IL BATTAGLIONE “GRAMSCI”. I SOLDATI ITALIANI NELLA LOTTA ANTINAZIFASCISTA IN ALBANIA
di Maurizio Nocera
Quello che segue è l’intervento scritto per il Convegno sul Battaglione “Gramsci”, tenuto il 25 ottobre 2024 a Tirana presso l’Accademia delle Scienze d’Albania.
Signor Presidente Skënder Gjinushi, egregi Accademici, cari Veterani, Amici e compagni della Delegazione italiana qui presente, Signore e Signori, Amici e Compagni albanesi, è con vivo sentimento d’animo che ringrazio l’Accademia delle Scienze d’Albania per l’onore offertomi di intervenire a questo importante convegno. L’Italia è il mio paese che, ovviamente, io amo tanto, ma anche l’Albania, il suo meraviglioso popolo, che io conosco sin da giovane, sono oggetto dei miei sentimenti più cari.
Quella che segue è una pagina di storia militare e geopolitica quasi del tutto sconosciuta agli italiani. La ripropongo qui come memoria per le giovani generazioni che, un giorno, vorranno saperne di più.
Non so se gli Accademici delle scienze d’Albania conoscono il libro di Alfonso Bartolini (Roma, 1914-2001), ufficiale bersagliere di carriera e partigiano (Medaglia d’Argento al V. M.) prima in Grecia (nelle file dell’E.L.A.S.), poi sul confine greco-albanese. Bartolini è stato segretario nazionale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) dal 1946 al 2001 e fondatore e direttore della rivista «Patria Indipendente».
Il titolo del libro è Storia della Resistenza italiana all’estero (Rebellato editore, Padova 1965, pp. 476). In esso c’è un capitolo – La Brigata “Gramsci”, unità garibaldina, pp. 249-261 – dove parla del Battaglione “Antonio Gramsci” riportando alcuni eventi militari che non si trovano in altri scritti. Data la data di stampa del libro (1965), Bartolini scrive la sua storia ovviamente senza sapere quel che dopo quell’anno è accaduto in Albania. Ad esempio, omette di scrivere che il Comandante supremo dell’intera Resistenza antinazifascista albanese è stato il comandante Enver Hoxha. Ma detto questo per il resto la sua storia fila liscia come l’olio versato su una fetta di pane ben grigliata. Quello che a me interessa qui sono alcuni dati essenziali per capire quale sia stato il contributo degli italiani, alcuni di loro salentini leccesi, alla lotta partigiana in Albania.
Il primo dato relativo alla fondazione (10 ottobre 1943) del battaglione “Gramsci” è che fin da subito a comandarlo fu il sergente toscano Terisilio Cardinali (Terranova Bracciolini, 25 luglio 1913 – Strelsa-Albania 8 luglio 1944), Medaglia d’Oro al V. M. Alla fondazione del battaglione lo seguirono altri 170 soldati. Fu questo un reparto della Resistenza italo-albanese che è rimato impresso nella memoria di quanti ne fecero parte. Due le battaglie fondamentali durante il periodo della sua fondazione: la prima, nella difesa di Berat, il 15 novembre 1943, dove il battaglione fu decimato nello scontro con i nazisti e i ballisti (Balli Kombetar, nazionalisti fascisti albanesi); dei 170 ne rimasero vivi solo 48; il secondo evento è quello accaduto a Strelsa l’8 luglio 1944, dove Cardinali rimase ucciso nello scontro frontale con i nazisti e i ballisti. Stava per lanciare una bomba a mano quado una raffica di mitraglia nazista lo stroncò.
I primi comandanti eletti al fianco di Cardinali furono: 1^ Compagnia, comandante Remo Carneluti, commissario politico Romeo Cicerchia; 2^ Compagnia, comandante Giuseppe Monti, commissario politico Francesco Baracchi; 3^ Compagnia, comandante Giovan Battista Cavallotto, commissario politico Bruno Brunetti; commissario politico dell’intero battaglione fu Leo Dal Ponte, ucciso nella battaglia di Berat. Bartolini scrive:
«Il battaglione, dopo la morte di Cardinali, non aveva avuto neanche il tempo di ricostituire il suo comando; d’altra parte le tre compagnie in quel periodo avevano dovuto operare separatamente. Solo in settembre [1943] in una breve pausa può procedere e riordinare il suo comando. [Commissario politico Alfredo D’Angelo; intendente Ermanno Vasari; 1^ Compagnia, comandante Ilio Carrai, commissario politico Oliviero Bonaventura; 2^ Compagnia, comandante Angelo Gatto (che rimase ferito) e, a lui, subentrò Giuseppe Monti, commissario Bruno Brunetti; 3^ Compagnia, comandante Giovan Battista Cavallotto, commissario Loreto Millucci. Dirigente del servizio sanitario: dr. Pier Francesco delle Sedie] [Il “Gramsci” riprende immediatamente la sua marcia, da un capo all’altro dell’Albania, percorrendo un cerchio che sempre più si stringe intoro a Tirana» (p. 253), dove il battaglione si distingue in numerose azioni di guerra, svoltesi durante i primi 10 mesi del 1944. Il 17 novembre di quello stesso anno, le ultime resistenze naziste furono decimate in piazza Skanderbeg e Tirana fu finalmente libera.
