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Giustizia: per chi? Una conversazione “non conventionnel”,  con Luigi Dainotti (magistrato) e Antonino Guaiana (avvocato)

Articolo di Enrico Conte

di Enrico Conte

Viale XX settembre, Trieste. Caffè Lettera Viva. I tavolini esterni sono pieni di gente, molti i ragazzi che studiano, parlottano, progettano inconsapevoli il proprio futuro, individuale e collettivo.

Sul video che tiene compagnia agli avventori scorrono le news, Antonio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, chiede un’indagine indipendente sui crimini di guerra commessi da Israele a Gaza, Hamas vuole che il piano di pace preveda il rilascio degli ostaggi in cinque fasi. In Russia, con un bombardamento tramite droni, sono stati distrutti dagli Ucraini aerei per testate nucleari. In America, “modello” delle società occidentali avanzate, viene messo in scena un intreccio tra potere politico (Trump) e potere tecno-economico (Elon Musk). In Italia rimbalzano le notizie sull’ultimo femminicidio di una ragazza di 14 anni: si era rifiutata di abbracciare il suo carnefice di 18 anni.

Seduti con me Luigi Dainotti, nato a Pavia, magistrato, in pensione da pochi mesi, e Antonino Guaiana, avvocato, di origine siciliana ma vissuto per lo più a Trieste.

Vi chiedo di provare a tornare ai vostri sogni di studenti di giurisprudenza: sarà forse questa – l’esistenza di sogni – la più grande differenza con i ragazzi del nostro tempo?

Luigi Dainotti:io credo che tutti i ragazzi del nostro tempo continuino a sognare, come facevamo noi tanti anni fa, e in particolare gli attuali studenti di giurisprudenza, che hanno scelto tale indirizzo di studio non per avere da grandi potere o denaro, mirano ad un mondo dove trionfi veramente la Giustizia, che è qualcosa di più vasto e non sempre coincidente con la Legge. Grandi ingiustizie vi erano, in Italia e nel mondo, anche negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, ma le speranze di cambiare in meglio erano certamente più forti e più fondate. Oggi sono in crisi le varie aggregazioni sociali (partiti, sindacati, parrocchie), e ognuno è più solo e isolato, in una società che ha premiato e premia l’individualismo. Penso sia compito in primo luogo della politica, in tutte le sue varie articolazioni, fare in modo che i ragazzi di oggi possano continuare (o iniziare) a sognare un mondo più giusto, e che i loro sogni non si trasformino inincubi. Purtroppo le guerre, i massacri e le pulizie etniche cuistiamoassistendo, ed il trionfo di semplicistiche ricette autoritarie, non fanno ben sperare. 

Luigi Dainotti Magistrato

Antonino Guaiana: negli Anni Settanta siamo stati testimoni delle grandi Leggi che hanno cambiato l’Italia, dal divorzio al nuovo diritto di famiglia, dall’aborto alla legge Basaglia, dallo Statuto dei Lavoratori ai Decreti Delegati della Scuola. Oggi, quelle conquiste non solo vengono date per scontate, ma anzi vengono messe in discussione dalle nuove abitudini sociali, dai nuovi costumi, dal cambiamento di vita dovuto alla tecnologia. Detto ciò, i ragazzi continuano a sognare, ma spesso con l’ausilio di applicazioni tecnologiche che li immergono in un mondo virtuale senza confini e apparentemente illimitato. Il sogno, incarnato dagli avatar digitali e dalle esperienze virtuali, è “liquido”: da un lato entusiasmante perché illimitato, dall’altro pauroso perché aperto a prospettive fino a oggi sconosciute. La sensazione di onnipotenza può spesso trasformarsi in rabbia e frustrazione nella vita reale, come ad esempio nei rapporti con l’altro sesso.

Quanto incide, pur fuori da un meccanismo di causa ed effetto, il contesto e il clima sociale generale sulle vicende che arrivano nelle aule giudiziarie?

