Fonti storiografiche Bizantine sull’Italia meridionale peninsulare – Parte 1/3

di Gennaro Tedesco
Si presentano qui tutte le fonti bizantine storiografiche relative all’Italia meridionale peninsulare nel VI – VII secolo .
L’apertura del repertorio delle fonti bizantine comincia con lo storico bizantino Procopio di Cesarea che scrive sulla Guerra Gotica ( 535 – 553 ) , conflitto combattuto in Italia tra Ostrogoti e Bizantini .
Protagonisti politici assoluti di tale periodo sono l’imperatore bizantino Giustiniano , i generali bizantini Belisario e Narsete .
Gli altri storici bizantini del periodo sono Agatia Scolastico , Menandro Protettore , Evagrio Scolastico e Teofilatto Simocatta .
STORIOGRAFIA AULICA (VI-VII)
PROCOPIO DI CESAREA (VI)
Inizio del conflitto
“Tiranno era Teodorico di nome, ma di fatto era un vero e proprio imperatore, non affatto inferiore ad alcuno di quanti in quella dignità nei primi tempi di essa si distinsero: e grande affetto portarono a lui e Goti e Italiani, diversamente dal comune uso umano.” (1)
“Giunsero da Bisanzio, legati al pontefice romano, Ipazio vescovo di Efeso e Demetrio di Filippi in Macedonia, per trattare circa il dogma sul quale fra di loro i Cristiani sono discordi.
Ed io, quantunque ben sappia di che cosa fosse controversia, non starò a riferirlo; giacché a me sembra folle stoltezza investigare la natura di Dio, quale essa sia, se per l’uomo, non solo la natura divina, ma neppure le cose umane sono esattamente intelligibili.” (2)
“Spedita (Giustiniano) inoltre un’ambasciata ai principi dei Franchi scrisse così: ‘I Goti ,presasi a forza la nostra Italia, non solo non intendono restituirla, ma aggiunsero anche offese né piccole né tollerabili verso di noi; pertanto fummo costretti ad andare in guerra contro di loro; a voi conviene in questa guerra unirvi a noi, poiché comune abbiamo l’ortodossia che respinse la credenza degli Ariani, comune l’odio contro i Goti. ” (3)
Belisario raggiunge finalmente la Calabria e vi trova gente ben disposta verso i Bizantini.
“Le genti di quel paese (Reggio) giornalmente si accostavano a lui (Belisario), perché ,essendo quel luogo da tempo antico sprovvisto di mura, non avevano modo di custodirlo, ed anche soprattutto per l’odio dei Goti, poiché giustamente quel governo grave riusciva loro.” (4)
A Napoli si nota “un Siro che da molto tempo abitava a Napoli per il commercio marittimo.” (5)
Vi erano “Pastore e Asclepiadoto, causidici, tra i Napoletani assai distinti, che erano molto dediti ai Goti né favorevoli ad un mutamento di cose.” (6)
“Essi (i Napoletani) fecero venire avanti gli Ebrei i quali affermavano che alla città (Napoli) nulla del necessario sarebbe mancato.” (7)
I Bizantini considerano i meridionali di Napoli “cristiani e romani.” (8)
“I Giudei (a Napoli) combattevano gagliardamente e sopra ogni credere resistevano all’irrompere degli avversari (i Bizantini).” (9)
“Belisario poneva in assetto l’esercito, e i Romani (gli abitanti di Roma), temendo che accadesse loro come ai Napoletani, dopo riflessione, videro essere meglio accogliere nella città l’esercito imperiale. A ciò soprattutto li spingeva Silverio, vescovo di quella città.” (10)
“I Goti del presidio di Roma, udito che i nemici (i Bizantini) erano già prossimi, e venuti a conoscenza della decisione degli abitanti di Roma, erano inquieti per la città, e non sapevano che fare, non essendo in grado di sorvegliare quella ad un tempo e di far fronte agli assalitori.
Ma poi, avuto l’assenso degli abitanti di Roma, partirono di là e si recarono tutti a Ravenna.” (11)
“Tutti gli abitanti di Roma, benché crucciati per questo fatto, (Belisario) li costrinse a portare dai campi in città tutte le loro vettovaglie.” (12)
“Già prima però i Calabri ed i Pugliesi, non avendo Goti nel loro Paese, volontariamente si erano presentati a Belisario, così quelli della costa marittima, come quelli dell’interno.” (13)
I Goti accusano gli abitanti di Roma “che ai potenti Goti avevano preferito i Greci incapaci di difenderli dei quali mai prima non avevano veduto venire alcuni in Italia se non degli attori tragici, dei mimi e dei pirati”. (14)
“Così i Goti con le loro truppe circondarono una metà circa delle mura (di Roma).” (15)
“Così disposti i Goti ruppero tutti gli acquedotti perché la città (Roma) non ricevesse acqua.” (16)
A Roma si trovano in ottimo stato non solo “i mulini” (17), ma anche le “terme e le cloache.” (18)
“I Sanniti erano convinti che Belisario con la forza sarebbe riuscito vincitore.” (19)
“Rimproveri facevano occultamente a Belisario quelli del consiglio che chiamano Senato.” (20)
“I Romani (gli abitanti di Roma) sono oggi a noi (i Bizantini) favorevoli, ma se i loro mali dovessero durare a lungo, certamente non esiteranno ad abbracciare il partito per loro migliore; poiché quelli che da poco divennero amici di qualcuno, hanno l’abitudine di restargli fedele tutte le volte che non male, ma bene ne ricavano.
Del resto la fame costringerà anche i Romani (gli abitanti di Roma) a fare molte cose contro il loro volere.” (21)
“Venuto poi in sospetto che il vescovo della città (Roma) Silverio macchinasse un tradimento a favore dei Goti, subito (Belisario) lo mandò in Grecia e poco dopo pose al suo posto un altro vescovo di nome Vigilio; per la stessa ragione aveva già scacciato alcuni senatori.” (22)
I Bizantini temevano “un tradimento da parte di coloro che custodivano le porte (di Roma).” (23)
“Nel porto (di Roma) sono sempre ormeggiate molte navi da carico.
Quindi, appena i mercanti giungono con le navi in porto, tirato fuori e deposto il carico sulle navi onerarie, navigano per il Tevere verso Roma.” (24)
“La differenza era questa: che quasi tutti i Romani e gli alleati Unni erano bravissimi a tirare d’arco a cavallo, mentre i Goti non avevano di ciò nessuna pratica, perché i loro cavalieri erano soliti usare soltanto le lance e le spade, e gli arcieri andavano a combattere a piedi, sotto la copertura degli opliti.
E i cavalieri, se la mischia non è un corpo a corpo, non sanno come ripararsi dal tiro degli avversari e sono perciò agevolmente colpiti e uccisi, mentre i fanti non sarebbero mai in grado di fare incursioni contro uomini a cavallo.
Per queste ragioni Belisario si diceva convinto che i Barbari soccombessero in quegli scontri.
I Goti, pensando alla stranezza di quanto era loro accaduto, smisero di fare incursioni a piccoli gruppi contro la cinta romana, e, quando i nemici davano loro molestia, non li inseguivano, se non quel tanto che occorreva per ricacciarli dalle trincee.” (25)
“Ormai al principio del solstizio d’estate, piombarono sulle città (Roma) la carestia e la peste.
I soldati avevano ancora il pane, ma nient’altro del necessario, mentre gli altri Romani non avevano più neppure il pane ed erano appunto oppressi dalla fame e dalla peste nel medesimo tempo.
I Goti se ne resero conto e ormai non avevano più nessuna intenzione di rischiare in battaglia, ma vigilavano perché i nemici non ricevessero rifornimenti di sorta.” (26)
“L’imperatore ha inviato un esercito innumerevole raccolto da tutto il mondo, mentre la flotta, la più grande che mai abbiano avuto i Romani, copre tutto il litorale campano e la più gran parte del Golfo Ionio”.
Con queste parole Belisario rincorò i rappresentanti del popolo romano e li congedò.
A Procopio, autore di questa storia, diede ordine d’andare subito a Napoli, perché correva voce che l’imperatore avesse inviato un esercito a quella volta.
Gli ingiunse di riempire di grano quante più navi potesse e di radunare tutti i soldati che fossero intanto arrivati da Bisanzio o fossero rimasti colà a far la guardia ai cavalli o per qualunque altro motivo: aveva sentito dire che ce n’erano molti in giro nei paesi della Campania.
Doveva anche prelevare alcuni soldati dai presidi del luogo e venire con essi al più presto presso Ostia, porto dei Romani, portando con se il grano.
Procopio, col corazziere Mundila e con pochi cavalieri, varcò di notte la porta che prende il nome di S. Paolo Apostolo, passando inosservato al campo nemico che stava alle poste vicinissimo alla Via Appia.
Quando quelli di Mundila tornarono a Roma dicendo che Procopio era arrivato in Campania senza incontrare nessuno dei Barbari, perché di notte nessuno dei nemici usciva dagli accampamenti, tutti diventarono ottimisti.” (27)
“Intanto Procopio, arrivato in Campania, vi raccolse non meno di 500 soldati, e teneva pronto un buon numero di navi riempite di grano.
Poco più tardi arrivò anche Antonina (moglie di Belisario) e subito si diede a occuparsi, con lui, della flotta.
Allora anche il Vesuvio si mise a brontolare, senza però che vi fosse un’eruzione.
Ma la si aspettava, sicché la gente del luogo fu presa da gran paura.
Questo monte dista da Napoli 70 stadi ed è a Nord della città; è tutto scosceso; alle pendici è pieno di vegetazione tutt’intorno, mentre la parte superiore è ripida e terribilmente impervia.
In cima al Vesuvio si vede, proprio al centro, una cavità così profonda, che si ritiene che arrivi fino all’estremità inferiore della montagna.
E lì, se uno ha il coraggio di sporgersi, si può vedere il fuoco, e ogni tanto la fiamma s’attorce su se stessa senza dar fastidio a nessuno; ma, quando la montagna emette un boato simile a un muggito, il più delle volte erutta, poco dopo, una gran quantità di cenere.
E se per caso uno passa in quel momento per strada, non ha scampo; se poi la cenere piomba sulle case d’abitazione, queste crollano sotto il peso.
Se poi soffia il vento, la cenere sale così in alto, che non si vede neppure più, e va dove il vento la porta, ricadendo a terra anche a grande distanza.
Si dice che una volta cadde a Bisanzio, spaventando talmente la gente, che da allora si provvide a placare la divinità con suppliche annuali tuttora in uso; un’altra volta andò invece a finire a Tripoli, in Libia.
Dicono che quel boato s’udisse prima ogni cento e più anni, e che poi si sia fatto assai più frequente.
S’assicura tuttavia che, quando il Vesuvio erutta quella cenere, tutta la zona è infallibilmente rigogliosa d’ogni sorta di prodotti.
