascorrere del tempo non orientato verso uno scopo, una finalità o un senso e quindi come storia, così come sarà più tardi con il pensiero cristiano (tempo escatologico), ma come semplice successione di fatti e di esperienze sempre uguali, intorno ai quali i vecchi erano le persone più qualificate per dare consigli e saggi suggerimenti

Quel che è certo tuttavia è che il mondo greco non si muove entro un orizzonte di senso. La legge della natura ha la meglio sull’uomo destinato alla morte. Il re Mida, che aveva domandato al saggio satiro Sileno, che cosa si deve fare per raggiungere la felicità, riceve una risposta raggelante: sarebbe stato meglio non nascere, ora non ti resta di meglio che morire al più presto!

Sarà l’avvento del cristianesimo a rovesciare un tale scenario tragico della cultura greca: l’uomo non morirà del tutto, risorgerà come il

Cristo-Dio che si è umiliato incarnandosi, assumendo la natura umana per redimerla dal peccato di Adamo. Le radici della cultura greca, comunque, resteranno e riceveranno nuova linfa dalla elaborazione del pensiero teologico dei dottori della Chiesa, primi fra tutti Sant’Agostino e San Tommaso, con il concetto dell’anima, della speranza, dell’amore, ma anche della colpa, del peccato e della punizione eterna.

E’ la teologia cristiana che consolida il dualismo di anima e corpo (già presente in Platone ma per problematiche di conoscenza, non spirituali) così che ci sono momenti storici della cultura occidentale in cui l’attenzione per l’anima ha il sopravvento rispetto a quella per il corpo, per cui l’unico scopo del vivere è quello di conquistare la meta finale della salvezza eterna mediante la pratica del bene, l’accettazione della sofferenza, della mortificazione del corpo, sebbene  anch’esso nel caso di personaggi illustri venga riconosciuto meritevole di solenni onori con la conservazione e sepoltura nelle straordinarie cattedrali medioevali, sul pavimento delle quali ancora oggi leggiamo i nomi e camminiamo con un certo rispetto e timore reverenziale.

In altre epoche storiche accade il contrario: assistiamo alla celebrazione della bellezza terrena, della ricchezza, dei piaceri del corpo, del cibo, dell’avventura, delle esplorazioni della terra, pur non mancando nello stesso tempo coloro che insistevano sulla vanità di tale orizzonte di vita. Basti pensare a figure come Savanarola che pubblicamente condannava la sontuosità delle vesti e lo sfarzo delle corti dei nobili, molti dei quali tuttavia, giunti al termine della loro esistenza, di fronte alla morte, non esitavano a chiedere la presenza del confessore, si pentivano e destinavano parte delle loro ricchezze a conventi e a istituzioni religiose per essere sicuri di ottenere il perdono dei loro peccati.

Il dualismo di anima e corpo (res cogitans e res extensa), com’è noto, è al centro del pensiero cartesiano, con il quale tutta la filosofia moderna si confronterà. Non c’è comunque almeno fino all’idealismo hegeliano o poco dopo quella forte inquietudine dell’uomo che ha smarrito l’orientamento. Sono presenti ancora idee e principi direttivi che rassicurano e garantiscono stabilità. Ciò accade in fondo anche per i miscredenti, i quali trovano modalità etiche laiche dettate dalla operosità quotidiana e dai rapporti umani fondati su principi di solidarietà e di giustizia.

E’ evidente che il nichilismo non era ancora penetrato “come destino della storia”, come appunto scriverà Heidegger in uno dei sei Holzwege “Sentieri erranti nella selva” (Bompiani, 2002).

Nel 1872 Nietzsche a soli 28 anni, pubblica il suo primo libro “La nascita della tragedia”, nel quale mette in discussione l’idealizzazione del mondo greco: la condizione umana e il suo destino di nullità emergono chiaramente da quanto si racconta nella leggenda di re Mida, ricco e potente, che incontra il satiro Sileno, depositario del sapere. Il quadro che se ne ricava è assolutamente desolante, come già sopra riferito. E la desolazione e il vuoto cresceranno fino alla proclamazione della morte di Dio. A questo punto lo scenario è di un pessimismo totalizzante. Marco Guzzi, teologo e scrittore, giustamente dice che in fondo in tutte le epoche passate un fiume di pessimismo ha sempre accompagnato e dilagato sulla vita degli uomini: malattie, pestilenze, guerre (bellum omnium contra omnes).

E’ vero, ma quel pessimismo, finché sono rimasti comunque saldi i principi etici dedotti dalla religione, è stato un corso d’acqua sotterraneo che ha scavato dentro la cultura occidentale, ma non in maniera così determinante come accade nel nostro presente. Ciò è segnalato con chiarezza da Emanuele Severino quando fa riferimento al pessimismo di Leopardi, poeta e filosofo.