Luigi Dainotti: nelle aule giudiziarie arrivano casi fortemente influenzati dalla situazione e dal contesto sociali. Limitandomi alla mia quarantennale esperienza di magistrato penale, ho verificato che negli ultimi anni l’allargarsi della forbice tra benestanti e poveri, e il sensibile aumento delle disuguaglianze sociali, hanno condotto nelle aule giudiziarie e nelle carceri persone quasi tutte marginali, quali tossicodipendenti, immigrati, soggetti con disagio psichico. Tutto questo è il frutto di politiche che da molti anni offrono e danno al disagio sociale e all’emarginazione risposte meramente repressive, le quali non risolvono minimamente i problemi.

Ne è un drammatico e vergognoso esempio la situazione nelle carceri e nei CPR (i centri dove sono ristretti gli immigrati irregolari in attesa di rimpatrio), con un numero di suicidi, atti di autolesionismo e malattie che dovrebbe far vergognare un Paese civile. E qual è la soluzione proposta dall’attuale Governo? Incriminare e punire col carcere anche la resistenza passiva non violenta, ritenuta penalmente lecita perfino dal codice Rocco. Che vergogna per uno Stato democratico! 

Antonino Guaiana: è molto interessante analizzare le controversie familiari nelle aule della giustizia civile. Ad esempio nei procedimenti di separazione e divorzio i conflitti riguardano la conservazione del tenore di vita e la gestione dei figli. La disgregazione della famiglia viene gestita dai Tribunali con molta fatica: si scopre che le risorse economiche delle persone coinvolte non sono sufficienti a garantire il precedente tenore di vita anche a discapito del mantenimento dei figli. Nelle aule di giustizia emergono talvolta anche comportamenti delittuosi – quali ad esempio i maltrattamenti in famiglia – chesono sintomo di un malessere diffuso. L’incapacitàdi rapportarsi in maniera dialogica all’interno delle coppie riflette un clima sociale inquieto: da un lato assistiamo al fenomeno delle famiglie allargate in grado di ricostruire nuovi equilibri, dall’altro però nuovi fallimenti familiari possono impoverire ulteriormente le persone, non più in grado di gestire la propria esistenza e quella dei figli. Da questo punto di vista è preoccupante il numero sempre più rilevante di procedimenti civili ove si mettono in discussione e si valutano le competenze parentali, che possono portare alla sospensione o addirittura all’ablazione della responsabilità genitoriale.

Di fronte ad un delitto efferato si resta senza parole, forse perché il fatto sfugge a quelle coordinate-chiavi di lettura che ordinariamente consentono di dare un significato alla realtà. Interrogarsi su questo, alimentando la consapevolezza che occorrono nuove chiavi di lettura, piuttosto che produrre nuove incriminazioni penali come fa il DL sicurezza? 

Antonino Guaiana Avvocato

Luigi Dainotti: attraverso nuove figure di reato e aumenti di pena per alcuni reati già esistenti, il decreto legge sicurezza ha l’esplicito obiettivo di punire i marginali, i manifestanti, i detenuti, le donne Rom. Si ricorre, come purtroppo tante altre volte, al diritto penale simbolico, facendo credere ai cittadini che i problemi– alcuni reali- di sicurezza trovino magicamente la soluzione nel rigore della risposta penale. Nulla di più errato. I problemi sociali e di sicurezza spesso sono autentici, e incidono sulla vita delle persone più indifese, ma tali problemi possono essere più efficacemente risolti irrobustendo i presidi di welfare e inclusione, evitando di creare nelle periferie urbane sacche di abbandono e degrado sociale.

