IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Fonti storiografiche Bizantine sull’Italia meridionale peninsulare – Parte 2/3

Arte bizantina

di Gennaro Tedesco

 Ancora guerra

“Egli (Narsete) non lasciò che la vittoria (riportata sui Goti) gli andasse alla testa o indulgesse in volgari vanterie, che è come una diversa persona avrebbe potuto reagire, né si diede, una volta che le sue fatiche erano compiute, a un avita di lussuria e di tranquillità; al contrario egli immediatamente mosse le sue forze con tutta la possibile velocità ed avanzò su  Cuma.   Cuma è una straordinariamente munita città d’Italia e non è facile cosa per un nemico impossessarsene. Situata  su una ripida collina che è difficile da salire, essa sovrasta un panorama del mar Tirreno. La collina sorge sulla spiaggia, così che le onde rigonfiano e urtano violentemente contro la sua  base, mentre la sua cima è circondata da un anello di massicce torri e bastioni. I precedenti re goti Totila e Teia avevano custodito tutti i loro oggetti preziosi e i tesori in questa roccaforte dal momento che la consideravano sicura. Appena Narsete arrivò lì decise  che era imperativo impossessarsi del luogo  il più rapidamente possibile e raggiungere il possesso dei suoi tesori, in modo da privare i Goti di una base sicura per le future operazioni e trarre il massimo vantaggio della sua vittoria. Aligerno il fratello più giovane di Teia, l’ultimo re dei Goti, era dentro le fortificazioni ed aveva radunato intorno a lui un grande esercito per quanto possibile. Le sue intenzioni erano lontane dall’essere pacifiche. Presumibilmente egli aveva prontamente ricevuto un accurato rapporto della morte in battaglia di Teia e di come la fortune dei Goti andarono in rovina, ma anche così egli non cedette, né egli era spaventato dal disastro che era capitato. Fidandosi della sua posizione e della copiosa riserva di provvigioni egli ritenne che la sua fiducia, arroganza e capacità erano in grado di respingere l’attacco.

Nel frattempo Narsete diede la parola d’ordine e subito guidò le sue truppe in avanti. Avanzando con molta fatica sulla collina essi si avvicinarono al forte, e immediatamente cominciarono a lanciare i loro giavellotti a quelli che potevano essere visti mentre presidiavano i bastioni. Gli archi stridevano mentre raffiche su raffiche di frecce erano scaricate, pietre erano lanciate alte nell’aria da fionde e tutte le appropriate macchine d’assedio erano messe in movimento. Aligerno e i suoi uomini, che erano ammassati lungo l’estensione delle mura tra le torri non erano lenti nel replicare con giavellotti, frecce, enormi pietre, cippi, assi e ogni cosa che sembrava servire al loro scopo. Anche essi avevano le loro macchine da guerra, e le usavano in un disperato sforzo per respingere gli attacchi.