L’aria su quella montagna è assai fina e fa benissimo alla salute: per questo i medici da tempi remoti mandano là i malati di tisi.
Questo per quanto riguarda il Vesuvio.
Nel frattempo arrivarono da Bisanzio altre truppe: 3000 Isauri nel porto di Napoli, al comando di Paolo e Conone; a Otranto 800 cavalleggeri traci, sotto la guida di Giovanni, nipote dell’ex usurpatore Vitaliano, e con loro altri 1000 soldati dei quadri di cavalleria, che avevano a comandanti, fra gli altri, Alessandro e Marcenzio.
Era arrivato a Roma anche Zenone con 300 cavalieri, attraverso il Sannio e La Via Latina.
Quando anche Giovanni con tutti gli altri fu arrivato in Campania, dopo aver preso in Calabria molti carri, si congiunsero alle sue truppe i 500 uomini raccolti, come ho detto, in Campania.” (28)
“Replicarono allora gli ambasciatori dei Goti: ‘Romani, voi ci avete fatto torto, prendendo indebitamente le armi contro chi vi era amico e alleato.
Quello che noi diremo, ognuno di voi, crediamo, lo sa benissimo.
I Goti non hanno preso con la violenza l’Italia ai Romani: Odoacre, deposto l’imperatore, s’impadronì del Paese, mutandone l’assetto politico in regno assoluto.
Allora Zenone, sovrano d’Oriente, volle fare le vendette del suo collega d’impero e liberare questo Paese dal tiranno; ma, non essendo in grado d’abbattere la potenza d’Odoacre, indusse Teodorico nostro re, che pure era sul punto di assediare lui e Bisanzio, a deporre l’odio verso di lui, in memoria degli onori che aveva ricevuto divenendo patrizio e console romano, e a far pagare a Odoacre il torto fatto ad Augustolo, reggendo per l’avvenire, coi suoi Goti, il Paese , secondo legalità e giustizia.
Fu così che noi entrammo in possesso del regno d’Italia e ne conservammo le leggi e gli istituti non meno di tutti gli imperatori di prima, tanto che né a Teodorico né a nessun altro di quanti gli successero nel regno gotico si può far risalire nessuna legge scritta, nessuna legge non scritta.
Manovre diplomatiche e prime difficoltà.
Quanto alle pratiche religiose e alla fede dei Romani, ne abbiamo scrupolosamente salvaguardato l’integrità, al punto che a tutt’oggi non c’è stato uno degli Italiani che volontariamente o involontariamente abbia cambiato il suo credo, e dei Goti che l’hanno cambiato non s’è fatto alcun caso.
Anche le chiese romane sono state oggetto del più alto rispetto da parte nostra.
Nessuno, che vi si sia rifugiato, ha subito mai alcuna violenza da nessuno.
Quanto poi alle cariche pubbliche, sono state sempre tenute dai Romani, senza che nessun Goto v’abbia mai avuto parte.
Si faccia avanti chi vuole smentirci, se crede che quanto abbiamo detto sia falso.
Si può aggiungere che, anche per ciò che concerne la dignità consolare, i Goti hanno lasciato che venisse annualmente conferita dall’imperatore d’Oriente ai Romani.
Le cose stanno così.
Voi invece non vi siete curati affatto dell’Italia maltrattata dai Barbari di Odoacre, sebbene questi abbia esercitato le sue nefandezze non per breve tempo ma per dieci anni; e adesso ai suoi legittimi possessori, senza alcun vostro diritto, fate violenza.
Pertanto, andatevene di qui, tenendovi ciò che è vostro e ciò che avete perduto’.
E Belisario: ’avete fatto un preambolo, promettendo di parlare brevemente e con misura, e poi vi è venuto fuori un discorso lungo e non certo privo di spocchia.
Teodorico fu mandato a combattere Odoacre dall’imperatore Zenone, non già perché si tenesse l’Italia (che interesse aveva l’imperatore a sostituire un tiranno a un tiranno?), bensì perché il Paese fosse libero e soggetto all’imperatore.
Ma quello, risolta la questione col tiranno, per il resto fu ingrato e non poco, perché non volle mai restituire il Paese al suo sovrano legittimo.
Ora io credo che chi fa uso della violenza e chi non rende spontaneamente la roba d’altri siano pari.
Io certo non consegnerei mai a un altro un Paese che è dell’imperatore.
Se avete altro da chiedere, parlate’.
E i Barbari: ‘che noi abbiamo detto la verità, lo sa bene ciascuno di voi.
Ma per non dare l’impressione di voler litigare, noi siamo disposti ad andarcene dalla Sicilia e a lasciarvela: è così grande e così ricca, e senza di essa non vi sarebbe possibile tenere con sicurezza la Libia’.
E Belisario: ‘e noi lasciamo ai Goti il possesso dell’intera Britannia, che è molto più grande della Sicilia e una volta fu soggetta ai Romani: è giusto ricambiare della stessa moneta chi prende l’iniziativa di un beneficio o di un favore’.
Barbari: ‘E se adesso parlassimo della Campania o della stessa città di Napoli, accettereste?’.
Belisario: ‘Neanche per sogno.
Noi non siamo arbitri di disporre di ciò che è dell’imperatore, se non secondo la sua volontà’.
Barbari: ‘Neppure se noi promettessimo di corrispondere annualmente all’imperatore una certa somma?’.
Belisario: ‘No no; noi non abbiamo pieni poteri, se non per serbare il possesso del Paese a chi lo ha’.
Barbari: ‘Ebbene, concedici di andare dall’imperatore e di stringere con lui gli accordi su tutto.
Ma si dovrà fissare un limite di tempo, entro il quale gli eserciti osservino una tregua’.
Belisario: ‘E sia.
Voi fate proposte di pace, e io non vi porrò bastoni fra le ruote’.
Dopo queste parole posero fine al dialogo e gli ambasciatori dei Goti tornarono al loro campo.
Nei giorni successivi, con frequenti incontri, stabilirono una regolamentazione per la tregua e per la consegna di personaggi cospicui da ambo le parti in conto di ostaggi, a garanzia della tregua stessa.” (29)
“Si dice che nel Piceno morissero di fame non meno di 50000 coloni romani, e ancora di più al di là del Golfo Ionio.” (30)
“I convenuti (Goti) esprimevano molte opinioni, alcune affatto incongrue alla situazione attuale, altre invece di notevole peso.
Fra le quali fu messa in campo anche questa: che l’imperatore dei Romani non era stato mai in grado di combattere i Barbari d’Occidente prima d’aver concluso patti di tregua con i Persiani: soltanto allora i Vandali e i Mauritani erano stati abbattuti e ai Goti era capitato quel che era capitato.
Ragion per cui, se qualcuno anche allora avesse sobillato il re dei Medi contro l’imperatore Giustiniano, i Romani, in guerra con quel popolo , non avrebbero più potuto guerreggiare con nessun altro.
Questa considerazione fu approvata da Vitige e dagli altri Goti.
Si decise dunque di mandare ambasciatori a Cosroe, re dei Medi, che però non fossero Goti, per non compromettere la situazione scoprendosi troppo, bensì Romani, i quali riuscissero a far prendere a quel re le armi contro l’imperatore.
Con un forte compenso riuscirono a indurre a quell’ufficio due ecclesiastici della Liguria, uno dei quali, quello che sembrava più autorevole, si dispose all’ambasceria ammantandosi dei paramenti e del titolo di vescovo, che non gli spettava affatto, e l’altro andò al suo seguito.
Vitige li inviò affidando loro una lettera per Cosroe.
Cosroe ne fu sobillato e compì contro i Romani, in spregio ai patti, azioni nefande, come ho detto nei libri precedenti.
L’imperatore Giustiniano, quando seppe quali erano le intenzioni di Cosroe e dei Persiani, decise di porre fine al più presto alla guerra in Occidente e di richiamare Belisario, perché comandasse la spedizione contro i Persiani.”. (31)
“(Vitige) era soprattutto sconvolto dal pensiero della fame, non avendo come e dove procurare il necessario alle truppe.
I Romani, che avevano il dominio del mare e tenevano la fortezza di Ancona, depositavano lì tutti i viveri provenienti dalla Sicilia e dalla Calabria.”(32)
“A Bisanzio c’era un certo Alessandro, capo della ragioneria dello Stato: la sua carica era quella che i Romani chiamano, con un nome greco, di ‘logoteta’.
Costui imputava sempre alle truppe il dissesto della finanza pubblica.
E, incriminando i militari di simili colpe, da oscuro che era, in breve divenne illustre e, da povero, ricchissimo; fece altresì incassare all’imperatore più quattrini di ogni altro, ma fu anche il maggior responsabile del fatto che i soldati fossero pochi e poveri e riluttanti di fronte ai rischi.
I Bizantini lo chiamavano col nomignolo di ‘Forbicina’, per la sua facilità di tagliare torno torno una moneta d’oro rimpicciolendola quanto voleva, pur conservandole la primitiva forma rotonda.
‘Forbicina’ è il nome dell’attrezzo con cui si fanno simili operazioni.
Ora, l’imperatore, dopo avere richiamato Belisario, mandò questo Alessandro in Italia.
E lui, giunto a Ravenna, presentò conti insensati.
Gli Italiani non avevano mai toccato monete imperiali e non avevano fatto niente di male all’erario; ma lui li teneva responsabili, accusandoli di torti fatti a Teodorico e agli altri capi dei Goti, e costringendoli al risarcimento di ipotetici profitti, da loro realizzati, a quanto diceva, ingannando i Goti.
Quanto ai soldati, le ricompense per le ferite e i rischi erano da lui riconosciute, contro le aspettative, con calcoli pretestuosi.
Perciò gli Italiani si mal disposero verso l’imperatore Giustiniano; quanto ai soldati, nessuno voleva più affrontare rischi di guerra, e con la loro deliberata ignavia determinarono un grosso rialzo delle azioni nemiche.” (33)
“In effetti (i Bizantini) si sono comportati verso le popolazioni soggette in modo tale, che gli Italiani, per il tradimento che hanno osato perpetrare indebitamente nei riguardi dei Goti, non hanno bisogno di ulteriore castigo: a tal segno è toccato loro di subire, per dirla in una parola, ogni sorta di mali da parte di quelli che accolsero a braccia aperte.
E quale conquista è più agevole della vittoria su tali nemici, le cui azioni, compiute addirittura in nome di Dio, sono empie?” (34)
“Poi Totila prese le fortezze di Cesena e di Petra.
Poco dopo giunse in Toscana e tentò la conquista di quei paesi, ma, poiché nessuno era disposto a passare dalla sua parte, varcò il Tevere, e, senza entrare nel territorio di Roma, si spinse direttamente in Campania e nel Sannio; riuscì ad annettersi senza sforzo la città fortificata di Benevento e ne rase al suolo le mura, perché un eventuale esercito proveniente da Bisanzio non potesse muovere da quel caposaldo per dare guai ai Goti.
