IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Grammelot e Lingua Italiana nell’affabulazione poetica

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Grammelot

di Maria Gabriella de Judicibus

Il grammelot come espediente teatrale

Grammelot o gramelot è una parola di probabile derivazione francese ( grommeler equivale al nostro borbottare) propagatosi inizialmente dall’area veneta anche e soprattutto per il diffondersi della commedia dell’arte, forma di spettacolo nata in Italia nel XVI secolo e rimasta popolare fino alla metà del XVIII secolo, anni della riforma goldoniana della commedia. Le rappresentazioni dei comici itineranti, non erano basate su copioni definiti, ma su scenari, che offrivano canovacci all’improvvisazione di personaggi connotati da tratti che ne definivano immediatamente il ruolo ed il carattere.

Il grammelot che assembla suoni, onomatopee, parole e foni con il fine di farsi comprendere anche senza articolare frasi di senso compiuto in una lingua straniera, oppure per mettere in parodia parlate o personaggi stranieri, era ed è tutt’ora, pertanto, uno strumento linguistico magistrale ai fini di una recitazione fortemente espressiva e iperbolica. Il linguaggio che ne scaturisce è espressivo perché musicale, in grado di suscitare emozioni e suggestioni.

Ispirarsi al grammelot per l’affabulazione consente di studiare la funzione emozionale del linguaggio che è la porta principale per l’ingresso alla funzione cognitiva vera e propria nella interpretazione d’esso.

Questo artificio recitativo era utilizzato dai giullari e dagli attori itineranti che intrecciavano lingue e dialetti diversi con parole inventate, affidando al linguaggio non verbale dei gesti e della mimica l’enzima necessario a rendere immediatamente accessibile all’uditorio a prescindere dalla lingua parlata da esso, la comunicazione testuale. Il testo teatrale diviene così quello che l’etimologia della parola TEXTUM significa un intreccio di segni verbali e non che acquistano il proprio senso nell’ambito del contesto, in questo caso della scena teatrale rappresentata.

Esempio di grammelot cinematografico sono la canzone cantata da Charlot nel film Tempi moderni e il monologo di Adenoid Hynkel nel film Il grande dittatore entrambi di Charlie Chaplin.

In epoca successiva questo filone è stato recuperato dall’attore Dario Fo, che lo ha valorizzato nuovamente, come ad esempio nell’opera Mistero buffo e da Gigi Proietti e dai suoi eredi che mescolano in grammelot linguistici lingue straniere come l’inglese e il francese e dialetti di sostrato come il veneto o il meridionale.

In poesia, un esempio straordinariamente suggestivo ci viene offerto dalla raccolta Gnosi delle fanfole di Fosco Maraini.

Riscrittura testuale e didattica della lingua

Già, in passato, nel laboratorio di riscrittura testuale che ho più volte utilizzato nella quotidianità del mio insegnamento della lingua italiana, ho avuto modo di sottolineare come la didattica del testo poetico non possa prescindere da suoni e onomatopee che rendono il verso musicale, esaltando la potenza suggestiva del ritmo.

Quando alla ricerca artistica si unisce la ricerca storica, il laboratorio linguistico consente al “senso della memoria” di riaffiorare, arricchendo di fascino culturale lo spessore di natura scientifica. Ad esempio, nella formazione etimologica di alcune parole strettamente salentine come “scrascia” che indicano i rovi di cui abbondano le nostre campagne, vari studi tra cui il Rohlfs, ritrovano antiche radici preromaniche e/o greche come il verbo “skarifàomai” che ha proprio il significato di graffiare, scalfire ma ciò che salta evidente più che agli occhi alle orecchie, è proprio la fonetica in cui il suono tra sibilante e gutturale richiama onomatopeicamente la radice etimologica.

La didattica della lingua italiana non può prescindere dal “gioco” linguistico che ne rende affascinante lo studio e creativo l’utilizzo. Poiché l’attenzione è la porta d’accesso all’apprendimento, per riscuotere successo nell’insegnamento è necessario accedere alla comprensione attraverso la molla dell’interesse.

In soggetti dialettofoni apparentemente disinteressati alla storia della lingua italiana o allo studio della grammatica normativa, è stato fondamentale partire proprio dal “dialetto” come lingua natia, presente con la sua “grammatica innata” in ciascun parlante.

