IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Europa: la caduta degli dei. Il vertice UE di Copenaghen, tra rilanci e buone intenzioni, non scioglie i nodi su difesa, sicurezza e leadership

Eurpa stelle

Di Gianvito Pipitone

La guerra non è mai stata il pane quotidiano della generazione cresciuta in tempo di pace, tra MTV e cartoni animati, diritti civili e illusioni di progresso. Non c’è traccia, nei nostri anni formativi, di un culto della guerra elevato a mito fondante. Al massimo, per chi è cresciuto con Lady Oscar e la Stella della Senna, la guerra è rimasta una scenografia di rivoluzioni in costume — carrozze, salotti, Bastiglia — senza mai sposare davvero la filosofia di monsieur de Guillotin. La violenza, per noi, è sempre stata un racconto da tenere a distanza.

Eppure, da qualche tempo, la guerra — quella vera — ci ronza attorno come un maledetto nido di vespe ingrifate. Sembra davvero di vivere in un tempo sospeso. Non è il caso di scomodare paragoni troppo arditi con epoche passate, ma è difficile non notare come quel futuro luminoso che ci era stato promesso da bambini, sia adesso lontano anni luce. Al contrario, ogni mattina ci svegliamo immersi in un’aria pesante — sentimento diffuso tra le persone che incrociamo, un clima saturo di tensione, pensieri distorti e parole spigolose. La polarizzazione è ovunque. Ci circonda. Si percepisce a pelle, anche in una semplice fila dal panettiere. Difficile fare i gentili quando il mondo tutto intorno a te ha deciso di difendere ogni centimetro del suo spazio.

E l’impressione della guerra di tutti contro tutti — che pensavamo di esserci lasciati alle spalle con l’Illuminismo della ragione — è tornata viva e vegeta fra noi, con l’immagine del vecchio Leviatano che ci spia dal buco della serratura di un Grande Fratello globale.

Male. Non tanto per noi, che la giovinezza l’abbiamo vissuta in piena libertà, in un mondo che — ingenuamente, forse — sembrava aver archiviato per sempre i suoi tempi bui. Male, piuttosto, per i nostri figli. Perché a loro dobbiamo garantire almeno quanto abbiamo avuto noi: un’infanzia serena, un’adolescenza libera, la possibilità di crescere senza il peso costante della paura, della tensione, dell’incertezza.

Ma ciò che più ci inquieta — dettaglio tutt’altro che marginale — è il cambio di registro della nostra cara vecchia Europa. Una svolta muscolare, fatta di denti digrignati e posture assertive, che non si vedeva dai tempi della guerra in Jugoslavia. L’Europa che conoscevamo — quella dei trattati, delle mediazioni, delle conferenze stampa — sembra oggi parlare una lingua diversa. Più dura, più decisa, più marziale.

L’Europa si trova oggi in una fase di transizione profonda, quasi febbrile. Le tensioni aumentano, gli equilibri interni si ridisegnano, e la sicurezza — quella parola di cui per decenni non capivamo il significato — ha cambiato grammatica. Detto in modo semplice: l’Europa ha perso sé stessa. Ha smarrito il proprio ruolo, quello che ha ricoperto per secoli, nel bene e nel male. Da Napoleone al Commonwealth, dalla spartizione dell’Africa agli interessi coloniali, fino al dopoguerra, quando ha indossato con orgoglio il titolo di viceré degli Stati Uniti in questa parte di mondo. Un ruolo strategico, certo, ma anche subordinato, che le garantiva stabilità in cambio di allineamento.

Oggi quel modello sembra essersi incrinato. L’Europa non si riconosce più nel suo passato, ma non ha ancora trovato una nuova postura. Si muove, si espone, mostra i muscoli — ma senza una vera direzione. Ora che il vecchio idillio con il compare d’oltreoceano — la vecchia gallina dalle uova d’oro — si è profondamente incrinato, complice la postura e le minacce di Trump, l’Europa si sente maledettamente sola. Abbandonata, come dopo una grande storia d’amore, da cui esce non solo con le ossa rotte, ma anche con i figli sequestrati e un assegno salato da pagare per il loro mantenimento (vedi NATO).

Dopo Rearm EU, i segnali sono molteplici e preoccupanti: dalla guerra ibrida condotta dalla Russia, alle spinte militariste provenienti dagli Stati Uniti, fino alle divergenze interne all’Unione Europea su difesa, sovranità e leadership. L’Europa ha perso la propria sicurezza e cerca di recuperare il tempo perduto, ma lo fa senza unità d’intenti e senza aver probabilmente ancora stabilito priorità e assetti strategici. Il famoso vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro, per dirla con Manzoni.

Putin questo lo ha capito da tempo. Ed è anche il motivo per cui si è permesso di spingere sull’acceleratore del gas in Ucraina. Putin — che tutto è fuorché un pacifista — incarna, a suo modo, il dramma post-sovietico che la Russia ha dovuto attraversare. Con tanti anni di pane e cicoria alle spalle, per citare una frase fortunata di un ex leader di casa nostra.