Inoltre col decreto sicurezza si scoraggia esplicitamente chi manifesta il dissenso nei confronti delle politiche del potere. La reintroduzione del delitto di blocco stradale, pensata per criminalizzare ingiustamente attivisti di movimenti che si oppongono a grandi opere quali la TAV o il Ponte sullo Stretto di Messina, finisce col colpire anche i lavoratori che manifestano per il rinnovo dei contratti e per ottenere condizioni di vita e lavoro dignitose, come prevede l’art. 3 della Costituzione. Ciò che è avvenuto qualche giorno fa per i metalmeccanici a Bologna. Cosa fa il potere esecutivo? Non si cura delle condizioni di vita dei suddetti lavoratori, ma li porta a processo, così tra l’altro ingolfando le aule di giustizia con processi lunghi e defatiganti, e rallentando la punizione dei veri “criminali”. 

Antonino Guaiana: lUfficio del Massimario della Corte di Cassazione ha pubblicato una relazione decisamente critica sul cosiddetto Decreto Sicurezza, ormai legge, confermando tutte le perplessità che in precedenza erano state evidenziate anche dall’avvocatura. L’ampliamento del ricorso al diritto penale -“panpenalismo” – in contrasto con i principi di proporzionalità e sussidiarietà del controllo penale, svolge una funzione essenzialmente simbolica e comunicativa, senza in realtà garantire strumenti dotati di maggiore efficacia nella tutela della sicurezza individuale e collettiva.

La creazione di nuove fattispecie di reato e la criminalizzazione di condotte che non erano mai state ritenute offensive ormai convalidano l’ipotesi che il Decreto Sicurezza non sia intervenuto per rispondere a una domanda di sicurezza reale proveniente dal basso, ma al contrario sia funzionale  a campagne politico-mediatiche volte ad aumentare in maniera artificiosa la percezione di insicurezza delle persone.

Viviamo tempi particolarmente complessi, un salto d’epoca di portata planetaria, il caos è la cifra del presente, con le democrazie messe in discussione e con due “barbarie”che lo attraversano, quella del “dominio e del disprezzo e   una seconda più insidiosa, nata nel cuore della nostra civiltà, la dominazione del calcolo sul pensiero” (Edgar Morin): come non pensare che tutto ciò possa aiutare a spiegare certi delitti?

Luigi Dainotti: certamente.  Oggi si sta affermando nel mondo occidentale la concezione della “democrazia autoritaria” (vedi USA, Ungheria, in misura per ora più sfumata Italia): chi vince le elezioni può fare ciò che vuole, le Costituzioni sono viste come un impiccio da riformare o disapplicare, i diritti delle minoranze sono compressi. Chi dissente viene considerato un nemico, non già un avversario politico, e come tale va trattato, quindi processato e nei casi estremi pure incarcerato (vedi alcuni recenti arresti negli USA in seguito alle manifestazioni contro il massacro in Palestina o contro le deportazioni degli immigrati illegali ad opera dell’I.C.E., la Polizia federale dell’immigrazione). Alcune norme e la filosofia complessiva del Decreto Legge Sicurezza aumentano questo rischio pure in Italia, dove i diritti di tutte le minoranze sono a rischio.

Antonino Guaiana: in un ambiente iperconnesso ogni utente è potenzialmente un produttore di contenuti, e la verità è diventata una variabile fluida. L’individuo iperconnesso è schiavo ma anche partecipe di una macchina di produzione incessante di stimoli e contenuti che condizionano e trasformano il suo rapporto con la realtà. Si pensi al fenomeno degli hikikomori oppure al consumo di pornografia on line, fondato sullo stereotipo della donna e della reificazione del suo corpo mero oggetto di piacere. I recenti fatti di cronaca relativi ai terribili episodi di femminicidio, spesso annunciati sui profili social degli autori dei crimini, sono espressione di questo corto circuito narcisistico che alimenta disturbi comportamentali e commissione di delitti. Si tratta spesso di una realtà ipnotica e distopica nel territorio confuso della contemporaneità.

Il vaso di Pandora è stato scoperchiato, da esso fuoriesce di tutto, a partire dalla mancanza di senso, ma sono anche assenti “adulti significativi”, come sostiene Matteo Lancini, che possano aiutare a orientarsi?

