di Enrico Conte
“L’importanza di raccontare eventi così cruciali sta nella loro capacità di illuminare aspetti spesso nascosti della nostra società e di offrire un punto di vista unico e informato su fenomeni che hanno influenzato profondamente la vita di molte persone.
Spero che la mia testimonianza, quella di un magistrato come tanti altri in Italia, un uomo al servizio dello Stato e che a quello Stato ha giurato fedeltà sin dal suo primo giorno di nomina, possa non solo informare, ma anche stimolare una riflessione più ampia sulla giustizia, la legalità e il coraggio di chi ha scelto di combattere contro il crimine organizzato”.
L’incontro con Francesco Mandoi si svolge presso l’ex Convento degli Agostiniani, prezioso bene culturale realizzato nel 1649. Collocato all’ ingresso di Lecce, è ora adibito alla biblioteca civica “OgniBene”. Intorno a noi un giardino mediterraneo che affaccia sulle mura urbiche, a pochi metri da qui il Palazzo di Giustizia e una sede universitaria. Attraversata la strada il Liceo scientifico Cosimo De Giorgi, alle sue spalle un nucleo della Guardia di Finanza dedito al crimine economico-finanziario, collocato nel vecchio Convento dei Minimi, un tempo era il carcere giudiziario San Francesco. Un luogo dove fu incarcerato Sigismondo Castromediano, eroe risorgimentale, e nel quale si può ammirare un affresco con il miracolo di San Francesco che impedisce che un grande masso cada sui monaci.
Dott Mandoi, da questo punto di vista si possono vedere edifici ai quali lei è molto legato. Provando a cogliere il senso ultimo del suo lavoro-testimonianza di magistrato antimafia, è sbagliato partire dalla scuola piuttosto che dal Tribunale?
Assolutamente no. Mi sono spesso chiesto e continuo a chiedermi se, col passare del tempo dai momenti più tragici e cruenti dello scontra tra Stato e mafia, la collettività non abbia elaborato una sorta di “rassegnazione” alla convivenza con la mafia e quali ne siano le ragioni.
Così come mi sono chiesto quali siano le motivazioni dell’ancora persistente “fascinazione” che la mafia e le regole del vivere e dell’agire mafioso esercitano nei confronti delle giovani generazioni.
La risposta ad entrambe le domande si trova proprio nella scuola, nella sua scarsa capacità di trasmettere un messaggio che sia in grado di mettere a disposizione delle giovani generazioni gli strumenti culturali idonei a resistere ai messaggi che, in forma talvolta esplicita e talaltra subdola, enfatizzano un modello culturale fondato sulla prevaricazione, sulla prepotenza e sulla trasgressione delle regole visti come mezzi per conseguire l’affermazione sociale, la ricchezza ed il prestigio personale.
Erano queste le molle che crearono i presupposti per la nascita e l’affermazione della Sacra Corona Unita e sono le stesse molle che ne permettono la sopravvivenza nonostante il contrasto giudiziario.
Il Salento “isola felice”, nel quale, con una operazione a tavolino, viene creata in carcere, agli inizi degli anni 80’, l’associazione SCU, Sacra Corona Unita, per impedire il controllo del territorio da parte della Camorra campana, e con agganci importanti con la N’drangheta calabrese. E’ stato questo carattere artificiale, e privo di addentellati storici come per esempio accade in Sicilia, ad agevolarne se non la sconfitta per lo meno la non pervasività su tutto il territorio?
E’ indubitabile il fatto che la “sacra corona unita” è nata in carcere per reazione al tentativo egemonico della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, che intendeva avere il controllo delle attività illecite sul territorio pugliese, e ricevere una parte dei ricavi delle stesse. Questo era, agli inizi degli anni ‘80, l’ambizione della NCO. Ma, come racconto nel libro, la criminalità pugliese era già collegata con quella campana e siciliana per il contrabbando (con la Nuova Famiglia di Michele Zaza) e i suoi esponenti più in vista, come abbiamo appreso dai collaboratori di giustizia, erano già inseriti a pieno titolo nelle più importanti associazioni mafiose. Pertanto, quella nata nelle carceri, è la organizzazione sui territori della realtà preesistente al fine di ottenere un controllo capillare delle attività criminose e dei relativi proventi. “La Puglia ai pugliesi”: questo potrebbe essere l’oggetto sociale della S.C.U.
