IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Dante tra iracondi accidiosi ed eretici

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Dante e Virgilio tra gli iracondi e gli accidiosi

di Stefania Romito

La voce chioccia di Pluto (il re pagano dell’Averno spesso identificato con il Dio della ricchezza) apre il VII canto.

Trasformato in mostro demoniaco, è qui eletto a guardiano del quarto cerchio, dove gli avari e i prodighi, in due schiere opposte che continuamente si scontrano, trascinano pesi con il petto rinfacciandosi il vizio opposto. Avvedutosi che la gran maggioranza dei dannati è costituita da chierici, papi e cardinali, Dante ne vorrebbe riconoscere qualcuno. Virgilio gli fa notare come ciò sia impossibile (qui Virgilio si fa interprete dell’ideologia dell’autore). Indotto dal suo irriducibile disprezzo per il denaro a lasciare anonimi tutti i dannati legati al cattivo uso della ricchezza (agli avari e prodighi si aggiungeranno gli usurai nel settimo cerchio), Virgilio stigmatizza l’ignoranza degli uomini, i quali vedono nella fortuna una divinità cieca o capricciosa. Dante ne sviluppa, invece, una concezione positiva riconoscendo nella fortuna un’entità provvidenziale. È un altro importante acquisto dell’ideologia dantesca.

Con il passaggio al cerchio successivo, muta il paesaggio. Non più rocce nude e scoscese. A dominare l’infernale visione è la palude Stigia nella quale sono immerse le anime degli iracondi e degli accidiosi. Le prime condannate a straziarsi vicendevolmente, le altre a rimanere nascoste sott’acqua. Qui in entrambi i casi ci troviamo in presenza di un “contrappasso per analogia”, come era avvenuto per i lussuriosi (imprigionati nella tempesta della passione) e per gli avari e prodighi (la fatica dell’accumulare o dello spendere), a differenza di quanto avviene ai golosi, per i quali vige la “regola del contrasto”. Poiché in vita avevano cercato le dolcezze della tavole, ora sono condannati a rimanere per l’eternità immersi in un fango putrido.

Dante e Virgilio tra gli iracondi e gli accidiosi
(V cerchio dell’Inferno, Canto VIII)

Per attraversare lo specchio d’acqua, Dante e Virgilio si imbarcano sulla nave piccioletta guidata da Flegiàs: figlio iracondo del Dio Marte. Durante il guado, avviene il primo riconoscimento di un avversario (che è anche il primo scontro con un dannato): il fiorentino Filippo Argenti. È una scena di una violenza inaudita condotta secondo lo schema letterario del “rinfaccio o del contrasto”, con abili giochi fra sinonimi e il ricorso a perifrasi.

Immediatamente dopo appaiono a Dante le mura incandescenti della città di Dite dalla quale provengono urla di dolore. Depositato all’ingresso da Flegiàs, il pellegrino Dante si imbatte per la prima volta in una frotta di diavoli, ostili soprattutto nei suoi confronti. Nonostante i tentativi di Virgilio di negoziare con i diavoli, le porte della città rimangono chiuse. Si auspica l’aiuto divino che non si fa attendere, sebbene i segnali infausti che provengono dalle tre Furie, o Erinni, le quali invocano contro Dante l’aiuto di Medusa, la minore delle tre Gorgoni, che per gli antichi aveva il potere di pietrificare chi la guardava.

Le Furie nel mito classico rappresentavano  il simbolo del rimorso, mentre Medusa può essere interpretata come la tentazione dell’eresia. All’improvviso sopraggiunge un misterioso angelo che mette in fuga i diavoli.

Ciò che si manifesta ai due poeti, all’ingresso nella città di Dite, è un paesaggio desolato. Qui le tombe sono arroventate dalle fiamme che le circondano da ogni parte, e tutti i coperchi sono spalancati. Virgilio chiarisce a Dante che le tombe saranno chiuse con il Giudizio Universale e  che in quella zona vi sono gli eretici epicurei. Aggiunge, inoltre, che potrà soddisfare la sua curiosità parlando a qualche dannato. Qui prende avvio l’episodio di Farinata degli Uberti, il nobile ghibellino toscano vincitore della battaglia di Montaperti.

Farinata riconosce la parlata fiorentina di Dante. Tra i due fiorentini di parte contraria inizia un intenso dialogo. L’ultima parola pare l’abbia avere Dante il quale rinfaccia all’avversario il fallimento dei suoi discendenti ghibellini che non hanno imparato l’arte del ritorno in patria.

Sulla scena s’insinua un altro dannato: il padre di Guido Cavalcanti.

All’appello fatto in nome dell’altezza d’ingegno (il laico Cavalcanti non può pensare che per altra ragione si abbia la possibilità di quel viaggio straordinario) Cavalcante chiede a Dante perché a lui è stato dato il privilegio del viaggio ultraterreno per altezza di ingegno e a suo figlio Guido invece no. Dante risponde richiamandosi alla grazia divina, da cui l’amico è del tutto escluso a causa della sua incredulità religiosa.

Come? Dicesti “elli ebbe” Non viv’elli ancora?

Le parole di Dante fanno sorgere il dubbio in Cavalcante che suo figlio sia morto. Il silenzio perplesso di Dante conferma la sua convinzione. Egli ricade supino nel sepolcro e sparisce dalla scena per la disperazione.

Geniale l’intermezzo patetico di questo padre sconvolto, come pure il rifarsi di Farinata alle ultime parole rivoltegli da Dante, quasi che il dramma di Cavalcanti non lo avesse minimamente toccato.

Magnanimo nel ribadire come fra i vincitori di Montaperti fosse stato lui da solo a opporsi a una totale distruzione di Firenze.

È così che il dissidio politico con Dante sembra attenuarsi nel segno di un comune destino di esuli.

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