Antonino Guaiana: nell’attuale crisi delle principali agenzie formative (la famiglia e la scuola) entra in gioco l’osservazione cruciale di Matteo Lancini, sulla funzione degli “adulti significativi”, cioè quelle figure, private e pubbliche, in grado di offrire modelli di riferimento.

Mi piace ricordare un recente contributo di Gustavo Zagrebelsky (“Mai più senza maestri”) ove si distingue la democrazia “acritica” dalla democrazia “critica”. Nella prima i maestri sono gli influencer sostenuti dagli esperti di marketing, mobilitati per perpetuare l’esistente. Zagrebelsky auspica invece l’approdo a una “democrazia critica” ove il maestro è un irregolare che cerca una regola, un critico, un provocatore, alla ricerca di connessioni nuove “per riallacciare i fili dispersi in un modo nuovo”. Personalmente, aderisco all’idea che senza maestri si è condannati al pensiero unico e all’omologazione.

Per far funzionare meglio i Tribunali il PNRR ha fissato obiettivi di riduzione dei tempi processuali e del carico di lavoro: l’Ufficio del processo, con l’assunzione di giovani laureati, sta migliorando l’efficienza del sistema giustizia?

Luigi Dainotti: senza l’Ufficio del processo e l’assunzione di giovani laureati, tutti i Tribunali italiani avrebbero dovuto chiudere. Quindi vi è stato un miglioramento del sistema giustizia e si sono nel complesso ridotti i tempi processuali, ma si tratta di una soluzione tampone, che si limita a spostare in là il problema. Come avveniva in passato con le amnistie e gli indulti per ridurre il sovraffollamento delle carceri: provvedimenti giusti e necessari, ma che non risolvevano il problema alle radici. Oggi occorrerebbe una visione complessiva della Giustizia, mirata a diminuire drasticamente il numero dei processi che ingolfano le nostre aule. Oltre a tempestive assunzioni di personale amministrativo e di magistrati che non lascino scoperti i rispettivi ruoli, nel settore penale va operata una ulteriore depenalizzazione dei reati meno gravi e una riduzione dei tempi processuali mediante un alleggerimento delle procedure nelle impugnazioni. Ma sembra che oggi l’unico fine delle riforme proposte dal Governo sia quello di punire la magistratura, che fortunatamente in Italia è ancora autonoma e indipendente dal potere politico, grazie al presidio delle norme costituzionali che si vogliono cambiare. La riforma dell’ordinamento giudiziario in discussione in Parlamento, che è blindata dalla maggioranza, se approvata non migliorerebbe di una virgola l’efficienza del sistema Giustizia,marischierebbe di compromettere la funzione di garanzia e di controllo della magistratura.    

Antonino Guaiana: non aggiungo niente a quanto già esposto dal dott. Dainotti.

Mani pulite, agli inizi degli anni ’90 e il crollo del sistema dei partiti, ha prodotto un frutto avvelenato: il giustizialismo, che ha illuso che la via giudiziaria potesse soddisfare le istanze collettive al posto di politiche pubbliche….

Luigi Dainotti: l’esperienza di “Mani pulite” ha rappresentato un momento importante di democrazia: una magistratura (inquirente e giudicante) indipendente ed autonoma ha perseguito gravi reati contro la Pubblica Amministrazione commessi da pubblici amministratori e da politici, dando così piena attuazione al principio, scritto in tutte le aule di udienza, che la legge è uguale per tutti. Non si perseguivano più solo i “poveracci”, ma chiunque avesse commesso dei reati. Allora parte della magistratura si è ingenuamente illusa di aver conquistato per sempre il consenso popolare e di poter cambiare in meglio il Paese con i processi penali e le incarcerazioni. Nulla di più sbagliato: il doveroso accertamento dei fatti e la punizione dei colpevoli non possono mai soddisfare da soli le aspettative della società. Occorrono in primo luogo risposte della Politica che sappiano coniugare efficienza, onestà e perseguimento esclusivo dell’interesse collettivo, inteso come tutela dei diritti di tutti, comprese le minoranze. Penso che oggi siamo ancora lontani da siffatto traguardo. Affidare alla sola magistratura le speranze di cambiare in meglio la società attraverso la giurisdizione penale è una mera illusione. E infatti oggi il consenso della società nei confronti della magistratura non è particolarmente alto, anche a causa della callida e interessata diffusione di “fake news” e di calunnie.   