Non credo, però, che le modalità della nascita dell’organizzazione abbiano costituito una delle ragioni delle tante sconfitte di questa mafia, cui va stretta la denominazione di Sacra Corona Unita, atteso che l’etichetta è stata frequentemente cambiata dagli stessi appartenenti all’organizzazione per le più varie motivazioni. Credo piuttosto che la ragione sia nel fatto che coloro che sono successivamente entrati nell’associazione si sono scontrati con uno Stato che aveva cominciato a contrastarli seriamente, e con regole molto rigide.
La loro iniziale sottovalutazione del rischio di essere puniti per l’aver partecipato all’associazione si è scontrato con la determinazione dello Stato e con il rischio non solo di essere arrestati e condannati, ma anche di subire l’applicazione delle regole dell’art. 41 bis, inimmaginabili al momento della scelta di affiliarsi all’organizzazione. Da qui le collaborazioni che hanno scoperto il tessuto, ormai diffuso su tutto il territorio della Puglia, della mafia pugliese.
Da qui anche il rischio che la valutazione costi-benefici della partecipazione a questa associazione (mai totalmente scomparsa dal territorio) possa portare, per la percezione di maggiore possibilità di impunità dovuta anche alle nuove norme varate dal Governo e per il disinteresse della comunità nella quale prevale il senso di omertà rispetto a quello del dovere di collaborare con la giustizia, alla rinascita di gruppi desiderosi di riprendere il percorso della SCU, anche se con nomi differenti o senza etichette.
In un passaggio del suo racconto, uno dei capi dell’associazione criminale di stampo mafioso, incalzato dagli inquirenti sull’accordo con altri sodali per commettere delitti e controllare attività economiche e appalti e creare un legame volto ad intimidire le comunità locali risponde: “ e I partiti politici, con i loro gruppi interni? Mi vuol dire che l’appartenenza ai partiti e la copertura che questa appartenenza garantisce non induce forse la gente a non denunciare le malefatte dei politici per timore di rappresaglie?”
Era questo tratto che agevolò allora l’iniziale espansione del fenomeno mafioso o una imbarazzante sottovalutazione sia parte della società civile che delle forze dell’ordine e della magistratura?
Entrambe le motivazioni (quella della percezione di una condotta apertamente clientelare e contraria alle regole da parte degli appartenenti allo Stato latu senso inteso, e quella della sottovalutazione dei fenomeni che erano sotto gli occhi di tutti da parte della società civile e degli organi preposti al contrasto) sono alla base della narrazione della legittimità della appartenenza all’associazione in quanto finalizzata all’autodifesa dai soprusi.
Le parole di De Tommasi evidenziano questa narrazione, cui si accompagnava la noncuranza con la quale la società civile e le stesse forze dell’ordine valutavano il fenomeno nascente della mafia pugliese.
Mi torna in mente quanto è accaduto recentemente dopo l’arresto, per appalti truccati, del Sindaco di Ruffano, con la gente che aveva organizzato un flash mob, poi rientrato, a sostegno del primo cittadino. In certi territori siamo ancora in emergenza? Peraltro con due magistrate, Maria Francesca Mariano e Carmen Ruggero, sotto scorta per aver ricevuto minacce di morte.
Siamo in emergenza non solo per una “questione morale” cui siamo ormai tanto abituati da rasentare l’indifferenza, ma soprattutto perché ci sono continui segnali di pericolo, che agli occhi dei cittadini appaiono ignorati o trascurati.
Lo Stato sembra inerte dinanzi agli episodi di danneggiamento che si verificano continuamente ed è difficile far comprendere ai cittadini che l’inerzia è in buona parte dovuta al mutamento delle regole, che determinano, peraltro, anche mancanza di stimoli per le forze di polizia che operano sul territorio.