Quindi decise di assediare Napoli, i cui abitanti, nonostante le sue molte lusinghe, non erano affatto disposti a farlo entrare in città.
Lì c’era di guardia Conone con mille uomini fra Romani e Isauri.
Totila col grosso dell’esercito si accampò a breve distanza dalla cinta muraria restando in attesa, ma inviò un reparto armato a conquistare il castello di Cuma e altre posizioni fortificate, riuscendo a ricavarne molto denaro.
Lì trovò le mogli dei senatori, ma non recò loro nessuna offesa, anzi, con molta cortesia, le lasciò libere, acquistandosi per quel fatto una grossa risonanza di saggezza e d’umanità presso tutti i Romani.
Non trovandosi di fronte nessuna ostilità, mandava in giro di volta in volta piccoli gruppi d’armati, compiendo imprese di notevole risonanza.
Riuscì ad annettersi i Bruzi e i Lucani ed ebbe in pugno la Puglia con la Calabria.
Esigeva personalmente i tributi pubblici, riscuoteva i proventi pecuniari in luogo dei proprietari terrieri e regolava ogni cosa come colui che era divenuto il padrone d’Italia.
Perciò l’esercito, che non incassava a tempo debito il soldo consueto, si trovò creditore di somme enormi da parte dell’imperatore.
Gli italiani, estromessi dalla roba loro e ridotti nuovamente in grave stato di pericolo, erano accorati.
I soldati si mostravano ancora più indisciplinati nei riguardi dei comandanti e restavano volentieri nelle città.” (35)
“Poi l’imperatore inviò anche, come generale, Demetrio, che aveva militato in precedenza sotto Belisario come comandante di quadri di fanteria.
Demetrio approdò in Sicilia e, quando seppe che Conone e i Napoletani erano stretti da un durissimo assedio, con totale penuria di vettovaglie, ebbe l’idea di correre in aiuto al più presto; ma, poiché non poteva farlo, data l’esiguità e l’irrilevanza delle truppe che aveva al seguito, concepì questa idea.
Radunò in Sicilia quante più navi poté, le riempì di grano e di ogni altra vettovaglia e si mise in mare, dando agli avversari l’impressione che nelle navi ci fosse un enorme numero di soldati.
E congetturò esattamente l’opinione dei nemici: questi pensarono, infatti, che un grosso esercito avanzasse contro di loro, in base alla notizia che una grande flotta era in navigazione dalla Sicilia.
Se Demetrio fin da principio avesse avuto l’idea di puntare direttamente su Napoli, credo che avrebbe gettato i nemici nello sbigottimento e avrebbe recuperato la città senza incontrare resistenza alcuna.
Invece ebbe paura del rischio e non decise affatto di approdare a Napoli, ma navigò verso il porto di Roma, preoccupandosi di prelevare soldati di lì.
Ma questi, vinti come erano stati dai Barbari e ancora pieni di paura nei loro riguardi, non avevano nessuna intenzione di andare dietro a Demetrio contro Totila e i Goti.
Perciò Demetrio si vide costretto ad andare a Napoli con le sole truppe che erano venute con lui da Bisanzio.” (36)
“Quando la flotta romana fu vicina a Napoli, piombò un ventaccio, suscitando una tempesta eccezionale.
La tenebra avvolgeva ogni cosa, e il mare grosso impediva ai marinai di spingere i remi e di compiere qualunque manovra.
Per il fragore delle onde non riuscivano ad udirsi l’un altro; la confusione regnava sovrana, e tutti erano in balia della violenza del vento, che li trascinava loro malgrado verso la riva dove erano accampati i nemici.
Sicché i Barbari, montando a piacimento sugli scafi degli avversari, uccidevano e affondavano senza trovare resistenza alcuna.” (37)
“Dopo aver preso Napoli, Totila mostrò verso i vinti un’umanità del tutto insolita in un nemico e in un barbaro.
Trovò i Romani malati d’inedia, per cui la forza fisica era in essi ridotta allo stremo; e temendo che, saziandosi all’improvviso di cibo, avessero a subire un collasso, fece questa pensata.
Collocò sentinelle al porto e alle porte, con l’ordine di non far uscire nessuno.
Fame
Lui stesso, poi, con una sorta di provvida taccagneria, somministrava i cibi in misura inferiore ai desideri ,aggiungendo di giorno in giorno solo quel tanto che facesse passare inosservato il progressivo aumento di quantità.
Così rinvigorì le loro forze; poi spalancò le porte e lasciò che ciascuno andasse dove voleva.” (38)
“Le mura di Napoli (Totila) si accinse a raderle al suolo, perché i Romani non avessero a riprenderle e a partire da quella posizione fortificata per dare fastidio ai Goti.
Preferiva un conflitto decisivo in campo aperto a una guerra di posizione a base di trovate ingegnose e di gherminelle.
Tuttavia, dopo averne abbattuta gran parte, lasciò intatto il resto.” (39)
“I comandanti dell’esercito romano, insieme con i soldati, rapinavano gli averi dei civili loro soggetti, senza risparmiare nessun atto di prepotenza e di sregolatezza.
I comandanti nelle fortezze facevano baldoria con le loro amanti, e i soldati, mostrandosi sempre più insubordinati nei riguardi dei capi, cadevano in ogni sorta di aberrazioni.
Così per gli Italiani non c’era altra conclusione che subire le peggiori angherie da parte di entrambi gli schieramenti.
A privarli dei campi ci avevano pensato i nemici, mentre le truppe imperiali li privavano dei beni mobili.
Per soprammercato erano vessati senza ragione e morivano, schiacciati come erano dalla penuria del necessario.
I soldati, che non erano in grado di difenderli in nessun modo dai danni che subivano dai nemici, erano ben lungi dal provare il minimo rossore per la situazione; anzi, con le colpe che commettevano, facevano loro rimpiangere i Barbari.
Costanziano, in forte disagio per questi fatti, mandò una lettera all’imperatore Giustiniano, dichiarando esplicitamente di non essere minimamente in grado di fronteggiare i Goti.
Gli altri comandanti, quasi a convalida di questo avviso, nello stesso scritto si dichiaravano d’accordo sulla riluttanza alla lotta.
Così andavano le cose per gli Italiani.” (40)
“Totila mandò una parte delle truppe in Calabria a tentare la conquista del castello di Otranto.
Quelli che custodivano la posizione non avevano la minima intenzione di arrendersi, sicché egli ordinò alle truppe colà inviate di disporsi all’assedio, mentre lui, col grosso dell’esercito, andava nei paesi vicini a Roma.
Quando l’imperatore lo seppe, piombò nel più grave imbarazzo e si vide costretto a mandare contro Totila Belisario, benché i Persiani esercitassero una grossa pressione.” (41)
“Così Belisario andò per la seconda volta in Italia.
Aveva però un numero di soldati assai esiguo (non poté in nessun modo stornare le sue truppe dall’esercito in Persia), sicché, girando tutta la Tracia e profondendo danaro, si diede ad arruolare volontari.
Per volere dell’imperatore lo accompagnava Vitalio, generale degli Illirici, da poco reduce dall’Italia, dove aveva lasciato le truppe illiriche.
Entrambi , dunque, messi insieme circa 4000 uomini, si trovarono a Salona, con l’idea di puntare prima di tutto su Ravenna e di condurre di lì la guerra in ogni modo possibile.
Non se la sentivano di tentare un approccio nella zona di Roma, non potendo passare inosservati ai nemici (che sapevano accampati in Calabria e in Campania) né batterli in nessun modo, perché le forze con cui li affrontavano erano impari.
Frattanto gli assediati di Otranto avevano finito tutte le provviste, sicché vennero a trattative con i Barbari, impegnandosi alla resa a discrezione della fortezza: era stato fissato, di comune accordo, un giorno preciso.
Ma Belisario riempì alcune navi con provvigioni per un anno e ordinò a Valentino di dirigersi con quelle a Otranto, di prelevarne al più presto i difensori del forte, che sapeva stremati dalla malattia e dalla fame, collocando in loro vece alcuni uomini dei suoi equipaggi: pensava che questi, avendo forze integre e non mancando del necessario, avrebbero potuto più agevolmente difendere il forte con sicurezza.
Valentino , dunque, con questa flotta, trovato il vento propizio, approdò a Otranto quattro giorni prima della data fissata: trovò il porto incustodito, se ne impadronì e riuscì a entrare nella fortezza senza problemi.
Infatti i Goti, fidando negli accordi, non sospettavano che nelle more avrebbero incontrato ostacoli, sicché si curavano ormai ben poco della situazione di Otranto e se ne stavano cheti.
Allora però, come videro approdare all’improvviso quella flotta, si impaurirono e tolsero l’assedio, si allontanarono di molto da quella posizione, si accamparono e riferirono a Totila quanto era successo.
Tanto fu il rischio che corse la fortezza di Otranto.
Dei soldati di Valentino, alcuni vollero darsi al saccheggio e fecero scorrerie nella zona; si scontrarono per caso con i nemici presso le rive del mare e vennero alle mani.
Subirono una disfatta, e i più fuggirono in acqua, perdendo 170 uomini; altri si ritirarono nel forte.” (42)
“Belisario mandò a Roma due dei suoi corazzieri, Artasire, un Persiano, e il trace Barbatione, perché dividessero con Bessa, che vi si trovava, la custodia della città; ma anche li raccomandò di non tentare nessuna sortita contro i nemici.” (43)
“Quindi Totila si diresse verso Roma: quando fu vicino, si dispose all’assedio.
Ai contadini, in tutta l’Italia, non fece niente di male, anzi li invitava a coltivare tranquillamente la terra come erano abituati a fare, devolvendo a lui i tributi che prima versavano all’erario e ai proprietari terrieri.
Quando un gruppo di Goti arrivò vicinissimo alla cinta muraria di Roma, Artasire e Barbatione, portandosi dietro molti dei loro, contro il parere di Bessa, fecero un’incursione offensiva.
Uccisero molti nemici e volsero in fuga gli altri.
Ma si misero sulle loro piste e si allontanarono troppo per inseguirli, cadendo così nelle imboscate tese dal nemico.
Persero la maggior parte degli uomini e si salvarono a mala pena con pochi.
Per il futuro, nonostante la pressione degli avversari, non ebbero più l’ardire di fare sortite contro di loro.
Da allora, un’autentica carestia cominciò a opprimere i Romani, che non potevano più importare dalla campagna nulla del necessario , mentre i carichi marittimi erano bloccati.
Infatti, dopo la presa di Napoli, i Goti avevano piazzato una flottiglia di molte barche sia lì sia nelle cosi dette Isole Eolie e in tutte le altre isole della zona , esercitando una rigorosa vigilanza sull’incrociare del traffico.
Sicché le navi che salpavano dalla Sicilia dirette al porto di Roma caddero tutte nelle loro mani con i relativi equipaggi.” (44)
“Allora Vigilio, il papa di Roma, che stava in Sicilia, riempì di frumento quante più navi poté, credendo che quelli che scortavano i carichi sarebbero potuti entrare in un modo o nell’altro in Roma.
