Dall’Antologia poetica “Tramonti di parole” uno scrittore al giorno: Simona Mazza
di Pompeo Maritati
Con l’Antologia Poetica Tramonti di Parole abbiamo dato voce a un coro di sensibilità, visioni ed emozioni che meritano di essere ascoltate una per una, con attenzione e gratitudine. Proponiamo una recensione dedicata a uno dei componimenti pubblicati, non come esercizio critico, ma come gesto di riconoscenza verso chi ha donato la propria parola a questo progetto collettivo. Ogni poesia è un tramonto diverso, un frammento di luce che si posa sul cuore e sulla mente. Rileggerle, commentarle, farle risuonare è il nostro modo di dire grazie a tutti gli autori e le autrici che hanno reso possibile questa iniziativa, trasformando un’idea in un orizzonte condiviso.
Tra le ciglia del giorno morente
il respiro del tramonto
di Simona Mazza
Nel punto esatto in cui il giorno trattiene il fiato,
tra la lancia del sole che cede
e il velo del non ancora buio,
mi siedo sul confine del tempo,
là dove il mare si fa parola
e il cielo,
una coppa rovesciata
di silenzio.
Il tramonto estivo trasuda,
non cade.
Scende dalle nubi come
il profumo del gelsomino
mescolato al sale,
alla cenere leggera della luce che scolora.
Sgorga come memoria densa
dalle fenditure del cielo,
viola e cremisi come il sangue del pensiero
quando rallenta.
La costa respira
come una bestia antica,
sazia di luce e stanca di sogni.
Ogni roccia, un versetto.
Ogni onda, un ricordo.
Dalle nuvole basse brontola un tuono,
non in collera, ma come un vecchio che ricorda,
e in quella voce il cuore sobbalza
come al suono del proprio nome
in sogno.
Un grido si apre come una ferita muta.
È la voce della giovinezza
che riecheggia.
Poi una luce fucsia, dissonante,
si fa largo tra le nubi
come un pensiero taciuto a lungo
che ora vuole essere detto.
E lì — proprio lì —
lo sguardo si fa ascolto,
la pelle sente parole.
L’aria sa di citronella ardente,
di mentuccia e salvia,
di salsedine incisa sulle cose.
E una goccia —
non pioggia,
quasi un residuo d’anima evaporata —
cade sul mio braccio come un perdono,
come la mano di un dio distratto.
Intorno, ogni cosa sa chi è:
il mare che respira lento,
la sabbia che si stende come un animale sazio,
le cicale ormai confuse tra tempo e spazio,
e io —
una minuscola veglia nel respiro dell’universo,
un nodo sciolto
tra la furia del giorno
e il naufragio dolce della sera.
Il giorno non se ne va:
medita.
Si scioglie lento
in questo tempo sospeso —
tra la veglia e il sogno,
tra la corsa e l’abbandono,
tra l’essere
e il non essere ancora.
Questo è l’attimo che non chiede.
Non invoca, non teme.
È.
Ed io vi entro,
come si entra in un tempio disabitato,
lasciando le scarpe
e le illusioni
alla soglia.
Sono lì,
non come spettatrice,
ma come un passante di luce
che ha smesso di cercare
e ora,
infine,
si lascia guardare
dal mondo.
La poesia di Simona Mazza “Tra le ciglia del giorno morente” è un viaggio lirico nel cuore del tramonto, che si rivela non come fine ma come soglia, come respiro sospeso tra il giorno che medita e la notte che ancora non è. Il testo si apre con una tensione temporale: il punto esatto in cui il giorno trattiene il fiato è già una dichiarazione poetica di sospensione, di attesa, di confine. Il tramonto non è un evento, è uno stato dell’essere, una condizione interiore che si riflette nel paesaggio. Il sole non tramonta, cede; la luce non svanisce, trasuda, scolora, sgorga come memoria densa. Ogni immagine è carica di senso, ogni elemento naturale è trasfigurato in simbolo: il mare diventa parola, il cielo una coppa rovesciata di silenzio, la costa una bestia antica che respira, le rocce versetti, le onde ricordi. Il paesaggio non è sfondo, è protagonista, è voce, è corpo.
La sinestesia domina il testo: il profumo del gelsomino si mescola al sale, alla cenere della luce, all’aria che sa di citronella, mentuccia, salvia. La percezione è totale, immersiva, multisensoriale. Il tempo rallenta, si fa pensiero, si fa sangue, si fa sogno. Il tuono non è minaccia, ma memoria: come un vecchio che ricorda. E in questa voce, il cuore sobbalza, come al suono del proprio nome in sogno. È un riconoscimento profondo, un’eco dell’identità che si risveglia nel momento liminale. La giovinezza non è evocata con nostalgia, ma come ferita muta, come grido che si apre, come luce fucsia che irrompe tra le nubi: un pensiero taciuto che ora vuole essere detto. Il soggetto poetico non è più spettatore, ma passante di luce, non cerca più, si lascia guardare dal mondo. È una resa consapevole, un abbandono che non è perdita ma rivelazione.
La chiusa è potente: il giorno non se ne va, medita. Si scioglie lento in un tempo sospeso, tra la veglia e il sogno, tra la corsa e l’abbandono, tra l’essere e il non essere ancora. Questo è l’attimo che è, senza chiedere, senza temere. E la poeta vi entra come in un tempio disabitato, lasciando le scarpe e le illusioni alla soglia. È un gesto sacro, un atto di purificazione, di verità. La poesia diventa rito, contemplazione, epifania. Ogni cosa sa chi è, e il poeta, finalmente, si riconosce come una minuscola veglia nel respiro dell’universo, un nodo sciolto tra la furia del giorno e il naufragio dolce della sera.
Simona Mazza ci offre una poesia che è insieme paesaggio e pensiero, corpo e memoria, soglia e rivelazione. È una scrittura che non descrive, racconta, ascolta; non cerca, ma accoglie. Un testo che invita a fermarsi, a respirare, a entrare nel tempo che non scorre, ma è. Una meditazione poetica che risuona con chi vive la parola come luogo sacro, come spazio di veglia e di verità.