Antonino Guaiana: la deriva giustizialista successiva a Mani pulite tocca un nervo scoperto nella storia politica e sociale italiana. È innegabile che gli eventi degli anni ’90, con il crollo del sistema dei partiti e l’emergere di un vuoto politico, abbiano creato un terreno fertile per l’affermazione di una certa illusione giustizialista. La magistratura è emersa come l’unica istituzione capace di agire, di fare pulizia, di rispondere all’indignazione collettiva. Una sorta di investitura implicita del potere giudiziario come garante morale e, in qualche misura, supplente della politica. Il giustizialismo è stato un’illusione pericolosa che ha spostato l’attenzione dalle riforme necessarie a una ricerca di colpevoli. L’entrata in politica poi di magistrati già protagonisti della stagione di Mani Pulite ha – secondo me ingiustamente – fatto pensare che dietro alle esigenze di giustizia di quegli anni potessero celarsi ambizioni personali di ex-magistrati.

Ritengo che l’esperienza di Mani pulite costituisca una lezione storica per costruire un futuro in cui le istanze collettive siano soddisfatte da una politica robusta e responsabile, piuttosto che da un eccessivo ricorso alla via giudiziaria.

Se l’età di molti autori di illeciti è diminuita, abbassare da 14 a 12 anni l’età della punibilità penale (ipotizzata dall’ on. Giulia Bongiorno) può essere una risposta?

Luigi Dainotti: assolutamente no: sarebbe una risposta non solo inutile, ma dannosa. A 12 anni, così come a 14 e oltre, i ragazzi sono in divenire e attraversano un’età particolarmente fragile. Utilizzare unicamente l’ampliamento della risposta repressiva porterebbe a risultati controproducenti sia per loro, sia per la sicurezza della società. Ai giovani e giovanissimi che delinquono va offerto, e se del caso imposto, un percorso di responsabilizzazione e di riparazione, che può essere intrapreso al di fuori di un processo penale, soprattutto sotto i 14 anni, attraverso le famiglie e i servizi sociali minorili. Del resto il decreto legge 15/9/2023 n. 123 (il c.d. decreto Caivano), propagandato come soluzione alla prevenzione della criminalità minorile, ha posto un ulteriore ostacolo all’imprescindibile percorso di risocializzazione dei giovanissimi autori di reato, rendendo impossibile il ricorso all’istituto della messa alla prova per il piccolo spaccio di stupefacenti. Risultato: un significativo aumento del numero di minorenni detenuti, con conseguenti problemi di sovraffollamento anche nelle carceri minorili, di incremento di rivolte e di atti di autolesionismo. Perseguire una politica unicamente muscolare rischia di consegnare molti giovanissimi autori di reati ad un percorso criminale definitivo, risultato che una società civile non può permettersi.

Antonino Guaiana: abbassare l’età della punibilità penale non sembra essere una risposta efficace e lungimirante all’aumento di illeciti tra giovanissimi. La via più costruttiva non è tanto quella di criminalizzare precocemente, quanto quella di investire in una società che sia in grado di offrire ai propri giovani gli strumenti e il supporto necessari per crescere in modo sano e responsabile.

Dopo molti anni di frequentazione dei Tribunali per i minorenni, mi sento di affermare che i contesti degradati nei quali si matura generalmente la dispersione scolastica, non sono permeabili alla minaccia di sanzioni che i minorenni stessi spesso neanche comprendono. Sono necessari piuttosto interventi sociali ed educativi sul territorio: la giustizia penale minorile in Italia non si basa infatti sulla sola valutazione del fatto di reato, ma innanzitutto sulla valutazione della personalità del minore. Il procedimento penale minorile deve tendere a restituire alla società un minore educato a mezzo di interventi mirati sulla sua personalità e sulla sua condizione sociopsicologica. Per inciso, ricordo che se ilminore di anni 14 non èpenalmente imputabile, può essere comunque soggetto a misure di sicurezza collegate alla pericolosità sociale, che già vengono applicate nei procedimenti minorili.