I Romani non avevano difficoltà nel riconoscere le frecce provenienti dall’arco di Aligerno. Esse fischiavano attraverso l’aria con tale incredibile velocità, che, se succedeva che colpissero una pietra o qualche altro oggetto duro, esse lo frantumavano a pezzi con la semplice forza della loro traiettoria. Quando Aligerno non intravide altra persona che Palladio, (egli era un uomo molto  stimato da Narsete, uno degli ufficiali di più alto rango del suo seguito e una figura dominante nell’esercito romano) vestì una corazza di ferro e attaccando le mura con grande coraggio gli lanciò una freccia che corse diritta attraverso lo scudo dell’uomo, la corazza e il corpo. Tale era la straordinaria forza che le sue potenti braccia mettevano nel tirare l’arco! Questa sorta di inconcludente schermaglia continuò per parecchi giorni. I Romani ritenevano vergognoso tirare senza  per prima impadronirsi del luogo con la forza ed era chiaro che i Goti non avevano intenzione di arrendersi agli assedianti.
Narsete era grandemente preoccupato ed irritato al pensiero che i Romani dovevano sciupare tantissimo tempo in una insignificante fortezza. Dopo aver ponderato e dibattuto le varie possibilità , egli concluse  che doveva fare un assalto alla fortezza nella maniera seguente. Nell’angolo orientale della collina c’è una caverna che è completamente scavata e totalmente ricoperta in modo da formare un naturale santuario di massicce proporzioni a volte. Si dice che nei tempi antichi la famosa Sibilla italiana vivesse lì e che impossessata da Apollo ed ispirata avrebbe predetto gli eventi futuri a quelli che la consultavano. La storia  afferma anche che Enea, il figlio di Anchise, una volta venne lì e che la Sibilla gli disse tutto sul futuro. Ora Narsete osservò che parte del forte era stata costruita sulla cima di questa caverna, un fatto che egli pensò di dover volgere a suo  proprio vantaggio. Così egli mandò quanti più uomini possibile giù nei cupi recessi della caverna, con arnesi per estrarre e scavare. In questo modo egli gradualmente rompeva e toglieva via quella sezione della volta della caverna sulla quale le mura erano state costruite, rimuovendo perciò una tale quantità di terra che la costruzione restò in sospeso a rivelare  effettivamente la base delle fondamenta. Egli poi aveva posto ritte travi di legno come puntelli a intervalli regolari in modo da reggere il peso della struttura, per paura che una serie di frane avrebbe portato al crollo e questo avrebbe avuto l’effetto di informare rapidamente i Goti di che cosa stava succedendo. Nel qual caso essi avrebbero dovuto venire in soccorso subito come a  guai improvvisi, mettere rimedio a ciò immediatamente, e poi aver preso le più sicure precauzioni per il futuro. Per prevenirli dal sentire il rumore delle pietre che stavano estraendo o meglio dall’avere il minimo sospetto di che cosa era in atto, l’esercito romano lanciò un furioso e sostenuto attacco contro le fortificazioni, gridando al massimo delle loro voci e battendo violentemente le loro armi. Il baccano era eccezionalmente grande e l’assedio disorientava e confondeva. Quando l’intera sezione del muro al di sopra della caverna fu lasciata sospesa a mezza aria con solo i ritti puntelli ad appoggiarsi su, essi ammucchiarono fogliame e roba secca, come esca del sottobosco, che essi misero sotto quella, l’incendiarono e poi uscirono essi stessi dalla via. Non passò molto tempo prima che le fiamme ardessero e i carbonizzati e bruciati puntelli cedessero e si sbriciolassero in cenere. Quella parte del muro che poggiava su di essi bruscamente crollò per mancanza di supporto e cadde fragorosamente mentre le torri e i bastoni caddero tutti in una volta dal resto della struttura e vacillarono in avanti. Il cancello appartenente a quella parte del muro era stato sicuramente fissato, dal momento che i nemici erano intorno, le chiavi erano conservate dalle sentinelle. Esso fu abbattuto mentre ancora si manteneva alle sue prese e si assestava intatto sulla spiaggia rocciosa quando fu avvolto dalle onde, con i suoi puntelli, struttura, architrave e cardini ancora fissati alla soglia. Mentre ciò accadeva, i Romani pensavano che essi ora sarebbero stati in grado di penetrare nel forte senza nessuna altra difficoltà e sbrigarsela col nemico. Ma ancora questa volta le loro speranze si dimostrarono vane. Giacché la terra era piena di incrinature e fessure ed era in disordine con frastagliati e rotti pezzi di roccia dal lato della collina e la costruzione dal lato delle fortificazioni. Come risultato . l’avvicinamento al forte fu così ripido e così impraticabile come sempre . Narsete fece un più vivace assalto al forte nel tentativo di forzare il luogo. Dopo di che, i Goti formarono un solido corpo di uomini e li respinsero con tutte le loro forze. Egli fu battuto e non poté  compiere alcuna altra azione. In vista dell’impossibilità di prendere il luogo d’assalto, Narsete decise di non impegnare tutte le sue forze in questa importuna operazione, ma di proseguire diritto per Firenze, Civitavecchia e certe altre città in Toscana, con l’obbiettivo di restaurare l’ordine nella regione e anticipare il contatto col nemico”. (78)                     

“Egli (Narsete) lasciò anche una considerevole forza a Cuma. Essi dovevano investirla con un regolare assedio, rinchiudendo il nemico e bloccandolo in una eventuale resa. Così essi si disposero intorno circondando il luogo con una linea continua di terrapieni e effettuarono una stretta sorveglianza alle uscite allo scopo di intercettare ogni possibile squadra di  foraggiatori .  Essi calcolarono che dopo un anno di esistenza sotto assedio il nemico deve in qualche occasione correre fuori per rifornirsi”. (79)