Le navi veleggiavano verso il porto di Roma ma i nemici se ne accorsero e in breve ne prevennero l’arrivo nel porto e si nascosero dentro le mura, per impadronirsi senza fatica delle navi non appena attraccassero.
La cosa non sfuggì a quelli che stavano di guardia a Porto: salirono tutti sugli spalti e agitando i mantelli intesero segnalare agli equipaggi di non procedere oltre e di volgere la rotta altrove, dove capitasse.
Quelli però non capirono i gesti, credettero che i Romani di Porto li salutassero festosamente invitandoli ad entrare e, poiché il vento era favorevole, in breve furono nella rada.
Nell’equipaggio c’erano molti Romani fra i quali un vescovo di nome Valentino.
I Barbari, usciti dalle postazioni in cui si erano imboscati, si impadronirono di tutte le navi senza trovare resistenza alcuna.” (45)
“Vigilio, il papa di Roma, fu chiamato dall’imperatore e arrivò a Bisanzio dalla Sicilia, dove si era trattenuto molto tempo per questa ragione.” (46)
“Ma la carestia, facendosi ancora più acuta e prolungandosi, diveniva una grossa calamità, e induceva a fieri pasti, di là dai limiti segnati dalla natura.
Da prima Bessa e Conone, che comandavano la guarnigione di Roma, avendo messa in serbo dentro la cinta muraria una gran quantità di grano, rifilavano insieme con i soldati, una parte delle loro razioni, vendendole ai Romani facoltosi a caro prezzo (il prezzo di un moggio era salito a sette aurei).
Ma quelli che non erano in condizioni familiari tali da potersi permettere un cibo così costoso, versando un quarto del prezzo si procuravano un moggio di crusca e se lo mangiavano, e la necessità rendeva quel cibo buonissimo e prelibato.
Un bue che gli scudieri di Bessa riuscissero a prendere nelle loro incursioni, lo vendevano a 50 aurei.
Chi aveva un cavallo morto o un’altra bestia del genere era considerato un privilegiato dalla sorte, potendo scialare con le carni di quella carogna.
Ma tutta la grande massa non mangiava che ortiche, che spuntano in quantità tutt’intorno alle mura e fra le rovine in ogni parte della città.
Quell’erba è pungente: perché non irritasse le labbra e la gola, la facevano bollire con cura prima di mangiarla.
Finché i Romani avevano aurei, compravano, come si è detto, il grano e la crusca e se la cavavano; ma quando la disponibilità di danaro liquido venne meno, portavano al mercato tutti i mobili di casa, dandoli in cambio della sussistenza giornaliera.
Alla fine, quando i soldati imperiali non ebbero più tanto grano da poterne anche vendere ai Romani (a parte il fatto che a Bessa un poco ne era rimasto), né i Romani avevano di che comprare, tutti misero gli occhi sulle ortiche.
Non era però cibo sufficiente, visto che non potevano saziarsi di quelle; perciò le loro carni si consumavano tutte, e il colorito in breve si faceva livido, rendendoli simili a spettri.
Molti morivano all’improvviso e cadevano a terra mentre ancora camminavano e masticavano fra i denti l’ortica.
Fino a che cominciarono a mangiarsi gli escrementi l’uno dell’altro.
E molti, sopraffatti dalla fame, si suicidavano; non trovando né cani né topi né altre carogne di cui cibarsi.” (47)
“Belisario diede le istruzioni a Giovanni e salpò con tutta la flotta; ma trovarono in ventaccio avverso, che li costrinse ad accostare ad Otranto.
I Goti che erano lì all’assedio della fortezza, appena avuto sentore del fatto, tolsero l’assedio portandosi presso la città di Brindisi, che è a due giorni di cammino da Otranto, sulla costa del Golfo, ed era priva di mura: pensavano che Belisario avrebbe passato immediatamente lo stretto.
Riferirono la situazione a Totila; e questi preparò tutto l’esercito per affrontare il nemico e ordinò ai Goti di Calabria di custodire i varchi come potevano.
Quando Belisario, al levarsi d’un vento propizio, si allontanò da Otranto, i Goti non se ne curarono più e cominciarono a comportarsi, in Calabria, con molta negligenza, mentre Totila restava in attesa, e custodiva con cura anche maggiore gli accessi a Roma, per evitare che vi fossero introdotti rifornimenti.
Frattanto Belisario era approdato al porto di Roma e aspettava l’esercito di Giovanni.
Giovanni traghettò in Calabria senza che se ne accorgessero i Goti, i quali , come si è detto, indugiavano presso Brindisi.
Giovanni, rassicurando e blandendo i Calabresi, li indusse a prendere le parti dell’impero: garantiva che avrebbero avuto grossi benefici da parte dell’imperatore e dell’esercito romano.
Poi, più presto che poté, mosse da Brindisi, occupò la città di Canosa, che sta nel cuore della Puglia a 5 giorni di marcia da Brindisi, verso ovest andando a Roma.
A 20 stadi da questa Canosa c’è Canne, dove si racconta che in tempi passati i Romani subirono quella grossa sconfitta per opera di Annibale, comandante dei Libici.
Qui un certo Tulliano, figlio di Venanzio, un Romano molto potente fra i Bruzi e Lucani, venne al cospetto di Giovanni ad accusare l’esercito imperiale del male fatto in precedenza agli Italiani, ma insieme a promettere che, se in futuro fossero stati più miti, lui avrebbe consegnato nelle loro mani Bruzi e Lucani in qualità di sudditi e tributari così come lo erano stati in passato.
Loro, infatti, non erano passati dalla parte di gente che era barbara, e anche ariana, di loro spontanea volontà, bensì in ragione dell’estrema violenza degli avversari nonché dei torti subiti da parte dei soldati imperiali.
Guerra e Diplomazia
Giovanni diede le più ampie assicurazioni che in futuro gli Italiani sarebbero stati trattati benissimo e Tulliano andò con lui.
In seguito a ciò, i soldati non ebbero da sospettare più nulla da parte degli Italiani: la maggior parte delle terre del Golfo Ionio erano ormai loro amiche e soggette all’imperatore.
Quando Totila seppe ciò, scelse trecento Goti e li spedì a Capua, dando loro queste istruzioni: quando vedessero l’esercito di Giovanni marciare di lì verso Roma, dovevano andargli dietro senza farsene minimamente accorgere; al resto avrebbe pensato lui.
Per questa ragione, Giovanni ebbe paura di cadere in qualche accerchiamento, e interruppe la marcia verso Belisario, aggirandosi nella regione dei Bruzi e dei Lucani.
C’era fra i Goti un certo Recimondo, un uomo in vista, che Totila aveva messo a guardia del Bruzio, dandogli alcuni disertori goti, romani e mauritani per presidiare con quelli lo stretto di Scilla e la relativa costa, in modo che nessuno potesse impunemente salpare di lì per andare in Sicilia e viceversa.
Giovanni, con un’iniziativa inattesa, piombò su queste truppe fra Reggio e Bivona, le sbaragliò con la sorpresa, immemori ormai d’ogni senso di valore, e le volse in fuga.
Alcuni fuggirono sul monte che si erge in quel punto, impervio e comunque scosceso: Giovanni li inseguì e raggiunse i nemici sulla salita e li attaccò; quelli non si erano ancora messi in posizione di sicurezza nelle asperità del terreno, sicché egli fece strage di soldati mori e romani nonostante una validissima resistenza, e catturò Recimondo e i Goti, che si arresero, con tutti gli altri.
Compiuta questa impresa, Giovanni seguitava a star lì, mentre Belisario se ne stava inerte aspettando sempre Giovanni.
Gli rimproverava di non rischiare e di non attaccare battaglia con i difensori di Capua, che erano in tutto in trecento, per poi assicurarsi il passaggio, benché avesse con se soldati barbari selezionati.
Ma Giovanni disperò di passare, se ne andò in Puglia e se ne rimase tranquillo in una località chiamata Cervaro.” (48)
“(Totila) trovò molta roba nelle case patrizie (di Roma), soprattutto là dove aveva abitato Bessa (comandante bizantino).
L’empio ricavato del grano, di cui ho detto, quel disgraziato l’aveva ammucchiato per Totila!
Così la misera sorte di vivere in vesti di schiavi e di contadini, chiedendo ai nemici il pane e ogni altro mezzo di sussistenza, toccò a tutti i Romani, e in particolare ai membri del senato, e non meno che agli altri a Rusticiana, figlia di Simmaco, che era stata moglie di Boezio, la quale aveva sempre dato i suoi averi ai bisognosi.
Quei poveracci andavano in giro per le case e, bussando via via alle porte, chiedevano cibo, senza che la cosa provocasse in loro alcuna vergogna.
I Goti avevano una gran voglia di uccidere Rusticiana, imputandole il fatto che, mentre dava i soldi ai comandanti romani, aveva abbattuto le statue di Teodorico, vendicandosi così dell’uccisione di suo padre Simmaco e di suo marito Boezio.
Ma Totila non permise che le fosse torto un capello, mise in salvo da ogni violenza lei e tutte le altre donne, sebbene i Goti avessero un gran desiderio di portarsele a letto.
Così nessuna di loro subì alcuna violenza fisica, coniugata, vergine o vedova che fosse, e Totila per questo comportamento si acquistò grande fama di moderazione.” (49)
“Nel tempo in cui ambasciatori andavano a Bisanzio e tornavano in Italia, in Lucania accadevano i fatti seguenti.
Tulliano radunò i contadini e si mise a guardia dell’accesso alla regione, che era assai stretto, perché i nemici non entrassero nei paesi della Lucania per devastarli.
Con quelli montavano la guardia trecento Anti, che Giovanni aveva in precedenza lasciato lì su richiesta di Tulliano: sono Barbari particolarmente bravi a combattere in luoghi impervi.
Come Totila lo seppe, pensò che non fosse conveniente affidare la bisogna a soldati goti: riunì un certo numero di contadini e mandò con loro un pugno di Goti, con l’ordine di tentare di forzare il passaggio con tutti i mezzi.
Quando vennero a contatto, ci fu un grande serra serra e gli Anti, grazie al loro valore, e col concorso del terreno impervio, insieme con i contadini di Tulliano sbaragliarono gli avversari, facendo anche una grossa strage.
A questa notizia Totila decise di radere al suolo Roma, di lasciare la maggior parte delle proprie forze in quella zona, ed andare con le altre truppe contro Giovanni e i Lucani.
In molti punti abbatté le mura, per circa un terzo dell’intera cinta.
E stava per dar fuoco anche alle più belle e cospicue abitazioni e per ridurre Roma a un pascolo di pecore, quando Belisario, informato della cosa, gli mandò ambasciatori con una lettera.
Quando i legati furono al cospetto di Totila, gli esposero la ragione della loro missione e gli consegnarono la lettera.