Educare a gestire le emozioni e non lasciare che l’educazione sessuale dei ragazzi venga, di fatto, delegata a YouPorn, grazie all’accesso senza limiti agli smartphone?

Luigi Dainotti: è fondamentale al riguardo un approccio non ideologico e moralistico, che veda una proficua sinergia tra le famiglie, la scuola e le istituzioni, partendo dal presupposto che l’educazione sessuale comprende anche l’educazione al rispetto della volontà dell’altro/a e alla parità di rapporti. Soltanto in questo modo arriveremo ad una sensibile riduzione dei reati da “codice rosso” ai danni delle donne e delle persone LGBTQ+. Certamente non basterà vietare l’uso degli smartphone a scuola.

Antonino Guaiana: luso e l’abuso degli smartphone è indubbiamente la causa principale dell’accesso di fatto illimitato a contenuti pornografici spesso connotati da una certa violenza sia fisica che psicologica. Il problema è che, anche vietando l’uso degli smartphone a scuola, fuori dall’ambiente scolastico i ragazzi si reimmergono con i loro terminali in social media e siti connotati da pornografia e violenza. L’abuso di social media e videogame presso le giovanissime generazioni ha introdotto nella società cosiddetta evoluta comportamenti che si riflettono negli schemi del vivere collettivo: virtualizzazione dell’eros, frustrazione nel fallimento, rilancio dell’azzardo, minimizzazione della violenza e della morte. Soltanto un’alleanza tra la scuola e le famiglie nel dettare regole condivise per l’uso e la decodificazione delle immagini presenti nella realtà virtuale potrà per lo meno limitare le distorsioni emotive e comportamentali dei ragazzi, molti dei quali si illudono di trarre addirittura un profitto economico dai propri profili social esibendo il loro corpo che diventa un oggetto di mero consumo commerciale. In questo senso le vecchie rivendicazioni del femminismo (“Il corpo è mio e lo gestisco io”) appaiono totalmente travisate da una reificazione del corpo e dell’umano.

Servono specialisti o educatori che usino il “dialogo” e tutti gli strumenti culturali disponibili, a partire dalla letteratura, per affrontare certi temi?

Luigi Dainotti: tutti possono avere un ruolo importante, ma penso che sia fondamentale un approccio, magari guidato, al modello “Peer-to-peer”, dove i partecipanti interagiscono direttamente tra loro, senza il controllo di un’autorità centrale adulta, che suscita comunque diffidenza. Giovani si insegnano a vicenda, scambiandosi conoscenze e competenze. La letteratura può essere un mezzo utile, a patto che non sia una nicchia riservata a pochi fortunati provenienti da ceti benestanti, e non diventi uno strumento di esclusione dei giovani emarginati.  

Antonino Guaiana: Antonio Gramsci affermava che avere cultura significa avere coscienza di sé e del tutto, e quindi essere in relazione con tutti gli altri esseri. Quali strumenti usare per indurre i giovani a costruire questa coscienza di sé in grado di relazionarli in modo sano e costruttivo con gli altri e con il mondo? Una risposta efficace alla solitudine virtuale in cui è immersa questa giovanissima generazione è certamente la lettura, e la Regione FVG, la rete bibliotecaria nazionale e il Ministero della Cultura hanno messo a punto progetti che la incentivano sin dalla più tenera età : “leggiAMO 0-18”( Progetto della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia che ha l’obiettivo di crescere la comunità di lettori con un’azione continuativa e sinergica) , il “Bibliopalio” (un progetto e concorso letterario promosso dalla Biblioteca Pier Antonio Quarantotti Gambini di Trieste), “#io leggo perché”(iniziativa organizzata dall’Associazione Italiana Editori, grazie alla quale sono stati donati alle scuole oltre tre milioni di libri nuovi, che oggi arricchiscono il patrimonio librario delle biblioteche scolastiche di tutta Italia).