Narsete afferma: “Sarebbe perciò vergognoso se, mentre quei Goti che erano sopravvissuti all’olocausto della loro stirpe, lontani dal rassegnarsi al loro fato, sono occupati a formare alleanze e a sollecitare altri guai per noi, noi, ricevendo  la notizia che siamo stati battuti semplicemente perché non abbiamo vinto con una vittoria clamorosa, ci scoraggiassimo così da sciupare la gloria delle nostre passate imprese. Noi piuttosto dobbiamo essere compiaciuti per quello che è successo, dal momento che si è risolto nella notevole punizione dell’arrogante prosperità e ci ha liberati dal peso di una immoderata invidia. D’ora innanzi noi dobbiamo guardare alla prospettiva di combattere con sicurezza nella piena certezza che noi stiamo ora entrando in una nuova fase della conquista. Quanto alla vantata superiorità numerica del nemico, noi proveremo di essere molto migliori in materia di disciplina e organizzazione, avendo dato prova di usare le nostre teste. Inoltre combatteremo contro gli intrusi stranieri che,  naturalmente, saranno a corto di rifornimenti, mentre noi abbiamo un ampio rifornimento. Un numero di città e roccaforti garantiranno la nostra sicurezza se ce ne fosse bisogno, mentre essi non avranno tale garanzia a cui ricorrere. Per di più l’Onnipotente starà al nostro fianco, dal momento che siamo impegnati in una giustissima lotta per difendere ciò che è nostro, mentre essi stanno devastando la terra altrui. C’è ogni ragione per una estrema fiducia nella nostra parte e nessuna possibile scusa per la codardia.” (80)

“All’inizio di primavera essi (i Romani) erano tutti a riunirsi in Roma, dove essi si sarebbero fermati in piena formazione da battaglia”. (81)

“Nel frattempo i Franchi erano in Italia e le fortune dei Goti erano ora nelle loro mani. La sola persona comunque a capire dove i suoi futuri interessi lo avrebbero condotto e ad afferrare in pieno le implicazioni della loro situazione era Aligerno, il figlio di Fritigerne e fratello di Teia, che ho menzionato precedentemente in connessione con l’assedio di Cuma. Una accurata stima della situazione, infatti, lo condusse a capire che i Franchi erano certamente venuti in risposta ad un appello d’aiuto, ma in realtà stavano servendosi di una vuota formula di alleanza allo scopo di mascherare che, nell’eventualità, proverebbero di essere molto differenti le intenzioni. Assumendo che essi siano migliori dei Romani, non avrebbero certamente avuto intenzione di lasciare che i Goti abbiano l’Italia, ma avrebbero effettivamente cominciato a far schiava la medesima gente della cui causa si supponeva che fossero campioni. Essi li avrebbero assoggettati al governo di signori franchi e così li avrebbero privati del loro tradizionale modo di vita. Dopo molto ponderare e soppesare i pro e i contro e in vista del fatto che la tensione dell’assedio stava cominciando a pesare su di lui, e l’ovvio corso delle cose sembrava dover consegnare la città e la sua ricchezza a Narsete, ripudia le sue relazioni barbariche, e assicura il suo futuro divenendo un soggetto dell’Impero. Egli pensò che ciò  fosse l’unica cosa giusta, che, se non era possibile per i Goti possedere l’Italia, i suoi antichi abitanti e capi originari avrebbero dovuto riprenderla e non essere perpetuamente privati della loro terra patria. Per la sua propria parte, poi egli si risolse a perseguire questa politica, dando perciò a tutti i suoi compatrioti un notevole esempio di buon senso. Dopo aver per prima intimato agli assedianti che voleva avere un incontro con il loro generale, e poi avendo ricevuto il permesso di far ciò, egli si diresse a Classis nel distretto di Ravenna, dove, egli aveva imparato, era il forte nel quale Narsete stava. Appena egli si trovò faccia a faccia con Narsete gli consegnò le chiavi di Cuma e gli promise di servirlo con buona grazia in tutte le cose. Narsete si congratulò con lui per l’unione con la parte romana e gli assicurò che i suoi servigi sarebbero stati più che ampiamente ricompensati. Egli poi diede immediatamente ordini a un distaccamento di truppe accampate intorno a Cuma di muovere nella posizione dentro le fortificazioni allo scopo di rilevare la città e i suoi tesori e conservare ogni cosa sicuramente. Il resto delle truppe doveva ritirarsi in altre città e forti così che essi pure dovevano avere qualche luogo nel quale passare l’inverno. Tutte le sue istruzioni furono eseguite”. (82)

“All’inizio della primavera tutti gli eserciti fecero conversione su Roma e si riunirono lì in accordo con le loro istruzioni. Narsete li assoggettò a un più rigoroso addestramento da combattimento e rafforzò il loro spirito di combattimento con esercizi giornalieri. Li fece marciare il doppio, praticare regolari evoluzioni a cavallo, eseguire elaborati e vorticosi movimenti alla maniera di una danza di guerra ed esporre le loro orecchie a frequenti squilli della tromba che suonava il segnale di battaglia per paura che dopo un inverno di inattività essi potessero dimenticare le arti della guerra e perdere i nervi quando si trovassero di fronte a un reale combattimento.