Il tenore dello scritto era questo: ‘Creare bellezze inesistenti in una città potrebbe essere opera di uomini geniali ed esperti del vivere civile; così, cancellare quelle esistenti è proprio degli stolti, che non si vergognano di lasciare ai tempi avvenire un tale segno della loro natura.
Roma è, per riconoscimento comune, la più grande e la più cospicua di tutte quante le città che si trovano sotto il sole.
Non è stata fatta dal genio di un uomo solo né è giunta a tanta grandezza e bellezza in forza di un tempo esiguo: una quantità di imperatori, schiere e schiere di uomini di valore, lunghezza di tempi e strabocchevole copia di ricchezze sono riuscite a concentrare qui, oltre a tutto il resto anche grandi artisti da tutto il mondo.
Così a poco a poco costruirono la città quale tu la vedi, lasciando all’ avvenire tali memorie della genialità di tutti, che un oltraggio recato ad esse sarebbe giustamente da considerare un delitto contro l’umanità di ogni tempo, perché toglierebbe agli uomini del passato la memoria del loro ingegno e a quelli del futuro la vista di tali opere.
Stando così le cose, renditi bene conto di questo: delle due l’una: o tu sarai sconfitto dall’imperatore in questa guerra, o vincerai, se così vuole la sorte.
Ora, supponiamo che tu vinca: se avrai raso al suolo Roma, non avrai distrutto la città di un altro, bensì la tua, valentuomo; se la conservi ti arricchirai, è naturale, del più splendido dei possessi.
Supponiamo ora che ti tocchi la sorte peggiore: se avrai salvato Roma, il vincitore te ne sarà molto grato; se l’avrai distrutta, non ci sarà luogo, per te, ed alcuna umanità, e per giunta non avrai certo nessun vantaggio da tale azione.
Ti circonderà una fama adeguata al tuo agire, da parte di tutti gli uomini: essa è lì pronta per te quale che sia la decisione che tu prenda; perché, quali le azioni di chi comanda, tale è la nomea che di necessità ne ricava’.
Belisario scrisse così.
Totila rilesse più volte la lettera e, resosi esattamente conto del senso di quel monito, si persuase e non recò a Roma ulteriori danni.
Fece sapere a Belisario la sua decisione e congedò subito i legati.
Ordinò al grosso dell’esercito di accamparsi non molto lontano da Roma, a distanza di circa 120 stadi verso ovest, in località Algedone e di starsene cheti, in modo tale che gli uomini di Belisario non avessero nessuna possibilità di uscire da Porto; lui poi, col resto delle truppe si diresse contro Giovanni e i Lucani.
Quanto ai Romani, lui si teneva con se i membri del senato, mentre tutti gli altri, con le donne e i bambini., li mandò nei paesi della Campania, senza far rimanere a Roma un’anima viva e lasciando la città completamente deserta.
Giovanni, come seppe che Totila marciava su di lui, non volle restare più in Puglia e se ne andò di corsa a Otranto.
I patrizi tradotti in Campania mandarono in Lucania alcuni dei servi, per consiglio di Totila, a invitare i contadini a disimpegnarsi e a seguitare a coltivare i campi come avevano sempre fatto; facevano sapere che i beni dei padroni sarebbero andati a loro.
Così quelli si staccarono dalle truppe romane e se ne rimasero tranquilli nei campi;
Tulliano si diede alla fuga, e i trecento Anti decisero di ritirarsi presso Giovanni.
In tal modo tutta la zona al di qua del Golfo Ionio, salvo Otranto, tornò sotto il potere di Totila e dei Goti.
I barbari, preso ormai coraggio e sparpagliandosi a gruppi , andavano girando dappertutto.
Giovanni lo seppe e inviò contro di loro un buon numero dei suoi, i quali piombando sui nemici all’improvviso ne uccisero molti.
In seguito a ciò Totila si impaurì, radunò tutti i suoi, si accampò presso il monte Gargano che sorge quasi nel cuore della Puglia proprio nel trinceramento che fu di Annibale il Libico, e li rimase tranquillo.” (50)
“C’è sulla costa calabra una città di nome Taranto a due giorni circa di marcia da Otranto, andando verso Turi e Reggio.
Giovanni vi giunse con pochi uomini per invito dei Tarantini dopo aver lasciato gli altri alla custodia di Otranto.
Quando vide la città, straordinariamente grande e affatto priva di mura, pensò che non sarebbe stato in nessun modo in grado di difenderla.
Osservò per altro che il mare a nord della città, lungo una stretta lingua di terra, formava da ambo le parti una insenatura, proprio dove è il porto dei Tarantini e che lo spazio intermedio costituiva, ovviamente, un istmo, di non meno di 20 stadi.
Allora ebbe questa idea: isolò dal resto della città la parte dell’istmo, la cinse di mura dall’una e dall’altra parte del mare e fece scavare attorno al muro una fossa profonda.
Vi concentrò non soltanto i Tarantini, ma anche tutti gli abitanti dei paesi vicini e lasciò loro un corpo di guardia rilevante.
Tutti i Calabresi, messisi ormai al sicuro, miravano a ribellarsi ai Goti.
Così andavano le cose.
Totila, d’altra parte, occupò una salda fortezza in Lucania presso il confine calabro, che i Romani chiamano Acerenza; vi collocò una guarnigione di non meno di 400 uomini, e lui, col resto delle truppe si diresse verso Ravenna, dopo aver lasciato nei paesi della Campania alcuni barbari, col compito di fare la guardia ai Romani, dato che i membri del senato stavano appunto lì.” (51)
“Mentre avvenivano queste cose, Giovanni assediava la fortezza di Acerenza, ma non veniva a capo di nulla.
Gli venne allora un’idea temeraria, che ebbe l’effetto di salvare il senato romano e di fregiare lui di una gloria eccelsa di fronte agli uomini tutti.
Appena ebbe udito che Totila e l’esercito goto tentavano di prendere d’assalto le mura di Roma, scelse i cavalieri più cospicui, e senza dir niente a nessuno, si diresse verso la Campania (dove Totila aveva lasciato i senatori) e non interruppe la marcia né notte né giorno: voleva piombare all’improvviso, rapire e mettere in salvo i membri del senato, considerando che i paesi di quella zona erano totalmente privi di mura.
Accadde che proprio allora Totila concepisse il timore che qualcuno dei nemici tentasse un colpo di mano sui prigionieri (come poi avvenne): perciò inviò in Campania un contingente di cavalleggeri.
Questi, arrivati a Minturno, credettero opportuno che il grosso restasse in riposo in quella città prendendosi cura dei cavalli (il viaggio aveva messo loro addosso una grande stanchezza) e che alcuni fossero inviati ad ispezionare la situazione di Capua e dei paesi circonvicini.
La distanza fra i due posti non supera i trecento stadi.
Mandarono dunque in perlustrazione 400 uomini, che avevano integri i cavalli e le forze.
Il caso volle che proprio in quel giorno, quasi contemporaneamente giungessero a Capua i soldati di Giovanni e quei 400 barbari, senza che né gli uni né gli altri avessero avuto notizia della presenza avversaria.
Divampò all’improvviso una battaglia violenta: appena si videro, vennero alle mani; vinsero nettamente i Romani e uccisero subito la maggior parte di nemici.
Solo pochi dei barbari riuscirono a fuggire, giungendo di gran carriera a Minturno.
Gli altri, quando li videro, parte grondanti di sangue, parte con i dardi ancora nelle carni, altri ancora incapaci di aprire bocca e di raccontare l’accaduto e tutti ancora contratti e col terrore dipinto sul viso, balzarono immediatamente a cavallo e si diedero alla fuga insieme con loro.
Arrivati da Totila, riferirono che la quantità dei nemici era innumerevole, ovviamente per coprire la vergogna di quella fuga.
Non meno di 70 soldati romani, tra quelli che, in precedenza, disertando erano passati ai Goti, andavano girando per i paesi della Campania: decisero di mettersi con Giovanni.
Di senatori, Giovanni ne trovò pochi; le donne invece, quasi tutte.
Ancora ostacoli
Infatti, durante la presa di Roma molti degli uomini, seguendo i soldati in fuga, erano giunti a Porto, ma le donne erano state tutte prese.
Clementino, un patrizio, si rifugiò in una delle chiese della zona e non accettò di seguire l’esercito romano, perché in precedenza aveva consegnato a Totila e ai Goti una fortezza nei pressi di Napoli e allora temeva, naturalmente, l’ira dell’imperatore.
Oreste, ex console romano, si trovava nelle vicinanze, ma per mancanza di cavalli fu costretto a restar lì, assai a malincuore.
I membri del senato, coi 70 soldati che erano passati dalla sua parte, Giovanni li spedì subito in Sicilia.” (52)
“La situazione delle armate d’Italia era questa.
L’imperatore Giustiniano decise di mandare un altro esercito contro Totila e i Goti, dietro le pressioni epistolari di Belisario, che lo indusse a quel suo provvedimento con le sue ripetute segnalazioni della situazione romana.
Da prima, dunque, mandò Pacurio, figlio di Peranio, e Sergio, nipote di Salomone con pochi uomini.
Questi, giunti in Italia, si congiunsero subito col resto delle truppe.
Quindi inviò Vero con trecento Eruli, e Varaze, un Armeno con 800 uomini; fece poi partire Valeriano, generale degli Armeni, da quella regione ordinandogli di andare in Italia col suo seguito di corazzieri e scudieri, che erano più di mille.
Vero approdò per primo ad Otranto e vi lasciò le navi, non avendo nessuna intenzione di restare nel luogo in cui si trovava il campo di Giovanni, e andò avanti coi suoi cavalieri.
Era un uomo privo d’ogni educazione, dedito presso che totalmente al vizio del bere, da cui gli veniva continuamente una sconsiderata temerità.
Quando arrivarono presso la città di Brindisi, si accamparono e rimasero lì.” (53)
“Belisario si premurava di andare direttamente a Taranto.
Lì il litorale è lunato, la costa si ritira e il mare si interna profondamente come in un golfo.
Chi incrocia lungo quel litorale percorre circa 1000 stadi, e da una parte e dall’altra, presso l’uscita in mare aperto, c’è una città: a occidente, Crotone; a oriente, Taranto.
Circa a metà della costa si trova la città di Turi.
Belisario incontrò l’inclemenza della tempesta e la furia del vento, accompagnata dal mare grosso, che non consentiva alle navi di procedere; sicché approdò nel porto di Crotone.
Non vi trovò nessuna posizione fortificata, e non sapeva come far giungere i rifornimenti ai soldati.
Pertanto lui, con la moglie e le fanterie, rimase sul posto, per essere in grado di chiamare le truppe di Giovanni e di organizzarle.
Ordinò invece a tutta la cavalleria di procedere e di accamparsi presso gli accessi della regione, al comando di Faza l’Iberico e di Barbatione, il corazziere.