In tempi migliori, con leader diversi e una diplomazia meno affaticata, forse si sarebbe potuto evitare questa contrapposizione a muso duro. Ma nel 2022, l’Europa — forte del consenso di Biden — aveva già scelto di accogliere la sfida. E pur restando formalmente ai margini, la NATO ha infilato le zampe dentro questa guerra. Per carità, all’inizio era giusto che l’Ucraina si difendesse dall’aggressione russa. Ma ora?

Ora sono passati quasi quattro anni. Quarantaquattro mesi, all’incirca milleseicentocinquanta giorni. Un tempo che avrebbe potuto essere impiegato per costruire una strategia, per ricucire, per pensare. E invece siamo ancora qui, con le stesse domande, gli stessi timori, e una sensazione di stallo che si fa sempre più pesante.

Oggi, rimasta sola, con le sue contraddizioni e le sue fragilità, l’Europa si ritrova a raccogliere i cocci della propria economia e a improvvisare, nel più breve tempo possibile, un’exit strategy che, diciamolo francamente, non aveva mai davvero contemplato. Non per mancanza di intelligenza, ma per una certa abitudine alla delega, alla protezione esterna, al riflesso condizionato di chi si è sempre sentito al sicuro sotto l’ombrello altrui. E ora, quell’ombrello non c’è più. E piove. A dirotto.

Una frase del cancelliere tedesco Friedrich Merz, a margine del vertice UE di Copenaghen di questa settimana, suona in maniera davvero emblematica: “Non siamo in guerra, ma non siamo più in pace.” È una frase che sintetizza perfettamente il clima attuale. Piaccia o non piaccia.

D’altra parte, cosa possiamo aspettarci se, non più tardi di qualche giorno fa, il capo del Pentagono — Pete Hegseth — ha convocato centinaia di generali per annunciare un cambio di paradigma: non più difesa, ma preparazione attiva alla guerra. Peraltro, lo ha fatto attaccando la “decadenza woke”, criticando l’inclusività e le politiche di equità come segni di declino militare. E ha proposto, davanti agli occhi sbigottiti dei generali che lo ascoltavano in religioso silenzio, standard fisici “maschili” per tutti i combattenti, indipendentemente dal genere, deridendo l’espressione individuale (barbe, capelli lunghi, sovrappeso). Per inciso: una postura irricevibile da parte di un Paese occidentale che, storicamente, si è sempre posto in prima linea nella difesa delle libertà.

Questa svolta americana ha implicazioni dirette per l’Europa, che si trova costretta a scegliere tra una difesa autonoma e il rafforzamento della dipendenza strategica da Washington. Non è più questione di presenza o assenza, ma di ruolo e responsabilità: cosa portare da casa, cosa mettere sul tavolo, cosa sacrificare in nome della sicurezza.

Nel frattempo, il riarmo tedesco — con un budget destinato a superare i 150 miliardi di euro entro il 2029 — sta già ridisegnando le gerarchie interne all’Unione. L’asse franco-tedesco vacilla, la leadership continentale è in discussione. E tornano a circolare nomi che fanno tremare le vene ai polsi: Luftwaffe, Wehrmacht… Parole che portano con sé un’eredità pesante, sedimentata nella memoria collettiva europea.

E mentre l’Europa si ostina a trattare la guerra come fosse una partita a Risiko, la notizia della settimana è il progetto “drone wall”: un piano per proteggere il fianco orientale dell’Unione, che ha messo in luce tutte le tensioni interne. Est contro Ovest, Nord contro Sud. Polonia e Paesi Baltici, vicini alla bocca di fuoco russa, chiedono misure urgenti. Francia, Germania, Italia e Grecia sollevano dubbi su costi, efficacia e distribuzione equa delle risorse.

Il vertice di Copenaghen ha mostrato quanto sia difficile trovare un consenso su temi cruciali come l’uso dei beni russi congelati, l’allargamento dell’UE e la governance della difesa. L’Europa appare ancora disallineata, divisa, incerta. Alle prese con crisi, minacce e nemici, ma senza una direzione chiara. Si muove, reagisce, rincorre gli eventi — ma non sembra sapere davvero dove sta andando.

Un tempo custode di equilibrio e diplomazia, oggi l’Europa si muove tra posture muscolari e fragilità strutturali, senza una vera bussola strategica. I vecchi riferimenti sono saltati, le alleanze incrinate, le leadership evaporate. E mentre il mondo accelera, il continente resta sospeso, incerto, impolverato come una statua mitologica dimenticata in un museo chiuso per ristrutturazione. Sembra davvero la caduta degli dei dall’Olimpo.

(  https://gianvitopipitone.substack.com/ )


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