Ancora Barbari

Nel frattempo i barbari marciavano a un passo più lento devastando e distruggendo tutto quello che incontravano sulla loro strada. Girando intorno alla città di Roma e ai suoi dintorni dalla strada più interna possibile, essi avanzarono con il mar Tirreno alla loro destra e le spiagge del mar Ionio che si estendevano alla loro sinistra. Quando essi raggiunsero la ragione chiamata Sannio si divisero in due gruppi, ognuno seguendo un differente itinerario. Butilino avanzò lungo la costa tirrenica con la più grande e la più  forte  parte dell’esercito e devastarono la maggior parte della Campania, attraversarono la Lucaniae poi attaccarono il Bruzio continuando le loro avanzate fino allo stretto che separa la isola di Sicilia e la punta d’Italia. Il compito di devastare l’Apulia e la Calabria toccò a Leutari, che prese le rimanti forze con lui ed arrivò fino ad Otranto, che è situata sulla costa adriatica nel punto dove il mar Ionico inizia. Quelli tra gli invasori che erano Franchi mostrarono misura e rispetto verso le chiese, come c’era da aspettarsi, dal momento che, come ho fatto prontamente notare, essi mantennero punti di vista ortodossi in materia di religione, ed erano più o meno della stessa fede dei Romani. Ma gli Alamanni, le cui credenze erano completamente differenti, saccheggiarono le chiese con un completo abbandono e le rapinarono dei loro preziosi ornamenti. Essi rimossero e si appropriarono per uso profano di un largo numero di fonti, solidi incensieri  d’oro, calici, vaschette e di qualsiasi altro oggetto che erano messi da parte per la rappresentazione dei sacri misteri. Essi andarono anche oltre, facendo a pezzi le porte delle chiese e i reliquari e strappando le basi degli  altari. Le cappelle e i molti spazi che circondavano gli altari puzzavano di sangue e i campi erano inquinati dallo sporco contagio dei cadaveri disseppelliti dappertutto. Ma il castigo fu rapido e terribile. Alcuni furono uccisi in guerra, altri morirono di malattia e non uno  di essi visse per gioire della realizzazione delle loro precedenti speranze ; ciò offre un impressionante esempio di come cattive azioni ed empietà non portino a niente ma solo miseria nel loro esercizio e devono in tutti i tempi essere evitate, soprattutto in tempo di guerra. È insieme un sacro e nobile compito combattere per la difesa del proprio Paese e della propria identità e fare del proprio meglio per respingere  tutti quelli che cercano di distruggere quelle cose. Ma il popolo , che con  non una giusta causa ma meramente per avidità e rancore irrazionale va ad invadere la terra altrui e facendo del male a quelli che non hanno fatto loro nessun torto, può solo essere descritto come malvagio e vizioso. Tali uomini sono tanto indifferenti ai modi civili di comportamento quanto essi lo sono al divino castigo che accompagna i loro misfatti. Meritata punizione ed inevitabile destino li attendono e di qualunque  apparente prosperità essi possano gioire è di breve durata, come è testimone il fato di Leutari e Butilino e dei loro compagni barbari. Dal tempo che essi avevano perpetrato queste azioni e si erano appropriati di una grande quantità di bottino la primavera era già andata e l’estate stava avanzando al suo massimo. Uno dei due capi, Leutari, per essere preciso, voleva a quel punto ritornare a casa e godersela. Di conseguenza egli mandò messaggeri a suo fratello e lo spingeva a metter fine agli azzardi e alle incertezze della guerra, a unirsi a lui nel ritornare il più velocemente possibile. Ma, in parte perché egli aveva dato ai Goti un solenne impegno ad assisterli nella loro lotta contro i Romani e in parte perché essi avevano preso a lusingarlo e a proclamare ad alta voce la loro intenzione di fare di lui il loro re; Butilino si sentì obbligato a rimanere e ad adempiere ai termini dell’accordo. Così egli rimase dove era e parti per fare preparativi per la guerra.