In un punto del suo racconto, commentando le dichiarazioni del collaboratore Annacondia, emerge un quadro di fatti di particolare gravità circa il coinvolgimento di politici e magistrati, che misero a dura prova la sua determinazione a proseguire, perché destabilizzato da quelle dichiarazioni.
Quei nomi sono rimasti fuori da successive indagini?
No. Non sono rimasti fuori dalle indagini che ci sono state al pari dei processi a carico dei presunti colpevoli.
G. Falcone e P. Borsellino e le stragi del 1992 hanno avuto un peso anche sul territorio del Salento grazie ad una serie di misure approvate, in particolare carcerarie ( 41bis), che ebbero una forte deterrenza….
E’ verissimo. Ho già detto che quelle regole determinarono i pentimenti di tanti associati, proprio perché lo Stato, applicandole rigorosamente, mostrò la propria forza.
La mitigazione nel tempo di quelle regole costituisce il vero rischio per una rinascita della mafia pugliese.
Per sconfiggere le mafie occorre il supporto determinante della magistratura, delle forze dell‘ordine, delle Prefetture ma anche, se non soprattutto, della società civile…
Concordo totalmente, e nel mio libro credo di aver rappresentato, narrando fatti ed episodi reali, che solo una comunità coesa e determinata, salda nella richiesta di legalità e di contrasto alle mafie, può essere il viatico per la loro sconfitta.
Anche se sono convinto che occorra una riflessione su cosa siano (o siano diventate) adesso le mafie, come operano e, soprattutto, quali siano gli strumenti utili a contrastarle nella loro versione 2.0
Il racconto del libro termina con le vicende degli anni ’90. Gli ultimi 25 anni coincidono con la rinascita del Salento diventato un brand, ma il territorio continua ad essere interessato da questa forma di criminalità organizzata, in un quadro, che è anche nazionale, di perdita di giovani che vanno a lavorare all’estero indebolendo con ciò il tessuto sociale…
La rinascita del Salento, a prescindere dalle considerazioni che pure sarebbero opportune sulle modalità di questa rinascita e sulle prospettive future del territorio, ha rinnovato, a mio parere, gli appetiti delle mafie (non solo quella salentina) attratte dal business del turismo.
Se la rinascita è solo turismo senza regole, non dobbiamo meravigliarci se sul territorio restano solo i giovani con minori prospettive, facilmente coinvolti nella fascinazione di organizzazioni o gruppi che offrono guadagni facili ed immediati, potere e rispetto reverenziale ed omertoso da parte dei cittadini.
Dobbiamo fare in modo, per il futuro del Salento, di assicurare un percorso virtuoso, che nel rispetto delle regole consenta loro di sfruttare presto e con profitto i loro talenti, se non vogliamo che, in un non tanto remoto futuro, restino sul territorio solo rapaci sfruttatori delle ricchezze naturali ed una popolazione sempre più anziana, priva della forza per reagire alla perdita della sua identità.
Finita questa conversazione ci dirigiamo verso la Basilica di Santa Croce, attraversando la piazzetta dei Peruzzi. Si incrociano “dimore esclusive”, così si autoqualificano. E’ sera e le strade sono invase da tavolini con tantissimi turisti, impensabili negli anni ‘90. Ci fermiamo e ordiniamo uno spiz. Penso ad alta voce e mi chiedo: se povertà, ignoranza e corruzione sono brodo di coltura per l’insorgenza e la diffusione della criminalità mafiosa, come mai il fenomeno non è fatto oggetto di un Osservatorio permanente da parte della locale università in collaborazione con la magistratura, con la Prefettura e i Sindaci, anche per la formulazione di proposte e di “politiche” che, alimentando gli anticorpi, non lascino che a rispondere sia, prevalentemente, la magistratura e le forze dell’ordine?
Saluto il dott. Mandoi ringraziandolo due volte, per quello che ha fatto mettendo a rischio la sua vita ed esponendo la sua famiglia, e per questo libro testimonianza storica, in un mondo dove sembra avere la prevalenza la chiacchiera e la comunicazione fine a se stessa.