IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Etnopsichiatria e salute mentale nel sistema penitenziario italiano

interno di un carcere

di Claudia Trani**

La realtà carceraria rappresenta un’amplificazione delle contraddizioni sociali contemporanee. In Italia, il sistema penitenziario non è solo un luogo di punizione, ma anche uno spazio in cui si manifestano in modo evidente disuguaglianze, marginalità e fragilità sociali. Negli ultimi decenni, l’aumento dei detenuti stranieri ha trasformato le carceri in luoghi di incontro e di confronto tra culture differenti, generando nuove forme di disagio e la necessità di strumenti di comprensione e cura più complessi. In questo contesto, l’etnopsichiatria si presenta come una disciplina capace di unire l’approccio clinico e quello antropologico in un modello integrato per capire e trattare la sofferenza psichica.

La detenzione ha effetti psicologici profondi e spesso devastanti. L’isolamento, la perdita di autonomia, la privazione dei diritti e la separazione dagli affetti generano disorientamento, ansia e vulnerabilità. Il carcere, come “istituzione totale”, tende a ridurre l’individuo alla sua sola identità di detenuto, provocando processi di spersonalizzazione e alienazione.

La sofferenza mentale dei detenuti non deriva solo da disturbi preesistenti, ma nasce anche come conseguenza diretta della privazione della libertà e della vita coercitiva che la condizione carceraria impone. A questo si aggiungono problemi strutturali del sistema penitenziario italiano: sovraffollamento, carenza di risorse e insufficienza di personale sanitario.

Secondo dati del Collegio Nazionale dei Dipartimenti di Salute Mentale (2024), circa il 15% dei detenuti soffre di disturbi psichiatrici gravi, con un’incidenza elevata tra gli stranieri. L’Associazione Antigone stima che tra i 2.800 e i 3.200 detenuti stranieri presentino problemi mentali di varia natura. Tali numeri evidenziano la necessità di un approccio che superi la prospettiva esclusivamente clinica, includendo la dimensione culturale e relazionale della sofferenza.

Garantire la salute mentale in carcere non è solo un obbligo medico, ma anche un dovere etico e costituzionale, connesso al principio di umanità della pena e al diritto alla salute sanciti dalla Costituzione italiana e dalle convenzioni internazionali sui diritti umani.

L’etnopsichiatria nasce dall’incontro tra psichiatria e antropologia culturale. Essa riconosce che la malattia mentale non è universale né uniforme, ma assume forme e significati diversi a seconda del contesto culturale e simbolico.

Il primo a intuire l’importanza della cultura nella malattia mentale fu Emil Kraepelin, che parlò di “psichiatria comparata”. Tuttavia, la sua visione restava eurocentrica, interpretando le culture non occidentali come primitive

Il passo decisivo fu compiuto da Georges Devereux negli anni Quaranta, considerato il fondatore dell’etnopsichiatria moderna. Egli introdusse il principio del complementarismo, secondo il quale ogni fenomeno psicologico deve essere analizzato su due piani interconnessi: quello psicoanalitico e quello culturale. Attraverso gli studi sui nativi Mohave e sui migranti, Devereux dimostrò come la cultura influenzi la percezione del sé, il linguaggio del corpo e l’espressione del dolore.

Negli anni Ottanta, Tobie Nathan riprese e ampliò queste teorie, fondando a Parigi il Centro di Etnopsichiatria Clinica dell’Ospedale Avicenna. Nathan concepì la terapia come un “atelier di traduzione culturale”, un laboratorio collettivo in cui terapeuti e mediatori lavorano insieme per decodificare i significati simbolici del sintomo. La cura diventa così un processo di traduzione e dialogo tra sistemi di pensiero diversi, che valorizza il linguaggio, i miti e le credenze del paziente.

Il fenomeno migratorio costituisce oggi uno dei principali ambiti di applicazione dell’etnopsichiatria. L’esperienza migratoria comporta una frattura identitaria: il migrante è costretto a ridefinire i propri riferimenti simbolici, sociali e linguistici, affrontando spesso traumi legati alla separazione, alla perdita e alla discriminazione.

Il trauma migratorio non termina con l’arrivo nel Paese d’accoglienza, ma si prolunga nel tempo sotto forma di spaesamento, nostalgia e senso di esclusione. L’etnopsichiatria delle migrazioni mira a comprendere queste forme di sofferenza riconoscendo la pluralità dei codici simbolici attraverso cui si manifestano. L’obiettivo non è “curare la diversità”, ma accoglierla e integrarla nel processo terapeutico.

