IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Gabriele Spedicato Scultore e umanista

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Di Maurizio Nocera

Gabriele Spedicato

Accadde un giorno di qualche anno fa che il presidente dell’ASSA (Associazione per la Salvaguardia e lo Sviluppo di Acaia), Antonio Carlino, mi disse: «Maurizio, devi conoscere Gabriele Spedicato, di San Cesario di Lecce. È un artista e credo che valga la pena visitarlo».

Più di una volta risposi: «Sì, un giorno di questi, andremo a fargli visita», ma quel giorno sembrava non arrivare mai. La mia non era negligenza, piuttosto l’essere continuamente – la colpa è sempre mia, ovviamente – impegnato ora con questo ora con quello. Tuttavia, poi, come sempre, gli eventi, prima o poi, si verificano. Ricordo perfettamente il giorno. Era autunno, il cielo appena appena annuvolato. In quattro (io e la mia signora, Carlino e la sua) andammo – finalmente – a trovare i coniugi Anna Maria Nuzzo e suo marito Gabriele Spedicato.

Appena entrati nella loro casa, quello che subito m’impressionò furono i dipinti appesi alle pareti. Si vedeva che si trattava di una casa di artisti, che conoscevano la storia dell’arte. Gabriele era stato docente di materie artistiche per alcuni decenni in istituti superiori salentini. Ora era in congedo. Ma, accanto a questa prima impressione visiva, l’altra che si associò al mio sguardo fu proprio lui, l’uomo Gabriele Spedicato. Ebbi subito invidia di questo gigante dallo sguardo mielato e dalla voce di gelato. Invidia della sua ciclopica altezza. Per uno come me alto (per modo di dire alto, sarebbe più corretto dire basso) appena un m. 1.69, trovarsi accanto a una statua greca come Gabriele Spedicato, significava sentirsi un po’ menomato. Per fortuna, lo scultore di metalli aveva tutte le caratteristiche del Titano buono.

Gabriele si affaccendava per farmi capire che cosa aveva fatto nella vita, che cosa era insomma. Nel suo dire usava frasi umili, prive di qualsiasi spocchia a differenza di tanti evidenti appunto spocchiosi. Era un piacere ascoltarlo. Parlava, di tanto in tanto, parlava pure la moglie Anna Maria, come pure, sempre di tanto in tanto, parlavano pure Antonio Carlino e sua moglie Rosetta Verri. L’unica silenziosa – come sempre d’altronde – era mia moglie Ada Donno.

Ecco. Parlavano tutti e, a tratti, anch’io dicevo la mia. Però ascoltavo. Mi piaceva ascoltare. In quei momenti, il senso che più mi era vigile, era lo sguardo. Su dei ripiani di mobili ben lucidati, vedevo delle sculture metalliche, alcune astratte, altre figurative. M’impressionavano soprattutto le sculture di cavalli. Sembravano riferirsi ai famosi cavalli di Aligi Sassu, non tutti però, perché avevano un qualcosa di originale, un qualcosa che non avevo ancora visto da nessun’altra parte.

Interruppi quanto in quel momento si stava dicendo e chiesi: «Ma di chi sono quelle sculture?».

Con la sua voce mielata, Gabriele rispose: «Mie!».

Per un attimo la mia mente si fermò come d’incanto. Poi mi ripresi dicendo: «Per favore, prima di andare via, ti prego di darmi un catalogo di queste opere».

Risposta: «Non ho un catalogo come lo intendi tu».

Ed io: «Ma scusa, con queste sculture metalliche, che sono la fine del mondo, avrai fatto pure qualche mostra».

Risposta: «Non nel senso come l’intendi tu».

Ed io: «Allora Gabriele ci dobbiamo mobilitare per fare quanto prima una tua mostra».

Risposta: «Certo che sarebbe bello».

Il resto della serata lo passammo visionando quante più opere metalliche Gabriele aveva scolpito. Ci congedammo dandoci appuntamento ad un nuovo incontro, che, inevitabilmente, accadde nell’ambito degli incontri ASSA. È inutile dire che cominciammo a vederci assiduamente.