Pensava che in tal modo quelli si sarebbero procurati facilmente i viveri per se e per i cavalli e sarebbero stati in condizione di respingere verisimilmente i nemici, combattendo in una strettoia.
Infatti i monti della Lucania, estendendosi fino al Bruzio e convergendo fin quasi a toccarsi, formano due soli accessi strettissimi in quel punto: uno si chiama, in latino, Pietra del Sangue (Petra Sanguinis); l’altro gli indigeni lo chiamano Lavula.
Lì, sulla costa, c’è Rossano, il porto di Turi, al di sopra del quale, a circa 60 stadi, gli antichi Romani costruirono una fortezza saldissima: Giovanni l’aveva occupata molto tempo prima e v’aveva posto un presidio cospicuo.” (54)
“Totila dunque, compiuto quanto ho narrato, seppe che i Romani che stavano nella fortezza dei Rossano erano a corto di viveri e pensò di poterli catturare al più presto, ove non fossero stati più in grado di introdurre rifornimenti; sicché si accampò il più vicino possibile e si installò lì, disponendosi all’assedio.” (55)
“L’imperatore Giustiniano mandò in Sicilia per mare non meno di 2000 fanti, e ordinò a Valeriano di raggiungere Belisario senza alcun indugio.
Quello passò il mare e approdò a Otranto, dove appuntò trovò Belisario e sua moglie.
Circa in quel tempo Antonina, moglie di Belisario, si recò a Bisanzio a pregare l’imperatrice perché fossero fornite maggiori risorse per la condotta della guerra.
Ma l’imperatrice Teodora, per una malattia era scomparsa, dopo aver regnato 21 anni e tre mesi.
Frattanto gli assediati della fortezza di Rossano, oppressi dalla penuria dei viveri, vennero a patti coi nemici e si impegnarono a consegnare la fortezza a metà dell’estate, se nel frattempo non fosse arrivato qualche aiuto, ottenendo in cambio l’incolumità per tutti.
In quella fortezza c’erano molti Italiani di rilievo, fra i quali Deoferonte, fratello di Tulliano; dell’esercito romano c’erano trecento cavalieri illirici, che Giovanni aveva collocati in quel luogo, sotto il comando del corazziere Chalazar, un Massageta, ottimo guerriero, e del trace Gudila, nonché 100 fanti, inviati da Belisario a guardia della fortezza.
Allora accadde che i soldati disposti da Belisario a guardia di Roma uccidessero il loro comandante Conone, dietro l’imputazione di far commercio di grano e d’altre vettovaglie a loro danno.
Mandarono poi una legazione di sacerdoti, con la dichiarazione che, se l’imperatore non avesse concesso loro l’amnistia di quel delitto e non avesse pagato entro un certo tempo gli stipendi loro dovuti dall’erario, sarebbero passati senza indugio dalla parte di Totila e dei Goti.
L’imperatore diede corso alla loro richiesta.
Belisario fece venire Giovanni a Otranto, e con lui, con Valeriano e con altri capi, mise insieme una grossa flotta, dirigendosi subito su Rossano, sollecito come era di portare aiuto agli assediati.
Quelli della fortezza, vedendo dall’alto la flotta, si riempirono di speranza e decisero di non arrendersi più al nemico, benché il giorno convenuto fosse alle porte.
Ma in un primo momento scoppiò una tempesta eccezionale e, anche in considerazione del fatto che quella costa è del tutto importuosa, accadde che tutte le navi si disperdessero, allontanandosi molto l’una dall’altra, con grave perdita di tempo.
Poi però si radunarono nel porto di Crotone e salparono di nuovo per Rossano.
Senonché, quando i barbari li videro, balzarono a cavallo e occuparono la spiaggia, con l’intento di impedire lo sbarco.
Totila dispose i suoi per un largo tratto della costa, fronte alle prore nemiche, alcuni armati di lance, altri con gli archi già tesi.
A quella vista i Romani si spaventarono e non ebbero più il coraggio di avvicinarsi troppo, ma per un certo tempo, fermate le navi a grande distanza, se ne stettero cheti, finché, disperando di potere sbarcare, presero a retrocedere di poppa e, ripreso il mare, approdarono ancora una volta al porto di Crotone.” (56)
“Belisario tornava ingloriosamente a Bisanzio.
Per 5 anni non era mai sbarcato, non aveva mai messo piede sul suolo d’Italia, né era riuscito a fare una qualsiasi marcia in quel paese: per tutto quel tempo non c’era stato per lui che un continuo fuggire di nascosto, un navigare ininterrotto da una piazzaforte litoranea a un’altra piazzaforte lungo la costa.
Perciò i nemici avevano potuto rendere impunemente schiava Roma e, praticamente, ogni cosa.” (57)
“Quanto a Vigilio, il papa di Roma, insieme con gli Italiani che allora si trovavano in città (Bisanzio), ed erano molti e di spiccato rilievo, non dava tregua e non faceva che chiedere all’imperatore di provvedere all’Italia con tutte le forze.
Sul sovrano premeva più di tutti Gotigo, un patrizio che molto prima era salito al seggio consolare: anche lui si era recato poco prima a Bisanzio per lo stesso motivo.
L’imperatore promise che all’Italia ci avrebbe pensato lui, ma intanto occupava gran tempo a studiare le dottrine cristiane, cercando con grande impegno di conciliare le controversie.”(58)
“Quindi Totila condusse l’intero esercito a Roma e vi si installò, disponendosi all’assedio.
Belisario aveva scelto 3000 uomini in base al valore, collocandoli alla difesa di Roma al comando di Diogene, uno dei suoi corazzieri, di straordinaria intelligenza e ottimo guerriero.
Perciò l’assedio si protraeva assai a lungo.
Gli assediati, per le risorse del loro valore, apparivano all’altezza di fronteggiare l’intero esercito goto, e Diogene svolgeva una vigilanza rigorosissima perché nessuno andasse contro le mura a far danno; inoltre aveva seminato dappertutto grano all’interno della cinta, col risultato di non far mancare i viveri indispensabili.
Più volte i barbari tentarono assalti per forzare le mura e furono respinti dai Romani, che li ricacciavano valorosamente.
Però si impadronirono di Porto e assediavano Roma con grande vigore.
Così andavano queste cose.
L’imperatore Giustiniano, quando vide Belisario tornare a Bisanzio, pensò a inviare un altro comandante con un contingente di truppe contro Totila e i Goti.
Se avesse mandato a compimento questo disegno, credo che avrebbe avuto ragione degli avversari, visto che Roma era ancora nelle sue mani, e i soldati che erano lì erano salvi e in grado di congiungersi con gli aiuti che giungessero da Bisanzio.
Invece, da prima scelse Liberio, uno dei patrizi romani, e gli diede ordine di tenersi pronto; poi, forse per il sopravvenire di altre preoccupazioni non mostrò più nessuno zelo per la faccenda.” (59)
“Poco tempo prima Totila aveva mandato una legazione al re dei Franchi, chiedendogli la mano della figlia.
Ma quello respinse la richiesta, asserendo che Totila non era e non sarebbe stato mai re d’Italia, dato che, presa Roma, non era stato capace di tenerla, anzi, ne aveva abbattuta una parte, per abbandonare di nuovo la città nelle mani dei nemici.
Pertanto Totila si premurò per il momento di far entrare in Roma i rifornimenti e fece riedificare al più presto quanto proprio lui aveva demolito e incendiato la prima volta che aveva preso la città; dei Romani, richiamò i membri del senato e tutti gli altri che teneva sotto custodia in Campania.
Assisté poi alla gara ippica e cominciò a preparare l’intero esercito per una spedizione in Sicilia.
Contemporaneamente teneva pronte le sue 400 navi da guerra per una battaglia navale, nonché una flotta di molte e grandi navi, che l’imperatore aveva inviate dall’Oriente e che lui in quel periodo aveva catturato con tutti gli equipaggi e i carichi.
Mandò il romano Stefano come legato all’imperatore con la richiesta di porre fine a quella guerra e di stipulare un trattato con i Goti: questi si impegnavano a combattere come suoi alleati in eventuali spedizioni contro altri nemici.
Ma l’imperatore Giustiniano non ammise l’ambasciatore alla sua presenza e non diede il minimo peso a quanto diceva.
Totila, udito ciò, ricominciava i preparativi di guerra.
Gli parve opportuno tentare la presa di Centocelle prima di puntare sulla Sicilia.” (60)
“Arrivati (i Goti) a Reggio, non passarono lo stretto prima di aver tentato di forzare il castello di quella città.
A capo della guarnigione c’erano Turimuth e Imerio, che vi erano stati posti da Belisario.
Essi avevano con se molti e valorosi soldati, sicché respinsero gli assalti nemici e, in occasione di varie sortite, ebbero la meglio.
Ma poi, venutisi a trovare in condizione di grave inferiorità numerica rispetto agli avversari, si rinchiusero nella cinta muraria e restarono cheti.
Totila lasciò sul posto una parte dell’esercito goto a fare la guardia, aspettandosi di catturare in seguito i Romani che vi si trovavano per mancanza di viveri.
Inviò un contingente a Taranto e riuscì a conquistare quella fortezza senza fatica.” (61)
“Dopo questi fatti, i Goti diedero l’assalto alla piazzaforte di Reggio, ma gli assediati si difesero vigorosissimamente e li rintuzzarono; nel combatterli, Turimuth compì continue gesta di valore.
Totila però venne a conoscenza della penuria di viveri che affliggeva gli assediati, sicché lasciò sul posto una parte delle truppe, a vigilare perché i nemici non importassero più niente in città e, allo stremo di ogni risorsa, si arrendessero ai Goti con la fortezza: lui, col resto delle truppe, passò in Sicilia e si dispose ad assalire le mura di Messina.
Il nemico non si arrende
Dommentiolo, nipote di Buze, che comandava i Romani del luogo, gli andò incontro dinanzi alla cinta muraria, attaccò battaglia e non ebbe certo la peggio.
Poi se ne tornò in città, e si preoccupò di custodire la posizione restando cheto.
Intanto i Goti, visto che nessuno li andava ad affrontare, saccheggiarono la Sicilia presso che interamente.
I Romani assediati a Reggio, che, come ho detto, erano agli ordini di Turimuth e di Imerio, visto che i viveri erano ormai venuti meno del tutto, si arresero a discrezione al nemico insieme con la fortezza.” (62)
“Mentre Giovanni a Salona aspettava Narsete, e Narsete, ostacolato dall’assalto degli Unni, procedeva a rilento, Totila, nell’attesa dell’esercito di Narsete, prendeva i seguenti provvedimenti.
Un certo numero di Romani, con un gruppo di senatori, li piazzava a Roma, lasciando gli altri in Campania.
L’ordine era di prendersi cura della città come meglio potevano: mostrava così di essere pentito di quanto aveva fatto in precedenza a Roma: ne aveva infatti bruciato gran parte, specialmente a Trastevere.