 Leutari partì immediatamente con le sue truppe.  Egli aveva truccato la sua intenzione, che, appena tornasse al sicuro con il bottino, egli avrebbe mandato i suoi uomini come forza di soccorso a suo fratello. Ma, nell’eventualità, egli manovrava in modo da non compiere né i suoi disegni né da rendere a suo fratello alcuna assistenza”. (83)  

Mentre Leutari andava incontro al disastro nella regione di Venezia, “Butilino, l’altro capo, stava affrettandosi al ritorno via Campania e Roma, dopo aver devastato quasi ogni città e forte fino allo stretto di Messina . Egli aveva sentito  che Narsete  e le forze imperiali erano riunite insieme a Roma e perciò non voleva ritardare o lasciarsi deviare più lontano. Dal momento che una considerevole parte del suo esercito era già stata abbattuta e distrutta dalle malattie, egli risolse di unire tutte le sue forze in un ultimo disperato tentativo di supremazia. Quello che era successo era che, quando l’estate era finita e l’autunno stava iniziando e le viti erano cariche del frutto, essi erano stati spinti per mancanza di altre cibarie (Narsete aveva molto intelligentemente requisito ogni cosa nella avanzata) a strappare l’uva e a spremere il succo con le loro mani. Come risultato, riempiendosi con questo improvvisato vino, i loro ventri si gonfiarono e furono affetti da flusso. Alcuni morirono lì e altri sopravvissero. Butilino decise perciò di dare battaglia, qualunque  fosse il risultato, prima che la malattia divenisse una epidemia. Così, raggiungendo la Campania, egli si accampò non lontano da Capua sulle rive del fiume Volturno, che scorre  dagli Appennini, si dipana attraverso le pianure di quella regione e si scarica nel mar Tirreno. Avendo stazionato lì il suo esercito, egli aveva una forte linea di terrapieni  costruiti intorno ad essi, l’efficacia dei quali comunque dipendeva dalla natura del terreno, dal momento che il fiume che scorreva alla sua destra sembrava costituire una naturale barriera contro un attacco. Egli aveva portato un grande numero di carri con lui. Portando via le ruote e adattandole insieme bordo a bordo in una continua linea, egli fissò i gavelli nel terreno e li coprì con terra giusto sui mozzi dei carri, così che solo un mezzo cerchio di ruota sporgeva sul livello della terra in ogni caso. Dopo aver barricato l’intero campo con questi  e  numerosi altri oggetti di legno, egli lasciò una stretta uscita non protetta, per permettere a loro di fare una sortita fuori contro il nemico e ritornare di nuovo quando lo volevano. Il ponte sul fiume costituiva una possibile fonte di guai se lasciato incustodito. Così egli se ne impadronì nell’avanzata e costruì una torre di legno su di esso nella quale aveva disposto tanti quanti poteva dei suoi meglio armati soldati e i suoi combattenti più in gamba così che essi potessero dar battaglia da un punto sicuro di vantaggio e respingere i Romani che avessero deciso di attraversarlo. Avendo disposto ogni particolare come descritto, egli credette che adeguate misure erano state prese e che egli era diventato padrone della situazione. L’iniziativa nel combattimento sarebbe rimasta solo nelle sue mani e la battaglia avrebbe avuto luogo quando, e solo quando, egli lo voleva. Egli non aveva ancora ricevuto alcuna informazione di quello era successo a suo fratello a Venezia, ma era rimasto sorpreso che egli non avesse mandato il suo esercito come d’accordo. Egli suppose comunque che essi non avrebbero tardato tanto tempo a meno che non fosse capitata loro qualche terribile calamità. Ma pure senza la loro assistenza egli pensò che poteva battere il nemico, dal momento che egli era ancora superiore a loro in numero. Le sue rimanenti forze ammontavano a 30,000 combattenti in tutto. Le forze dei Romani raggiungevano scarsamente i 18,000. Butilino stesso era su di morale e spingeva tutti i suoi uomini a considerare che l’imminente lotta sarebbe stata decisiva. ‘Noi ci troviamo di fronte’, egli disse, ‘all’alternativa di divenire i padroni d’Italia, che era il nostro scopo nel venire qui, o di essere annientati sul posto. E’ in nostro potere, miei bravi soldati, fare in modo da combattere coraggiosamente, compiere la realizzazione delle nostre ambizioni. Ci può essere qualche dubbio circa quale alternativa sceglieremmo?’. Egli prese a esortare le truppe in questo modo e riuscì ad elevare il loro morale considerevolmente. Ognuno a suo proprio modo, essi cominciarono ad approntare le loro armi. In un luogo in grande numero stavano per essere affinate armi e in un altro le  lance native o ‘angones’ come esse sono chiamate. Altrove scudi rotti stavano per essere riparati e rimessi in servizio. Tutti i loro preparativi procedevano con tranquillità, dal momento che pure il loro modo di equipaggiamento è semplice e di un tipo che non richiede una varietà di abilità meccaniche per il suo mantenimento, ma può, credo, essere messo in funzione, in caso di danno, dagli stessi uomini che lo portano. Essi sono ignoranti dell’uso di corazze e gambali e la maggior parte di essi combatte con la testa non protetta, tuttavia ci sono alcuni che portano elmetti. Dietro e al petto sono scoperti fino alla cintola, le gambe essendo richiuse in calzoni di lino e di cuoio.” (84)