Il libro di poesie di Anna Maria Nuzzo

Poi i nostri incontri divennero più frequenti, sempre sotto gli auspici dell’ASSA. Una sera, nel Giardino delle meraviglie e sotto le mura della città ideale di Acaia, Anna Maria mi sussurrò nell’orecchio: «Ho scritto delle poesie, ma non ho il coraggio di farle vedere a nessuno. Di te mi fido, posso fartene leggere qualcuna?».

Risposta: «Non una, ma tutte, cara poeta».

Fu così che venni a sapere di quei versi. Dopo averli letti, immediatamente dissi ad Anna Maria e a Gabriele che andavano pubblicati prima che invecchiassero troppo. Ci accordammo così per una pubblicazione. Per Anna Maria scrissi un brevissimo testo a mo’ di presentazione – Quando la poesia è un alito di lieve vento – dove dico:

            «La poeta Anna Maria Nuzzo, di cui qui distilliamo alcune liriche, si muove come nube sospesa nel vuoto in un soffice strato di cielo sereno. Il capo rivolto alla luce, il corpo che si spinge lievitando su sospensioni di onde marine. Il suo sguardo si addolcisce quando lo rivolge alle tenerezze dell’infanzia e sospira pensando a quello che sarà il domani./ Nella sua poesia c’è cielo, mare, vento, silenzio, frammenti di care memorie, adesioni, amori. C’è pace e c’è pure l’afflato di una nuova umanità che vuole sopravvivere all’inesorabilità della determinatezza del tempo. Nella sua poesia non ci sono parole di odio, non di disprezzo, non di distinguo, ma affetti che si possono cogliere come frutti maturi da un albero della vita sempre verde./ Ecco, leggo questo nella poesia di questa creaturina silenziosa che usa le proprie mani per sanare le ferite d’un’umanità dolente.

E poi, e soprattutto, la sua adesione agli alti valori che sono alla base di tanti uomini e tante donne, che non si vogliono arrendere alla malvagità di mostri anti natura, legati al solo bieco tornaconto personale e intenti a bistrattare e disprezzare questo nostro pianeta ridotto ormai a uno scolapasta./ È difficile distillare solo alcuni versi da queste liriche elencate nei titoli da una rigida numerazione aritmetica: sono tutti belli, dolci, avvolgenti, suadenti, amabili ninne nanne che ti aiutano a risanare le ferite della mente. Eppure la voglia di citare c’è. Ma poi leggi e rileggi e allora il cuore si quieta. Proprio come scrive lei: “Ho visto un angelo bianco/ immerso nelle nuvole/ cercava disperatamente la luce./ Una bambina giocava/ sulle macerie del mondo./ Appeso ad una ruota di bicicletta/ trovò un rosario”». 

Dopo avere collazionato il libro e fatte le prime bozze, mi accorsi che quel libro mi sembrava alquanto monco. Mancava un qualcosa che lo vivificasse un po’ di più. Chiesi a Gabriele che mi mostrasse alcuni suoi disegni per sceglierne qualcuno a corredo di quei versi. Sulle prime, egli non si mostrò entusiasta dell’idea, poi pian piano si convinse. Scelse alcuni disegni che ritenne più confacenti ai versi di sua moglie. Andammo così alla pubblicazione, che Gabriele curò meticolosamente andando più volte alla tipografia. Il libro era ormai fatto con un titolo di tutto rispetto: Ti ricordi il biancospino? Stupendo. A sfogliarlo oggi, resto sorpreso della bellezza dei versi e mi interrogo come mai non avevo scritto almeno una riga sui disegni di Gabriele. Si tratta di macchie e di immagini geometriche che lo scultore non ha disteso casualmente sul foglio immacolato. Al contrario. Sono immagini scaturite da un pensiero pensante, che sedimentano buona parte della storia dell’arte.