Il conflitto politica e magistratura restituisce una tensione permanente “di potere”, ma sembra anche registrare uno scollamento tra la cultura giuridica e quella di parte del ceto politico, che ignora la ricchezza dell’ordinamento, nazionale e internazionale, e l’importanza dei controlli, e dei contrappesi, da parte della magistratura….

Luigi Dainotti: le recenti decisioni della magistratura italiana in materia di convalida dei trattenimenti degli immigrati nei due centri di rimpatrio albanesi, che hanno semplicemente applicato la normativa nazionale e quella europea, così come interpretata dalla Corte di Giustizia, sono state pretestuosamente definite dalla maggioranza di governo come atti politici, e i magistrati sono stati bollati come membri dell’opposizione politica. Nulla di più falso: il Tribunale di Roma, il Tribunale di Bologna e altri Tribunali hanno solo applicato le normative costituzionale e internazionale vigenti, che sanciscono la sovraordinazione del diritto comunitario sulla normativa italiana con esso contrastante.  Qual è stata la risposta? Visto che le decisioni dei Tribunali erano sgradite al Governo, invece di interrogarsi sulla ricchezza dell’ordinamento nazionale ed europeo per arrivare ad una soluzione conforme al Diritto, si è emanato un decreto legge che ha spostato la competenza dai Tribunali alle Corti d’Appello. Peraltro senza ottenere l’effetto sperato, in quanto anche i giudici d’appello hanno applicato la sovraordinata normativa europea, così comeavevano fatto in precedenza i magistrati dei Tribunali. La verità è che ormai,come avevo già detto più sopra, i contrappesi e i controlli di legalità sono oggi visti dalle democrazie autoritarie come lacci fastidiosi, che impediscono l’azione di governo. Io ho vinto le elezioni, e posso quindi decidere ciò che ritengo opportuno, in barba ai principi costituzionali di legalità e di separazione dei poteri. I poteri che svolgono il loro ruolo costituzionale ed mettono decisioni sgradite a chi comanda vengono calunniati come organi politici di opposizione, tentando in tal modo di eliminare la fiducia e la credibilità di cui devono godere in una società democratica. 

Antonino Guaina: mi concentro sulla parte della domanda che riguarda la ricchezza dell’ordinamento giuridico.

Le Risoluzioni Alternative delle Controversie (ADR) sono metodi extragiudiziali per risolvere le controversie civili. Questi metodi includono la mediazione, la negoziazione assistita e l’arbitrato. L’obiettivo è trovare una soluzione alla controversia senza passare per i tribunali, spesso in modo più rapido, meno costoso e meno conflittuale. Tali soluzioni stragiudiziali sono state incoraggiate dalla recente riforma Cartabia del processo civile e costituiscono oggi un’occasione per mettere in pratica le raccomandazioni che grandi giuristi come Paolo Grossi hanno a suo tempo rivolto soprattutto ad avvocati e notai. In fondamentali testi come “L’invenzione del diritto”, troviamo l’invito ai pratici del diritto ad abbandonare le vesti di meri esegeti chiamati a “fare” la volontà del legislatore adattando i fatti alle norme, per assumere invece la veste di inventori del diritto, dal verbo latino invenire, cercare per trovare qualcosa. Il recupero del nostro patrimonio giuridico partendo dal fatto e dalla persona nella sua concretezza fu un’operazione già svolta dai Padri Costituenti che in due anni di formidabile lavoro collegiale crearono la trama della nostra Carta Costituzionale individuando valori e interessi diffusi e condivisi per poi trasformarli nei principi costituzionali contenuti nei 139 articoli della nostra Carta. Da questo punto di vista, si apre una grossa opportunità per i giuristi contemporanei, di risolvere i conflitti giuridici con accordi raggiunti per esempio in mediazione che possono trovare soluzioni creative non previste strettamente dalla Legge, purché non contrarie alle norme imperative e a quelle di ordine pubblico. Sicuramente una diversa considerazione la si deve fare per la materia penale che è in stretta connessione con la sicurezza pubblica e quindi conserva la peculiare rilevanza della riserva di legge.