La Fondazione Hapax sottolinea che lo scopo dell’etnopsichiatria non è adattare il paziente al modello culturale dominante, ma creare un terreno di comunicazione tra mondi simbolici differenti. Il terapeuta assume quindi il ruolo di mediatore, facilitando la costruzione di un linguaggio condiviso del dolore e della cura.

Nel contesto penitenziario, l’etnopsichiatria risponde alla complessità del disagio psichico in ambienti multiculturali. Il detenuto straniero vive una doppia marginalità: quella della detenzione e quella dell’estraneità culturale. Spesso privo di legami familiari o linguistici, può percepire il carcere come uno spazio di esclusione radicale.

L’approccio etnopsichiatrico aiuta a comprendere il significato profondo di comportamenti, credenze e rappresentazioni alla luce del contesto culturale del detenuto. Ciò evita di interpretare come patologiche manifestazioni che in altre culture possono avere valenze religiose o rituali. In questo modo si riduce il rischio di diagnosi errate e di interventi coercitivi, favorendo percorsi terapeutici basati sul dialogo e sulla fiducia reciproca.

L’inserimento di mediatori culturali nei servizi di salute mentale penitenziari è essenziale per garantire una comunicazione efficace e una corretta interpretazione dei sintomi. I mediatori non si limitano alla traduzione linguistica, ma fungono da interpreti culturali capaci di creare ponti di comprensione tra detenuto e operatori.

L’etnopsichiatria non mira solo alla cura del sintomo, ma alla ricostruzione del senso e dell’identità della persona. Attraverso la narrazione e l’ascolto, il detenuto può rielaborare la propria storia e attribuire significato all’esperienza della detenzione, trasformandola in occasione di consapevolezza e crescita. Ciò favorisce il benessere psicologico e rafforza la funzione rieducativa della pena, promuovendo responsabilità e reinserimento sociale.

L’etnopsichiatria è anche una scelta etica e politica: riconosce la dignità della persona e considera la cura come incontro tra soggetti portatori di culture differenti. In un ambiente come il carcere, dominato dal controllo e dal potere, questo approccio rappresenta un gesto di umanizzazione. Restituisce voce a chi ne è privo e trasforma la relazione terapeutica in un atto di giustizia simbolica.

Promuovere la salute mentale in carcere significa difendere i diritti umani. L’articolo 27 della Costituzione italiana afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, ma senza un reale benessere psichico e senza il riconoscimento della diversità culturale, tale principio rimane lettera morta.

L’etnopsichiatria propone di superare la visione medicalizzante della psichiatria tradizionale, che separa il sintomo dal contesto sociale. La sofferenza è invece un fenomeno relazionale e culturale, e la cura diventa una negoziazione simbolica: il terapeuta non impone un sapere, ma costruisce insieme al paziente uno spazio di comprensione reciproca.

L’approccio etnopsichiatrico produce benefici non solo sui detenuti, ma anche sul personale penitenziario. Le difficili condizioni di lavoro — caratterizzate da stress e tensione costante — espongono gli operatori a rischio di burnout. Gli strumenti interpretativi dell’etnopsichiatria favoriscono una migliore comprensione dei detenuti, riducono i conflitti e migliorano il clima relazionale.

La formazione interculturale degli operatori diventa quindi fondamentale per sviluppare empatia, capacità comunicative e mediazione culturale. L’etnopsichiatria, inoltre, contribuisce a ridefinire l’intera istituzione penitenziaria come spazio di cura e inclusione, prevenendo conflitti e promuovendo convivenza e senso di comunità.

L’etnopsichiatria, con la sua prospettiva interculturale e relazionale, offre al sistema penitenziario italiano un’opportunità concreta di rinnovamento. Essa permette di leggere la sofferenza psichica non come deviazione individuale, ma come espressione di una storia culturale e sociale. In un contesto segnato dall’esclusione, diventa uno strumento di mediazione, cura e giustizia, capace di umanizzare la detenzione e restituire dignità al soggetto.

Solo attraverso questa prospettiva la pena può realmente acquisire una funzione rieducativa e la salute mentale può essere garantita come diritto universale. L’etnopsichiatria ricorda che curare non significa solo guarire, ma comprendere e restituire senso all’esperienza umana, riconoscendo ogni individuo nella sua piena umanità.

ottobre 2025

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** Laureata in giurisprudenza presso

l’Università di Trieste, perfezionata in

Violenza di genere presso la stessa

Università, master di 2° liv. in

Psicopatologia forense e criminologia presso

l’Università di Firenze,esperta ex art. 80 O.P Corte d’Appello di TS, formatrice….

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