E ancora. Guardando la copertina del libro, dentro la quale si trova una stupenda “macchia acquerellata” di Gabriele, sotto la quale c’è scritto «a cura di Maurizio Nocera», mi accorgo di un’altra vistosa lacuna: quel gioiellino di libro non doveva essere solo «a cura di …» ma «a cura di Maurizio Nocera e Gabriele Spedicato». Ecco. Spero che il mio amico gigante buono, dai luoghi imperscrutabili dov’egli ora risiede, perdoni la mia dimenticanza.

Ma non è tutta qui la storia di Gabriele Spedicato

Un giorno ci trovavamo nella sede dell’ASSA ad Acaia e Gabriele, scultore che conosce le forme dell’arte, si accorse di alcune strane pietre posate per terre. «Che cosa sono?», chiese.

Prontamente Antonio Carlino disse che si trattava di pietre rinvenute su una spiaggia pugliese. Io le conoscevo già, per cui, su richiesta di Spedicato, tutti insieme concordammo di andare nuovamente su quel posto per vederle. Arrivò il giorno di quella meravigliosa spedizione. Io in macchina con Carlino, mentre Gabriele, sua moglie Anna Maria, e suo figlio Mattia con la loro macchina.

Il cielo quel giorno era plumbeo, Gabriele tossiva un po’ più del solito, io zoppicavo, gli altri erano al settimo cielo. Arrivammo su quella spiaggia desolata. Al primo sguardo, Gabriele mostrò stupore e meraviglia. A perdita d’occhio un continuo ammasso di Botroidi si distendeva come un serpente color pietra. Che meraviglia per i nostri occhi abituati alla quotidianità consumistica. Che stupore davanti alla capacità artistica della Natura. Sembrava che Essa volesse dimostrare di sapere scolpire meglio di qualsiasi altra mano umana.

Gabriele, nonostante il fastidioso tossire, non si diede pace. Fece su e giù per la duna pietrosa e caricò il suo Suv di un’enorme quantità di Botroidi. Ecco. Così, prima di incamminarci sulla strada del ritorno, concordammo che per quelle magnifiche pietre occorreva fare una mostra. E sono due: la prima mostra per le opere dello scultore Spedicato; la seconda per le pietre scolpite da Madre Natura. Occorreva però informarsi meglio su che cosa erano questi benedetti Botroidi. Ci impegnammo tutti a fare delle ricerche. Ma che poi veramente lo fece fu il buon Gabriele Spedicato.

Ecco. Così cominciarono ad arrivarmi le sue mail con le notizie che ci occorrevano per saperne di più su quelle benedette pietre.

Gabriele scoprì che il prof. Gian battista Vai, Direttore del Museo Capellini, dell’Università  di  Bologna, descrivendo i Botroidi della sua area geografica, aveva definito:

            «I botroidi sono uno dei tanti tipi di concrezioni. Sono quei corpi più cementati e induriti che si trovano nelle rocce clastiche pelitiche e finemente sabbiose. Si formano per circolazione subacquea e capillare, di acque arricchite in carbonato di calcio o altro sale precipitabile all’interno degli interstizi del sedimento, in corso di compattazione. Quindi avremo botroidi nel Pliocene 5,332 milioni di anni o nel Miocene 23,03 milioni di anni.

L’ambiente di deposizione del sedimento ha poca importanza nella formazione delle concrezioni. Non sono stati trovati botroidi, o altre concrezioni, nelle Sabbie gialle, che in genere sono sabbie molto pulite e prive di matrice fine. Quanto all’età (per quello che riguarda i campioni provenienti  dal pede-appennino – ndr),  sono pliocenici e miocenici. Quindi avremo botroidi nel Pliocene intrappenninico e altri nel Miocene della Formazione del Termina (antecedente alla crisi di salinità del Mediterraneo e alla Formazione Gessoso-Solfifera). Infatti questi sono prodotti della diagenesi precoce del sedimento (in termini geologici). In Umbria e Marche, altri tipi di queste concrezioni sono abbastanza comuni e spesso disposte a livelli./