Senonché quelli, ridotti alla stregua di prigionieri di guerra e depredati di ogni avere, non erano in grado di interessarsi, nonché delle faccende pubbliche, neppure di quanto li riguardava personalmente.
E si che i Romani amano la loro città più di tutti i popoli che si conoscano, e si preoccupano assai di proteggere e di serbare ogni cosa avita, perché nulla si cancelli dell’antico splendore.
Benché imbarbariti per tanto tempo, hanno salvato gli edifici della città e la maggior parte delle sue bellezze, nella misura in cui era possibile che resistessero al tempo (così lungo) e all’incuria, o grazie alla bontà dei manufatti.
Inoltre, tutte le memorie della stirpe ancora superstiti, fra cui la nave di Enea, fondatore della città, ci sono a tutt’oggi, spettacolo affatto incredibile.
Hanno fatto una specie di rimessa per quella nave in mezzo alla città, lungo la riva del Tevere, ce l’hanno messa dentro, e la custodiscono da allora.” (63)
“In Italia accadde quanto segue.
Gli abitanti di Crotone e i soldati che erano lì di presidio al comando di Palladio, stretti da un durissimo assedio da parte dei Goti e oppressi della penuria dei viveri, mandarono più volte in Sicilia, di nascosto dai nemici, a protestare presso i comandanti di quelle forze romane, e soprattutto Artabane : dicevano che, se non fossero venuti al più presto in loro aiuto,nel giro di poco tempo avrebbero consegnato, loro malgrado, se stessi e la città al nemico,arrendendosi.Ma di lì nessuno si mosse in loro soccorso. L’inverno finiva,e si compiva il diciassettesimo anno di questa guerra,di cui Procopio ha scritto la storia.” (64)
“L’imperatore ,saputi i fatti di Crotone,mandò in Grecia a ordinare alla guarnigione delle Termopili di navigare in fretta alla volta dell’Italia e di portare aiuto con ogni mezzo agli assediati di Crotone. Quelli salparono in gran fretta e,trovato il vento favorevole,approdarono inaspettatamente nel porto di Crotone,I barbari,vedendo all’improvviso la flotta,furono presi da grande sgomento,e in una grande confusione tolsero l’assedio.Alcuni di loro fuggirono per mare al porto di Taranto, altri a piedi si ritiravano sul monte Scilleo .Questi avvenimenti avvilirono ancora di più lo spirito dei Goti.In seguito a essi,Ragnari,un goto molto in vista,che comandava il presidio di Taranto e Mora,che era a capo della guarnigione di Acerenza, sotto la pressione dei loro soldati vennero a trattative con Pacurio,figlio di Peranio, capo dei Romani di Otranto,accettando,in cambio dell’assicurazione della salvezza personale da parte dell’imperatore Giustiniano,di consegnarsi, insieme coi loro e con le fortezze che avevano avuto in custodia.Per la ratifica di questo accordo, Pacurio si recò a Bisanzio.” (65)
“I Goti che stavano di presidio a Roma,quando seppero che Narsete e l’esercito romano venivano contro di loro ed erano ormai vicinissimi,si prepararono ad affrontarli nel
modo più energico. Totila aveva dato fuoco a molti edifici della città, la prima volta che l’aveva presa. Da ultimo però, calcolando che, ridotti a pochi, i Goti non sarebbero stati in grado per il futuro di custodire l’intera cinta muraria di Roma, aveva fatto circondare di un breve muro una piccola parte della città presso la tomba di Adriano e, connettendo questa parte col muro preesistente, aveva dato all’insieme l’aspetto di una fortezza. Qui i Goti depositarono le loro cose più preziose e facevano attenta guardia a questa fortezza, trascurando tutta la restante muraglia della città, in abbandono. In quell’occasione, lasciarono pochi uomini a montare la guardia in quel luogo e tutti gli altri si portarono sugli spalti del muro di cinta nell’intento di misurarsi coi nemici che tentassero la scalata. L’intera cinta muraria era così spropositatamente grande, che i Romani non erano in grado di abbracciarla assalendola né i Goti di difenderla. I primi, sparpagliati, facevano approcci dove capitava; gli altri si disponevano a rintuzzarli a seconda delle situazioni. Narsete, tirandosi dietro un buon numero di arcieri, si avventò su una parte della cinta, mentre d’altra parte si accostava Giovanni ,nipote di Vitaliano , insieme con i suoi. Filemuth e gli Eruli minacciavano un altro punto; gli altri seguivano a grande distanza. Del resto, tutti combattevano sotto il muro assai distanziati gli uni dagli altri. I barbari facevano blocco e reggevano agli attacchi. Invece gli altri punti della cinta dove non si verificavano assalti romani erano del tutto sguarniti, perché i Goti si radunavano tutti , come ho detto, dove i nemici per caso attaccassero. In questa situazione, Narsete ebbe una trovata: mandò Dagisteo, con un gran numero di soldati e le insegne di Narsete e di Giovanni e un ampio corredo di scale a dare lo assalto a una certa parte del muro che era completamente sguarnita. Quegli, senza incontrare resistenza, appoggiò tutte le scale al muro e senza fatica riuscì a entrare coi suoi all’interno della cinta e ad aprire liberamente le porte. I Goti se ne accorsero immediatamente, e allora non si diedero più pensiero dell’onore militare e si diedero tutti alla fuga, ciascuno come potè. Alcuni piombarono di un balzo dentro la fortezza , altri andarono di corsa verso Porto.” (66)
“Ecco che Bessa, che prima aveva perduto Roma, aveva poco dopo recuperato ai Romani Petra nella Lazica, e per converso Dagisteo, che aveva abbandonato Petra ai nemici , riprese in breve tempo, per l’imperatore il possesso di Roma. Ma così è accaduto da che mondo è mondo e così accadrà sempre, finché sarà la stessa Fortuna a reggere gli uomini. Narsete allora avanzava contro la fortezza nemica con tutte le sue truppe. I barbari si impaurirono e, fattisi dare le debite garanzie di incolumità, gli consegnarono subito se e la fortezza, nel ventiseesimo anno di regno dell’imperatore Giustiniano. Così Roma per la quinta volta durante il suo regno fu presa. Narsete ne inviò immediatamente le chiavi al sovrano.” (67)
“Così per il senato e il popolo romano questa vittoria fu, per caso, foriera di rovine molto peggiori. Accadde così: i Goti, che erano in fuga e avevano perso ogni speranza di dominare l’Italia, come diversivo della loro marcia, arrestavano senza risparmio tutti i Romani che capitavano loro di fronte e i barbari che erano nell’esercito romano trattavano da nemici tutti quelli in cui si imbattevano all’entrata in città. Ma successe anche questo. Prima, molti dei membri del senato, per volere di Totila se ne stavano nei paesi della Campania. Ora alcuni di essi, come seppero che Roma era in mano alle truppe imperiali , se ne andarono dalla Campania per raggiungerla. Ma ne vennero a conoscenza i Goti che si trovavano nelle piazzeforti di quella regione i quali, facendo una caccia all’uomo per quei paesi, uccisero tutti i patrizi. Fra questi era Massimo, che ho ricordato nei libri precedenti. Altro fatto: Totila, quando muoveva incontro a Narsete, aveva prelevato da ogni città i figli dei Romani più in vista e ne aveva scelto circa trecento, che gli parevano particolarmente ben fatti, dicendo ai genitori che sarebbero vissuti con lui, ma in effetti destinandoli al ruolo di ostaggi. Allora Totila li fece andare al di là del Po. Teia li trovò lì e li uccise tutti. Ragnari, un Goto che comandava la guarnigione di Taranto, aveva ricevuto da Pacurio, per volere sovrano, ogni garanzia e aveva promesso di arrendersi ai Romani, a suggello dell’accordo, come ho raccontato in precedenza, offrendo ai Romani sei Goti in ostaggio. Ma quando sentì che Teia era divenuto re dei Goti, che aveva sollecitato l’alleanza dei Franchi, e che era intenzionato ad affrontare il nemico con tutte le forze, fece macchina indietro e non volle dare più seguito agli accordi. Tutto impegnato nell’intento di riavere indietro gli ostaggi, fece questa pensata: mandò legati a Pacurio chiedendogli l’invio di un piccolo numero di soldati romani, che consentisse a lui e ai suoi di recarsi a Otranto senza fastidi, per passare lì il Golfo Ionio e andarsene poi a Bisanzio. Pacurio era ben lontano dall’immaginare i propositi di quell’uomo e gli mandò 50 uomini dei suoi. Quello, appena li ebbe ricevuti nella fortezza, li imprigionò e fece sapere a Pacurio che se voleva salvare i suoi soldati doveva restituire gli ostaggi goti. Quando Pacurio udì ciò, lasciò pochi uomini di guardia a Otranto e con tutte le altre truppe puntò subito sui nemici. Ragnari uccise i 50 senza indugiare e uscì con le truppe da Taranto incontro ai nemici. Nello scontro che ne seguì, i Goti furono sconfitti. Ragnari perse sul campo moltissimi uomini e coi superstiti si diede alla fuga, ma non riuscì più a rientrare a Taranto , circondata come era da ogni parte dai Romani.
