IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Gaza: la tregua dopo la vergogna. Un piccolo passo avanti ma senza dimenticare il passato

Pace a Gaza

Di Gianvito Pipitone (https://gianvitopipitone.substack.com/)

Intanto, è un bene che sia accaduto. La firma dell’accordo fra Israele e Hamas a Sharm el-Sheikh è un fatto. E come tale va riconosciuto.

Un passo. Imperfetto e tardivo ma necessario. Merito a Donald Trump, che da abile puparo ha reso possibile questo strappo, questa tregua. Merito, sì. Non assoluzione. Perché Trump avrebbe potuto pensarci prima. Prima che l’IDF compisse l’indicibile. Prima che Gaza diventasse un cimitero a cielo aperto. Prima che il silenzio della politica mondiale – compreso il suo – lasciasse campo libero alla mattanza.

Ora il tycoon si erge a paladino della pace. E più di qualcuno si oppone, è fin troppo facile notarlo: le bombe in Iran, il Pentagono che cambia nome e diventa Ministero della Guerra, il linguaggio divisivo e carico d’odio, la mobilitazione muscolare dell’esercito federale negli stati riottosi governati da avversari democratici. In California, questa estate. In Illinois, in questi giorni. Insomma, parlare di Nobel a Trump è fuori luogo. Come premiare – con la medaglia d’oro al valore – il becchino, dopo che ha rimosso un cadavere appena investito. A chi verrebbe in mente?

E intendiamoci, ancora una volta: è eccellente che si parli finalmente di processo di pace.  Che ci sia, finalmente, una chance per cessare il martirio del popolo gazawi. Ma non dimentichiamo da dove si parte.

Il processo di pace sarà lungo. Controverso. Fragile. Ma si comincia da lì. E chiunque sano di mente non può che riconoscere che questo passo, per quanto inadeguato, è stato reso possibile da una determinazione.

Ora è il momento della diplomazia, anch’essa in colpevole ritardo. La diplomazia che funziona, quella vera. Quella che negozia ogni punto controverso: il rilascio dei prigionieri politici, quello degli ostaggi, la temporanea occupazione israeliana (che passa dal controllo dell’80% al 53%), il disarmo di Hamas, la sua eventuale uscita di scena.

La prima parte dell’exit strategy è abbozzata. E già qualche problema lo pone. Ma sulla seconda calano le ombre della notte. Chissà. L’impressione, a spanne, anche per mancanza di alternative, è che intanto conviene firmare qualsiasi cosa. Anche se sembra un po’ un salto nel buio. Poi, vedendo, facendo.

Ma nessuno può pensare che si risolverà tutto così. Non senza affrontare il vero nodo. Quello che i 20 punti non contemplano nemmeno per sbaglio: la nascita dello Stato palestinese. Due popoli, due stati.

E infatti, in Israele, i due terribili ministri della destra estrema – Ben Gvir e Smotrich – già annunciano che non appoggeranno il ritiro. Così Netanyahu dovrà cercare voti e sostegno altrove per rimanere a galla. Per finanziare questa pace incerta. Almeno fino alle elezioni del prossimo anno. Perché Israele, e il mondo, non possono permettersi un Israele senza governo. Non adesso.

E dopo aver detto tutto ciò, a bassa voce, cerchiamo di far prevalere il sollievo. Perché la prospettiva della pace, per quanto incerta, è meglio del prolungamento del massacro.

Ma nessuno, nemmeno il più ottimista degli ottimisti, può pensare a un processo senza trappole. Senza nodi da sciogliere.

E insieme ai passi avanti, bisognerà fare anche quelli indietro. Per accertare le vere responsabilità. Per chiamare le cose accadute col loro nome: crimini, massacro, genocidio.

A partire dai signori di questa guerra. Netanyahu e i suoi ministri, ricercati dalla Corte Internazionale dell’Aja.

E l’America? 

Dov’era quando si sparava sui bambini in cerca di cibo? Qual è stato il ruolo della fondazione americana Gaza Humanitarian Foundation (GHF) nella distribuzione degli aiuti? Che responsabilità ha avuto – o non ha avuto – nell’incancrenirsi del massacro?

Ora si dice che i camion degli aiuti sono pronti a entrare a Gaza. Senza ostacoli. Ma in che senso? Significa che i camion c’erano già? E che qualcuno non li ha fatti entrare? Significa ammettere che c’è stata una volontà precisa? Quella di affamare Gaza? Di ridurla alla fame?

Certo, tutti contenti che spiri il vento di pace. Ma qualcuno dovrà andare a fondo. Qualcuno dovrà rispondere. E più di qualcuno dovrà pagare. Così come dovranno rispondere i generali. I soldati spensierati dell’IDF. E chiunque si sia macchiato di crimini efferati.

No non facciamo pari e patta. Non facciamo che, per salvare la faccia, Israele rinunci all’annessione e che, per ripagarla, il mondo chiuda un occhio. Non ci sarà mai pace senza giustizia postuma. E non sarà solo Israele e il suo compare americano a dover rispondere.

Si dovranno ricostruire i tracciati delle armi, seguire le rotte, interrogare le complicità. Si dovrà chiamare in causa la diplomazia europea: quella paralizzata, che ha osservato in silenzio mentre sull’altra sponda del Mediterraneo si consumava un massacro. Germania e Italia non hanno esitato a onorare i contratti di fornitura, mantenendo attivi i canali con l’industria bellica israeliana. L’Italia, in particolare, ha scalato le classifiche: nel 2024 è passata dal settimo al secondo posto tra i partner militari di Tel Aviv. Un’ascesa che interroga, che inchioda, che impone una riflessione sul ruolo dell’Europa nel teatro della guerra.

E allora, al netto di tutto questo: si può davvero, anche solo con l’ingenuità di un pensiero non ancora disilluso, sperare che un giorno possa esistere una Norimberga? Un processo giusto, sobrio ma risoluto, capace di rimettere sui binari della giustizia ciò che è accaduto — e che continua ad accadere — da due anni a questa parte? Ne dubito. Ne dubito profondamente.

Eppure, aspettando che davvero scoppi la pace, visto che qualche bomba è continuata a cadere anche nel giorno della firma, come la mettiamo con tutti questi morti civili? Quale giustizia per chi ha perso un figlio, una madre, un padre?

Con quali principi potrà nascere una pace duratura, se non si metteranno sul piatto anche i sentimenti, la vita, il dolore rappreso del popolo palestinese? Degradato, sterminato, dilaniato dal dolore. Non è dato sapere. Ma è bene avere chiari questi termini, mentre si cerca di costruire qualcosa di serio e duraturo. Altrimenti è come prendersi in giro.

Altro che il Nobel a Trump. Ci si dovrà chiedere piuttosto: in quale lingua dovrà essere scritto il processo di questa pace, se prima – o contestualmente – non ci sarà un minimo di giustizia?


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