“Avendo saputo di questi preparativi, Narsete lasciò Roma con il suo intero esercito e si accampò così vicino al nemico che poteva sentire insieme il rumore che essi stavano facendo e vedere chiaramente i contorni delle loro fortificazioni. Con gli eserciti in piena vista di entrambi c’era un grande trambusto di preparativi bellici. Guardie stavano pattugliando in grande numero, sentinelle erano appostate a frequenti intervalli e i generali presero ad ispezionare i loro uomini. C’erano tutte le solite contraddittorie emozioni che assalgono gli uomini alla vigila di una grande battaglia. Gli stati d’animo si alternavano rapidamente in entrambi i lati tra gli estremi della speranza e della paura. Le città d’Italia erano in uno stato di febbrile eccitazione e trepidazione, chiedendosi in quali mani essi sarebbero caduti.” (85)

“Stando sui cavalli, essi , (i Bizantini), sovrastavano i barbari, che erano a piedi, e fu estremamente facile per essi colpire un bersaglio che era a poca distanza.” (86)

Butilino, il loro capo, e il suo intero esercito furono annientati.” (87)

“I Romani, poi, (per ritornare al mio precedente resoconto) dopo aver seppellito i loro morti conformemente ai loro propri riti e costumi , spogliarono il nemico e riunirono una enorme quantità di armi. Essi abbatterono pure le opere difensive del nemico e saccheggiarono il loro campo. Carichi di bottino, essi , coronati con gli allori della vittoria e cantando canti di trionfo , essi guidarono al ritorno in gran pompa il loro generale a Roma.

Tutti i dintorni di Capua fino alle zone periferiche presentavano lo spettacolo di campi percorsi dal sangue e le sponde inondate dalla sovrabbondanza dei cadaveri. Io sostengo , basandomi sull’autorità di una fonte di un nativo di quelle parti , che un anonimo poema in elegiaci fosse iscritto su una colonna di pietra eretta vicino alla riva del fiume e che essa presentava quanto segue:

‘Il Volturno depositò il suo carico di cadaveri qui,

dove le sue correnti attraversano le spiagge tirreniche

– le orde franche che caddero per la lancia d’Ausonia

e seguirono Butilino e la sua causa

Oh felice corrente, oh strage più cara dei trofei,

per lungo tempo arrossata dal loro sangue che l’acqua versa’ .

Se questo poema fosse realmente iscritto in una pietra o se esso fosse semplicemente passato per via orale fino a che mi raggiunse, io non vedo la ragione per non trascriverlo qui. Esso può servire probabilmente come una non inelegante testimonianza per il corso di questa battaglia. Nello stesso tempo, notizie del fato di Leutari e dei suoi uomini in Venezia raggiungevano i Romani. Dopo di che insieme civili  e soldati si abbandonarono ad ancora più frequenti e sostenute riprese di divertimenti e feste, appassionatamente immaginando che essi non si sarebbero trovati di fronte ad alcuna altra opposizione , che avrebbero  passato il resto dei loro giorni in pace.” (88)

“Un distaccamento di Goti, che contavano circa 7000 uomini, che aveva aiutato i Franchi in vari posti , concluse che i Romani non avrebbero diminuito la loro pressione offensiva, ma che avrebbero attaccato anche subito, e si ritirarono immediatamente nella fortezza di Campsa (Conza).

La Terza e ultima parte sarà online domani 13 aprile.


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