Andò ad Acerenza e lì rimase.” (68)
“Totilaaveva depositato a Ticino, come ho detto in precedenza , una certa quantità di ricchezze, ma la maggior parte l’aveva in una fortezza estremamente salda, che si trova a Cuma, in Campania. Vi aveva posto un corpo di guardia, affidandone il comando a suo fratello e a Erodiano. Narsete, volendo cacciare costoro da Cuma, mandò un certo numero di uomini ad assediare la fortezza, mentre lui restava a sistemare le cose a Roma. Altri li mandò ad assediare Centocelle. Teia si mise in pensiero per la sorte del presidio di Cuma e delle ricchezze, sicché, disperando ormai dell’aiuto dei Franchi, organizzava le sue forze per un attacco massiccio ai nemici. Narsete ne venne a conoscenza e ordinò a Giovanni nipote di Vitaliano e a Filemuth di recarsi con le loro truppe nei paesi della Toscana per prendervi posizione e impedire agli avversari di marciare verso la Campania, in modo che gli assedianti di Cuma riuscissero a prendere la città più agevolmente o con la forza o per resa. Ma Teia, lasciandosi per lo più a destra le strade più brevi e facendo molti e lunghi giri, procedé lungo il litorale del Golfo Ionio e giunse in Campania, eludendo tutti i nemici. Quando Narsete lo seppe, richiamò le truppe di Giovanni e di Filemuth, che custodivano il passaggio per la Toscana, e fece venire anche Valeriano, che aveva appena preso la così detta Petra Pertusa, insieme coi suoi. Raccolse così le sue forze e si diresse verso la Campania con l’intero esercito, già in assetto di guerra.” (69)
“In Campania c’è un monte, il Vesuvio, che ho ricordato nei libri precedenti, per il fatto che emette spesso un boato simile a un mugghio. Quando succede così, erutta anche una gran quantità di cenere bollente. Questo l’ho detto, a quel punto della mia storia. Ora, questa montagna, come l’Etna in Sicilia, ha l’interno naturalmente vuoto dall’estremità inferiore alla vetta, ed è proprio là dentro che il fuoco arde in continuazione. Questo vuoto giunge a tale profondità, che, se uno sta sulla cima e ha il coraggio di sporgersi, non riesce facilmente a vedere la fiamma. Ogni volta che la montagna erutta, come ho detto, la cenere, la vampa stacca anche pietre dalle viscere del Vesuvio e le lancia in aria al di sopra delle vetta, talune piccole, altre assai grandi, e di lì le sparpaglia dove capita. E c’è anche un rivolo di fuoco che parte dalla sommità e si spinge fino alle pendici del monte e anche oltre: tutti fenomeni che si verificano anche sull’Etna. Il rivolo di fuoco forma alti argini di qua e di là, scavandosi il letto con un taglio profondo. Da prima la fiamma che corre su quel rivolo somiglia a un flusso ardente d’acqua; ma appena si spegne, il corso del rivolo si blocca subito e la corrente non procede oltre, mentre il sedimento di quel fuoco è una fanghiglia simile a cenere. Alle falde di questo Vesuvio ci sono sorgenti d’acqua potabile. E ne scaturisce un fiume detto Dracone, che poi passa molto vicino alla città di Nocera. I due eserciti (goto e bizantino) si accamparono da una parte e dall’altra di questo fiume. Il corso del Dracone è un filo, ma il fiume non è accessibile né a cavalieri né a fanti, perché scorre in una strettoia e si scava un letto molto profondo, rendendo le rive come sospese e incombenti da entrambi i lati. Se la ragione di ciò vada cercata nella natura del suolo o in quella dell’acqua non saprei dire. I Goti si impadronirono del ponte sul fiume, accampati come erano nelle immediate vicinanze. Vi collocarono torri di legno e, fra altre macchine, vi costruirono le così dette baliste, per essere in grado di bersagliare dall’alto i nemici che venissero a dar fastidio. Era dunque impossibile un corpo a corpo, perché c’era di mezzo il fiume: entrambi gli eserciti, avvicinandosi il più possibile alle rive del fiume, facevano soprattutto assegnamento sugli archi. Si ebbero anche alcuni duelli, quando un Goto, per esempio, era provocato a passare il ponte.
L’ultima battaglia
I due eserciti passarono così due mesi. Finché i Goti ebbero il dominio del mare in quel punto, poterono reggere , portando i rifornimenti con le navi (erano accampati a breve distanza dal mare). Ma poi i Romani riuscirono a prendere le navi nemiche, grazie al tradimento di un Goto che sovrintendeva a tutta la flotta; inoltre a loro cominciarono ad arrivare innumerevoli navi dalla Sicilia e dal resto dell’Impero. In pari tempo Narsete collocò anche lui sulla riva del fiume torri di legno e riuscì così a mortificare completamente la baldanza degli avversari. I Goti di tutto ciò si impaurirono molto e, pressati dalla penuria di viveri, si rifugiarono su un monte che è lì vicino e che i Romani chiamano in latino Monte del Latte (Mons Lactarius). Là i Romani non potevano certo raggiungerli, per le difficoltà del terreno. Ma i barbari si pentirono subito di essere saliti lassù, perché la scarsità di viveri si faceva ancora maggiore, non avendo essi alcun mezzo per procurarne per se e per i cavalli. Perciò ritennero che farla finita in uno scontro fosse preferibile che morire di fame, e inaspettatamente avanzarono in massa contro i nemici, piombando loro addosso fulmineamente. I Romani si disposero a difesa come consentivano le circostanze, schierandosi senza distinzioni di comandanti, di compagnie o di reparti, e senza differenziarsi in altro modo gli uni dagli altri. Né avrebbero potuto udire ordini durante lo scontro: erano solo pronti a fronteggiare il nemico con tutto il vigore possibile, dovunque si trovassero. I Goti furono i primi ad abbandonare i cavalli e a formare a piedi, fronte al nemico, una profonda falange. I Romani, a quella vista, lasciarono i cavalli anche loro e si schierarono tutti allo stesso modo. Io sto qui per descrivere una battaglia memorabile e il valore di un uomo, non inferiore, credo, a quello degli eroi: il valore di cui Teia fece sfoggio in quell’occasione. I Goti erano spinti all’ardimento dalla disperazione; d’altra parte i Romani, pur vedendoli fuori di se, tennero loro fronte con tutte le forze, arrossendo di cedere di fronte ad avversari inferiori di numero. Gli uni e gli altri, poi, andavano contro i nemici con molta rabbia, gli uni cercando la morte, gli altri l’ eroismo. La battaglia cominciò all’alba. Teia, facilmente riconoscibile, riparandosi con lo scudo e protendendo la lancia, si mise in testa alla falange, con pochi altri. I Romani, vedendolo, pensarono che, se fosse caduto lui, la battaglia sarebbe finita immediatamente; sicchè di lui si concentrarono tutti i prodi (ed erano molti), chi spingendo e chi vibrando la lancia contro di lui. Il quale, coperto dallo scudo, riceveva su quello tutte le lance, e con repentini assalti aggrediva i nemici, uccidendone molti. Ogni volta che vedeva lo scudo pieno di lance conficcate, lo consegnava a uno degli scudieri e ne brandiva un altro. Così combattendo arrivò ad un terzo della giornata: a quel punto, sullo scudo c’erano, conficcate, I2 lance, sicché non ce la faceva neppure più a muoverlo come voleva e a respingere gli assalti. Chiamò allora in fretta uno degli scudieri, senza però lasciare il suo posto e senza muoversi di un dito, né per retrocedere né per attirare i nemici in avanti, senza voltarsi, senza ripararsi le spalle con lo scudo, senza neppure mettersi di fianco: stava lì ritto col suo scudo, che pareva radicato al suolo, uccidendo con la destra, rintuzzando i colpi con la sinistra, e chiamando lo scudiero per nome. Quello era già lì con lo scudo, e lui si liberava in fretta dell’altro, appesantito dalle lance. Fu proprio in quell’attimo (un tempo infinitesimale) che il petto gli restò scoperto, e il caso volle che fosse colpito proprio allora da un giavellotto, per cui immediatamente morì. Alcuni Romani misero la sua testa in cima a un palo e andarono in giro mostrandola a entrambi gli eserciti, ai Romani perché prendessero ancor più coraggio, ai Goti perché, disperati, ponessero fine alla guerra. Ma neppure allora i Goti cessarono di combattere. Lottarono fino a notte, pur sapendo che il loro re era morto. Quando si fece buio, si separarono e gli uni e gli altri bivaccarono in tenuta di guerra. Il giorno dopo si alzarono presto, schierandosi di nuovo allo stesso modo, e combatterono fino a notte. Non cedevano, non fuggivano, non ripiegavano benché da una parte e dall’altra un gran numero di uomini fosse ucciso: lottavano come in preda a una furia selvaggia per l’odio reciproco, i Goti ben consapevoli che quella era per loro l’ultima battaglia, i Romani rifiutando di farsi vincere. Alla fine i barbari mandarono alcuni dei loro notabili a Narsete, dicendo di aver capito che l’avversario con cui combattevano era Dio; si rendevano conto della potenza che si erano trovati di fronte e, arrendendosi all’evidenza dei fatti, erano decisi a dichiararsi vinti e ad abbandonare la lotta, non però per divenire soggetti all’imperatore, bensì per vivere autonomi insieme con altri barbari. Chiedevano che i Romani concedessero loro una ritirata pacifica, senza rifiutare un trattamento ragionevole, e anzi donando loro come viatico quelle ricchezze che ciascuno aveva in precedenza depositato nelle fortezze italiane. Narsete mise in discussione queste proposte. E Giovanni nipote di Vitaliano lo esortava ad accogliere la richiesta. a non spingere oltre la lotta contro uomini morituri, a non fare la prova di un coraggio originato dalla disperazione – atteggiamento psicologico assai rischioso per chi lo segue e per chi lo fronteggia . ‘Basta a chi è saggio vincere – disse; – le brame smodate possono risolversi in fallimenti’. Narsete seguì il consiglio, e si fece un accordo in questi termini: che i barbari superstiti si prendessero le ricchezze personali e se ne andassero subito da tutta l’Italia, per non fare più guerra in nessun modo ai Romani. Nel frattempo mille Goti partirono dal campo per recarsi alla città di Ticino e ai paesi dell’oltre Po. Li guidava tra gli altri, Indulf, di cui ho fatto menzione in precedenza. Tutti gli altri prestarono giuramento a convalida degli accordi. Così i Romani presero Cuma e tutto il resto. Si chiudeva il Diciottesimo anno, e con esso la guerra gotica, di cui Procopio ha scritto la storia”. (70)
“In nessun caso egli (Belisario) volle mai toccare terra (in Italia) se no là dove fosse una fortezza, andando sempre per mare per tutto quel tempo da una all’altra stazione marittima”. (71)
“(Belisario) spogliò indegnamente quasi tutti gli italiani”. (72)
“L’Italia poi almeno tre volte più grande dell’Africa, anche più di quella fu resa deserta per ogni dove”. (73)
L’imperatore Giustiniano fa in modo da “ esigere danaro dagli Italiani, sotto pretesto del loro atteggiamento verso Teodorico e i Goti”. (74)
AGATIA SCOLASTICO (VI)
“Poi la scena sposta all’ovest e si narrano la morte di Teodorico l’Ostrogoto e l’assassinio di sua figlia Amalasunta da parte di Teodato e tutti gli eventi che provocarono lo scoppio della guerra gotica e poi la storia di come Vitige che successe a Teodato come capo dei Goti, dopo un prolungato combattimento, fu catturato da Belisario e portato a Costantinopoli, e di come la Sicilia, Roma e l’Italia scossero il giogo del dominio straniero e furono riportate a loro antico modo di vita. Qualche fonte dà un resoconto della spedizione italiana dell’eunuco Narsete, che fu fatto comandante in capo dall’imperatore, delle sue campagne eseguite brillantemente contro Totila, e di come dopo la morte di Totila, Teia il figlio di Fritigerne successe nel comando dei Goti e come non molto tempo dopo egli fu anche assassinato”. (75)
“Teia, che successe a Totila come capo dei Goti, riunì le sue forze e fece un attacco definitivo contro Narsete e i Romani, ma egli subì una schiacciante sconfitta in una battaglia campale che gli costò la vita e quei Goti che sopravvissero alla battaglia furono costretti a venire a patti con Narsete perché si trovarono esposti al costante attacco dei Romani e si riunirono in un territorio limitato e senza acqua”. (76)
“Comunque (i Goti) credendosi non ancora avversari per i Romani si volsero dalla parte dei Franchi”. (77)