La parola BOTROIDE  riunisce  tutte  quelle  forme che hanno un  aspetto  simile  ad  un  grappolo, e  sono  caratterizzati  dall’assenza  di una  evidente struttura  interna. I Cogoli (altro tipo di concrezione) invece hanno una struttura spesso  stratificata e una  forma  tipicamente sferica.  Queste ultime concrezioni possono raggiungere considerevoli dimensioni. Per entrambi le numerose conchiglie facenti  parte del  sedimento  marino hanno  fornito il  Carbonato  di  Calcio  che  ha  cementato,  con processi  di  diagenesi (cambiamenti  chimici e  fisici di un sedimento) i  granelli  di  sabbia, inizialmente  incoerenti. Anche  se di origini in parte differenti,  queste concrezioni  si osservano in diverse  parti  del  mondo./

Durante un mio viaggio in Cile, nel  Museo di   Copiapò (importante regione  mineraria), s’incontrano esemplari  di  botroidi  simili  a  quelli  bolognesi. Forme cosi dette botroidali o a grappolo, esistono anche nel deserto  del  Sahara. Tra questi, alcuni esemplari curiosi sono chiamati Bambole del deserto per la forma che ricorda  rotondeggianti pupazzetti, e sono  costituite da un mix di  granelli  si  sabbia  e di  gesso. Sempre in Sahara (Libia) esistono forme  a  grappolo  di  matrice  scura in  cui i  minerali  di  ferro manganese sono  sublimati   all’esterno, per  le estreme  condizioni  climatiche dovute all’escursione termica  (vernice  del  deserto). Campioni botroidali provengono anche dalla Patagonia Argentina, modellatisi  in  depositi  di  origine  vulcanica. Anche l’Alaska presenta forme che ricordano i Botroidi, particolarmente nei pressi  dei  torrenti auriferi».

Ma non è tutto, perché ora, se andate in internet, alla rivista dell’APSEC, «Il Pensiero Mediterraneo», troverete due magnifici interventi di

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GABRIELE SPEDICATO

Il primo è

LAMENTO DI UN SERVO AD UN SACRO CROCIFISSO

(v. «Il Pensiero Mediterraneo», 5 novembre 2020)

            «Un servu tempu fa, di chista piazza/ cussì priava a Cristu, e nci dicìa:/ “Signuri, ’u me’ patruni mi strapazza,/ mi tratta comu’n cani piì la via,/ tutti mi pigghia cu’ la so’ manazza,/ la vita dici chi mancu è la mia./ Si jeu mi lagnu chiu, peju amminazza,/ ch’i ferri mi castija a prigiunia,/ und’io mo’ ti pregu: chista malarazza/ distruggimmila tu, Cristu, pi’ mia,/ distruggimmila tu, Cristu, pi’ mia,/ distruggimmila tu, Cristu, pi’ mia”.

Questo è l’inizio di una canzone conosciuta oggigiorno con diversi titoli: Lamento di un servo al santo Crocifisso, Un servu e un Cristu, Un servo sotto la croce, etc. Ma, senza dubbio, questo brano è famoso ai più sotto il nome di Malarazza, che gli fu dato da Domenico Modugno nel 1976.

Il brano è la supplica che un servo rivolge a un Crocifisso per chiedere a Cristo di liberarlo dal dominio e dai soprusi del suo padrone e in generale di tutta la casta nobiliare – la Malarazza – che al tempo dominava nel sud Italia, e in questo caso in Sicilia.

Bisogna chiarire subito che il testo di questa canzone è un sonetto anonimo in volgare siciliano – con ogni probabilità risalente al XVIII secolo – messo per iscritto per la prima volta dal marchese Lionardo Vigo Calanna (1799-1879), letterato e filologo di Acireale, nella sua Raccolta amplissima di canti popolari siciliani (1857). Obiettivo del Vigo era quello di raccogliere e salvare dall’oblio l’intera tradizione orale di canti siciliani.

Il testo fu dato alle stampe dal Vigo col titolo Lamento di un servo ad un santo Crocifisso e fu immediatamente censurato dalla Chiesa. Essendo un canto di protesta anticlericale e antinobiliare, i versi di risposta al servo dati da Cristo a più di qualcuno non fecero piacere (soprattutto ai regnanti di casa Borbone). Il Cristo infatti incita il servo a ribellarsi, ad usare le braccia – lui che può – e a farsi giustizia da sé; che Gesù stesso, se avesse fatto quanto ora consiglia, non sarebbe in croce.