La separazione delle carriere porterebbe più indipendenza al PM?

Luigi Dainotti: il pubblico ministero nell’attuale ordinamento è del tutto indipendente, ed è errato sostenere che per effetto dell’unicità della carriera non vi sia parità tra accusa e difesa nel processo penale. Oltretutto va rimarcato che il PM è un organo pubblico ed ha l’obbligo di cercare la verità, qualunque essa sia, mentre il difensore ha deontologicamente il dovere di fare tutto il possibile per ottenere ladecisione migliore per il suo assistito, anche se colpevole. Inoltre già oggi, con la disciplina vigente, un magistrato può cambiare funzione una sola volta in carriera, e deve andare in altra Corte d’Appello, per cui attualmente una percentuale minima di PM va a fare il giudice, e viceversa.

Se in astratto una separazione delle carriere non è da demonizzare, nel decennale contesto italiano, di attacchi continui e false accuse di politicizzazione alla magistratura quando le inchieste toccano i detentori del potere, una riforma del genere non potrebbe che preludere ad una sottoposizione del PM al potere esecutivo o alla maggioranza parlamentare. La riforma “Nordio” è poi tanto più grave, in quanto oltre alla separazione delle carriere prevede due CSM (uno per i giudici, uno per i PM), i cui componenti sarebbero eletti parzialmente con sorteggio.  Segno di una sfiducia nei confronti della magistratura tutta, ritenuta inaffidabile e ostaggio delle degenerazioni correntiste. Sarebbe come prevedere una nomina per sorteggio dei componenti del Governo, in seguito ad acclarati, singoli casi di corruzione e mala gestione della cosa pubblica. Soluzioni folli, mortificanti, che vanno in direzioni opposte ad una valorizzazione del merito e del rapporto di fiducia tra elettori ed eletti.

Antonino Guaina: la posizione dell’avvocatura italiana nella sua stragrande maggioranza è fortemente favorevole alla separazione delle carriere dei magistrati, e la considera una riforma fondamentale e attesa da tempo. Tale posizione si basa principalmente su ragioni di garanzia del giusto processo e di terzietà e imparzialità del giudice, principi sanciti dall’articolo 111 della Costituzione. Si rileva in particolare che la separazione delle carriere è, da una parte, coerente con i principi del processo accusatorio (introdotto nel 1989 e fondato sul contraddittorio tra accusa e difesa davanti a un giudice terzo) e, dall’altra, che il Pubblico Ministero è e deve essere una “parte” processuale (pur se imparziale nella ricerca della verità) ma distinta dal giudice.

Personalmente, aderisco alle tesi dell’avvocato Franco Coppi, decano dei penalisti italiani e figura di grande esperienza e prestigio, che ha espresso scetticismo rispetto alla separazione delle carriere. Secondo la sua tesi, la vittoria o la sconfitta di una causa dipende dall’onestà intellettuale delle personecoinvolte (giudici, PM, avvocati) e non dall’appartenenza allo stesso Ordine. Inoltre, i costi e la complessità che comporterebbe la separazione delle carriere si trasformerebbe in “un’enorme spendita di quattrini, di mezzi, una cosa mostruosamente difficile”, senza portare benefici concreti in termini di efficienza o miglioramento della giustizia.

Personalmente ritengo insomma che la questione sia più di sostanza e di onestà intellettuale da parte degli operatori della giustizia che di mera distinzione formale delle carriere dei magistrati.

Trieste-Lecce 29 giugno 2025

Enrico Conte

Redazione di Trieste

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