Gli esiti della fortunata ricerca laboratoriale avviata con una classe terza di una scuola secondaria di primo grado di Copertino (LE), diede vita alla prima delle pubblicazioni a contratto che siglarono il mio ingresso in “SCUOLA E DIDATTICA”, Rivista nazionale edita dall’Editrice LA SCUOLA di Brescia, come redattrice per la didattica dell’Italiano. Attraverso la didattica laboratoriale, infatti, i ragazzi, trasformatisi in aspiranti linguisti, indagarono sui principali “errori” presenti nei loro elaborati scritti, per risalire alle regolarità sottese alla propria lingua madre a cui ricondurre i suddetti errori dovuti all’erronea ed inconsapevole sovrapposizione delle strutture del dialetto su quelle dell’ italiano standard. Scoprirono così l’evoluzione socio-linguistica che dal Greco e dal Latino ci ha condotti all’Italiano e la maggiore vicinanza del dialetto salentino, più conservativo rispetto all’Italiano standard, ad alcuni costrutti greci e latini sia nel lessico, come la parola cras latina molto più simile al nostro crai rispetto alla traduzione italiana domani , o bis cras più simile al nostro buscrai, rispetto al dopodomani dell’Italiano standard sia nella morfologia per cui ad esempio il pronome relativo è invariabile e si traduce sempre con il monosillabo ca, e Condizionale e Congiuntivo sono espressi con Imperfetto Indicativo in frasi del tipo ci putia facia tradotto erroneamente in Italiano orale e scritto dai ragazzi dialettofoni con se potevo facevo invece di se potessi farei; e infine nella sintassi con la cosiddetta costruzione inversa per cui Sono Gabriella diventa Gabriella sono.

La riflessione sulla lingua condotta in modo laboratoriale risveglia la passione per la ricerca e conduce alla “scoperta” di regole e funzioni, facilitando un apprendimento a lungo termine che si accompagna con lo sviluppo di competenze trasversali e life skills fondamentali ai fini del life long learning.

Studiare una lingua, infatti, equivale a studiare un codice basato su regolarità d’uso che, a loro volta, si fondano su criteri di efficienza e potenza generativa. Con 21 lettere alfabetiche è possibile produrre infiniti testi, interi romanzi, epopee, drammi, commedie, poemi e poesie e, naturalmente, infinite filastrocche.
E’ possibile partire da qui per avviare il viaggio attraverso le variabili linguistiche poiché la lingua varia attraverso il tempo (variabili diacroniche), lo spazio (variabili diatopiche), gli strati e i gruppi sociali (variabili diastratiche), le situazioni comunicative variabili diafasiche).

L’affabulazione e il codice

Sicché, volendo scrivere un testo poetico in cui, ad esempio, Maria D’Enghien si racconta: di quali variabili dovrei tenere conto? Di tutte, naturalmente. Si può cominciare con la lettura attenta di un celebre testo: “Osservazioni sul volgare negli statuti di Maria D’Enghien” del compianto professor Mario D’Elia, Ordinario di Dialettologia italiana presso l’Università del Salento e si può continuare con ricerche di tipo storico e bibliografico inerenti alla vita ed alla personalità straordinaria di questa donna-regina che nacque, forse, a Copertino, nel 1367 e che ereditò la contea di Lecce portandola in dote nel 1385, quando andò sposa a Raimondo Orsini del Balzo, già conte di Soleto e Galatina e principe di Taranto. Quando Ladislao di Durazzo, re di Napoli, sconfisse e uccise Raimondo per conquistarne il principato, Maria alfine di non far perdere alla progenie sua e dell’Orsini la cospicua eredità, accettò di sposarlo, riuscendo a sopravvivergli e a diventare Regina al suo posto. Ella governò saggiamente dimostrando capacità straordinarie di lungimiranza ed apertura mentale: fu sua l’iniziativa di riprendere il commercio con Venezia, ripristinando lo scalo franco costituito dal Porto di Adriano Imperatore ( attuale San Cataldo) e stringendo rapporti economici con mercanti genovesi, ebrei, greci ed albanesi.

Il D’Elia ci dice che all’epoca il volgare che immaginiamo fosse la lingua di Maria fosse una specie di lingua comunitaria in cui tradizione toscana, tradizione latina e dialetto salentino si mescolavano insieme “dando vita ad un linguaggio ibrido e composito che contrappone spesso crudamente nel breve giro di uno o pochi periodi contigui, voci e tendenze della schietta parlata dialettale a voci o tendenze di una lingua colta e aristocratica”(op.cit. pag. 285).

(Tutti i diritti d’Autore sono riservati ai sensi della Legge 22 Aprile 1941 n. 633)

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