E Cristu nci rispusi da la cruci:/ “E tu forsi chi hai ciunchi li vrazza?/ Oppuru l’ha ’nchiuvati com’a mia?/ Cu’ voli la giustizia si la fazza,/ non speri c’atru la fazza pi’ tia./ Si tu sì omu e non sì testa pazza,/ menti a profittu ’sta sintenzia mia:/ jeu nun sarìa supr’a ’sta cruciazza,/ s’avissi fattu quantu dicu a tia!”.

E così il Vigo fu costretto a cambiare il testo, facendo dare al Cristo una risposta più mite e vicina al precetto cristiano del “volgi l’altra guancia”, come lo stesso autore afferma in una nota al suo volume.

Ma a Cresia ’sta risposta non nci piacìu, e cusì la cangiàu:/ “E tu chi ti scurdasti, o testa pazza,/ chiddu ch’è scrittu ’nt’a la leggi mia?/ Sempr’in guerra sarà l’umana razza/ si cu’ l’offisi l’offisi castija./ A cu’ l’offendi lu vasa e l’abbrazza/ e in Paradisu sidirai cu’ mia./ M’inchiovaru l’Ebrei ’nt’a ’sta cruciazza,/ e cielu e terra disfari putìa!”

Di questo secondo componimento sembra poi perdersene memoria finché, negli anni ’70, Dario Fo non lo riprende nella sua forma originale – ovvero quella non censurata – e lo inserisce nello spettacolo Ci ragiono e canto del 1973. Il brano, rielaborato da Fo stesso, fu interpretato col titolo Un servo sotto la croce o Lamento del villano a Cristo da Piero Sciotto con il gruppo di artisti La Comune.

Ma sarà Domenico Modugno, nel 1976, a riportare in auge questo testo e renderlo conosciuto ai più grazie al suo arrangiamento. Anche Modugno riprende il testo originale dandogli – insieme a Rodolfo Assuntino e Emma Muzzi Loffredo – una nuova veste musicale aggiungendo un ritornello nel quale viene racchiuso il messaggio dell’intero componimento.

Tu ti lamenti, ma che ti lamenti? Pigghia nu bastoni e tira fora li denti!“.

Per questo motivo Dario Fo denunciò per plagio il cantautore pugliese presso il tribunale di Milano, ma la causa fu persa in quanto il testo in discussione era un componimento popolare anonimo e perciò di pubblico dominio.

Da quel momento questo canto è stato interpretato da diversi artisti di fama nazionale o locale, come Roy Paci, Simone Cristicchi, Rosa Balestrieri, e da vari gruppi di musica popolare. A mio parere, il brano più interessante sia dal punto di vista musicale che testuale, è quello del gruppo musicale calabrese Mattanza. In questa versione il fondatore e leader del gruppo, Mimmo Martino, grazie all’incontro con l’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani, è riuscito a proporre un testo che comprende sia la versione fedele all’originale popolare, che la versione imposta dalla Chiesa» (Gabriele Spedicato).

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Altro testo (con foto)

I BOTROIDI DELLA COSTA SALENTINA

(v. «Il Pensiero Mediterraneo», 8 Giugno 2020)

            «Un anno fa l’amico Antonio Carlino, presidente dell’ASSA di Acaya, mi fece conoscere un luogo della costa salentina caratterizzato dalla presenza preponderante di pietre dalle forme tondeggianti molto particolari, oserei dire antropomorfe. Ve ne erano di diverse dimensioni e dunque di diverso peso: dalle più piccole, leggere e maneggevoli, a veri e propri blocchi, pesanti e impossibili da sollevare.

Da allora ho iniziato a cercare maggiori informazioni sulla natura e sull’origine di queste pietre e ho scoperto che dagli studiosi sono chiamate botroidi. Sono un tipo di rocce sedimentarie, di variabili dimensioni e dalla forma a grappolo (proprio questo è il significato della parola botroide), caratterizzate dall’assenza di una struttura interna.