D’altra parte lo stesso Kant, costruendo la sua etica secondo ragione (Critica della ragion pratica), ci aveva messo sull’avviso che non era più possibile restare nel solco della tradizione che ricavava i valori dalle religioni. Occorreva affidarsi alla autorità della ragione: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai come mezzo”.

Ma anche su questa strada le cose non cambiano. Nietzsche non ritiene che la ragione possa far desistere l’uomo dal male (Kant auspicava la pace universale).

Che cosa c’è di opposto alla ragione?

C’è la follia! E Nietzsche ricorre appunto al folle che annuncia la morte di Dio. La follia è al di là della ragione.

Non bisogna pensare alla follia come a qualcosa di negativo. Già lo stesso Erasmo da Rotterdam nel Cinquecento ne aveva fatto l’elogio in un suo ben noto scritto.

La follia è intesa come stato mentale privilegiato dove confluiscono i contrari: bello e brutto, vero e falso, giusto e ingiusto, sano e malato, sogno e realtà, senso e non senso. E tale condizione privilegiata appartiene a certi individui, come per esempio, al poeta o al profeta, che vedono in anticipo sui tempi, sullo scioglimento di un enigma, sull’impasto emotivo della vita degli uomini.

Orbene, questo folle che in pieno giorno va al mercato tenendo in mano una lanterna accesa (così Nietzsche racconta nella “Gaia scienza”), dicendo di cercare Dio che non trova perché ormai è morto, suscita le risa della gente.

Il folle è la rappresentazione di colui che sa intravedere il futuro, dopo aver preso consapevolezza che le prospettive metafisiche del passato ci hanno gettato nelle tenebre, ci hanno precipitato nel buio dell’abisso, ci hanno fatto cadere nell’angoscia, nella paura, nel vuoto, nel nichilismo.

A una sola condizione si può uscire dall’abisso e dalle tenebre: accettare il nulla, porsi sulle spalle il vuoto e con forza e coraggio e volontà di potenza, andare avanti, oltre l’uomo.

L’uomo nuovo, il superuomo (erroneamente interpretato dai movimenti vicini al fascismo e al nazismo come l’uomo forte, il dittatore, che sa guidare la massa, il popolo-gregge ubbidiente ai suoi ordini), è colui che, dopo aver sperimentato la dimensione del nichilismo come scomparsa del tempo-storia nella sua configurazione di senso, come assenza di scopo per cui il futuro perde ogni significato, come mancanza di un perché dal momento che tutti i valori tradizionali sono collassati, avverte il bisogno di procedere ad una loro irrinunciabile sostituzione.

Dopo lo smascheramento del passato, rivelato in tutto il suo male, si apre la strada per l’iniziazione a un nuovo orizzonte, a una nuova visione dell’esistenza, alla costruzione di una nuova etica che indubbiamente deve avere una prospettiva universale. E’ proprio il caso di dire che essa va iscritta in una cultura che potrebbe anche definirsi “trascendente” (ammesso che quest’ultimo termine non faccia gridare alla contraddizione!). Essa non deve più riguardare soltanto le relazioni tra gli uomini (non uccidere, non rubare, ecc.) come era in passato per facilitare la convivenza civile, ma anche i rapporti con tutti gli esseri viventi (animali, piante) e con tutta la natura (acqua, aria, terra…).

Ciò ha come conseguenza l’esigenza che occorre alzare “il tetto del mondo” fino a comprendere l’infinito cosmo.

Tale svolta per l’umanità del terzo millennio è urgente e fondamentale. Evitare di percepire il futuro come una minaccia e di vivere nell’assoluto presente sempre più dominato dalla tecnica, sarà possibile solo se l’uomo liberandosi da quella egoità che lo ha sempre contraddistinto (homo homini lupus) si orienterà verso una evoluzione culturale radicale, simile a quella biologicamente realizzata nel corso di milioni di anni dalla natura umana.

E certamente la nuova logica che dovrà guidare l’uomo nuovo non potrà essere la logica del numero, dell’algoritmo, propria dell’Intelligenza Artificiale, dell’uomo-robot che indubbiamente sa fare meglio dell’uomo calcoli, progetti, azioni, ma la logica del rispetto degli altri, dei diritti di tutti i viventi, di tutti i popoli, del riconoscimento dei bisogni di ciascuno, dei sentimenti, della consapevolezza e della capacità decisionale-creativa, del “come” si fa qualcosa e non solo dell’efficienza del risultato.

Ecco l’ottimismo del nichilismo!

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