Secondo il prof. Gian Battista Vai, direttore del Museo Capellini dell’Università di Bologna, queste pietre sono “uno dei tanti tipi di concrezioni e si formano per circolazione subacquea e capillare di acque arricchite in carbonato di calcio o altro sale precipitabile all’interno degli interstizi del sedimento, in corso di compattazione.” Riguardo alla loro età i botroidi studiati sembrano risalire al Pliocene e al Miocene.

Il primo a studiare questo tipo di concrezioni in Italia è stato il naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi. Nei suoi quattro libri Musaeum metallicum, pubblicati nel 1648, sono presenti delle tavole raffiguranti botroidi provenienti dal Rio delle Meraviglie, un piccolo corso d’acqua nei dintorni di Bologna. Dei botroidi facenti parte della sua collezione oggi ne restano ben pochi, visibili al Museo a lui dedicato a Palazzo Poggi (Università di Bologna).

Negli anni Sessanta un noto ricercatore bolognese, Luigi Fantini, trovò strani agglomerati rotondeggianti composti di sabbie cementate lungo il Torrente Zena in Emilia Romagna.

Oggi questi reperti sono conservati a Tazzola in Val di Zena, all’interno di un’antica stalla restaurata con la terra cruda, dove è stato allestito un percorso espositivo. I botroidi, dunque, non si trovano solo da noi in Italia ma in diverse parti del mondo: Cile, Libia, Patagonia, Alaska, etc. Preferisco non rivelare la posizione del sito salentino al fine di salvaguardarlo da una smoderata frequentazione di massa e da eventuali atti vandalici».

Gabriele Spedicato

Alla fine del suo testo, Gabriele aveva aggiunto la relativa Sitografia di riferimento. Stavamo ancora riflettendo sul che fare dei botroidi raccolti sulla desolata spiaggia salentina, quando Gabriele, assieme a sua moglie Anna Maria, si presentarono in casa. Lo scultore di metalli aveva un cartone con dentro un botroide da lui fissato su una base a semi spirale. Stupenda statuetta sul modello delle Veneri paleolitiche. Gabriele conosceva la mia passione per il mondo antico. Disse: «Questo è il mio regalo botroide per te prima di cominciare la chemioterapia per la mia malattia».

«Grazie, caro Gabriele, e che i botroidi ci portino fortuna, soprattutto a te che in questo momento ne hai bisogno. Ti prego di impegnarti per vincere questa brutta malattia».

Tossì un po’, sorridendo un po’ amaro.

«Dai Gabriele, ce la farai. E intanto pensiamo alle due mostre che abbiamo da fare a Lecce: la tua e quella sulle pietre botroidali».

Così iniziò il calvario dello scultore di metalli di San Cesario. Un giorno, sua moglie Anna Maria, ringraziando tutte le amiche e gli amici dell’APSEC che erano rimasti di continuo in contatto con lui fece arrivare uno strano messaggio. Questo:

«Gabriele ha scritto la parola: “S’TPX.’Y”. Penso che non riuscendo a vedere bene, ha tastato sulla tastiera del suo cellulare le sole consonanti che leggete. Gli ho chiesto che cosa volesse dire e mi ha risposto. “Grazie a tutte le amiche e gli amici dell’APSEC che mi sono vicini in questo momento”».

Quando toccò a me leggerle, piansi, avvertendo qualcosa di tremendo. Il giorno dopo, seppi che Gabriele non c’era più su questa terra.

Ecco. Non ho altre parole. Solo ringraziare il Cenacolo degli “Amici di Giuseppe De Dominicis ‘Capitano Blac'” di Cavallino, l’ASSA di Acaia e l’APSEC di Lecce, con la speranza che il gigante buono di San Cesario di Lecce, che ora tutti noi conosciamo essere stato lo scultore dei metalli Gabriele Spedicato, abbia ascoltato queste parole ed abbia avuto pietà di me e di tutti noi.

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Opera in ferro realizzata da Gabriele Spedicato in occasione dell’interscambio culturale con il Comune di Nafplio (Regione Argolide-Grecia)
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