Più di 2000 soldati partigiani italiani furono al fianco dei partigiani albanesi per la completa Liberazione del Paese. Il battaglione “Gramsci”, prima divenne Brigata poi Divisione sempre con lo stesso nome, quello di “Antonio Gramsci” [all’anagrafe Antonio Sebastiano Francesco Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937), di origine albanese in quanto il suo bisnonno arrivò con la famiglia in Italia agli inizi dell’800. Antonio Gramsci assieme a Giacomo Matteotti furono i primi martiri del fascismo, fatti assassinare direttamente su ordine di Mussolini.
Per noi salentini, nello specifico per noi leccesi, ci è caro ricordare il battaglione “Gramsci”, soprattutto perché, al suo interno, operò anche la leccese (nata però ad Avellino ma coniugata ad un leccese) Annunziata Fiore, che aveva appena 13 anni quando imbracciò il fucile e seguì i partigiani su per la montagna.
Bartolini scrive:
«Un dato è certo: da Durazzo e da Tirana, dopo la Liberazione del Paese, furono rimpatriati dalle autorità [albanesi] ben 19.000 italiani, dei quali 447 feriti e malati gravi, trasportati per via aerea» (p. 255). Altro dato [fonte Mario Palermo, ministro della guerra italiano], ci dice che 2000 furono i partigiani combattenti inquadrati in unità italiane; 10.000 militari sparsi nel paese in reparti albanesi e in località montane controllate da comandi partigiani; 8.000 civili» (p. 256).
Bartolini fa sapere pure che, dopo la Liberazione, a Tirana, per far fronte ad una serie di compiti supplettivi (pratiche per il rimpatria in Italia e quant’altro), fu fondato il Circolo “Garibaldi” che si dotò di un settimanale intitolato «Unione».
Scrive ancora Bartolini: «Il Battaglione “Gramsci” ebbe una sua accentuata caratterizzazione politica che ne fece l’espressione più avanzata dell’antifascismo che era esploso tra i soldati italiani. Lo stesso nome [Gramsci] che l’unità [militare] aveva assunto era un simbolo che rappresentava un legame sia con l’antifascismo militante italiano sia col carattere preminente comunista del governo [albanese] di liberazione nazionale. […] Il carattere accentuatamente politico di questa unità [militare] non si espresse tanto nei quadri militari – vi fu una larga utilizzazione di sottufficiali dell’esercito – quanto nei commissari politici, rigorosamente selezionali. Sarebbe errato pensare che i comandi albanesi abbiano esercitato particolari discriminazioni sugli italiani rimasti a combattere con loro. […] Solo il Battaglione “Gramsci” ebbe una più accentuata caratterizzazione politica che si esplicò soprattutto in conferenze e riunioni che avevano per tema argomenti politici e militari, con lo scopo di seguire, aiutare e comprendere, illustrare la situazione generale nel quadro dell’andamento della guerra per l’abbattimento del nazismo» (pp. 259-261).
Altro partigiano che ha scritto del Battaglione “Antonio Gramsci” è stato Enzo Misefari (Palizzi, 1899 – Reggio Calabria, 1993), sindacalista, antifascista, socialista e comunista (per alcuni anni nel Pcd’I m-l, Partito comunista d’Italia marxista-leninista), il partito di cui era segretario generale il partigiano Fosco Dinucci. Misefari, nel libro La resistenza deli albanesi contro l’imperialismo fascista (Edizioni di cultura popolare, Milano, 1976, pp. 240) dedica un capitolo al Battaglione “Antonio Gramsci” (pp. 164-171), dove scrive:
«La forza del battaglione [all’inizio] non era che di 320 uomini “forniti di poche armi collettive (mitragliatrici e mortai) e scarse armi individuai (mitra, fucili mitragliatori, ecc.) assai più necessarie alla guerriglia partigiana”. Esso cominciò a combattere ai primi di ottobre “attaccando colonne tedesche, in gran parte corazzate, sulla via Elbasan e Tirana, provocando al nemico notevolissime perdite”. […] Con i tedeschi ed i gendarmi [del Balli Kombetar] si scontrarono i combattenti del battaglione “A. Gramsci”, comandati da Cardinali, partito all’attacco alla testa del battaglione. A distanza di pochi metri dalle posizioni dell’avversario, mentre stava per lanciare una bomba a mano, fu raggiunto da una raffica di mitra del nemico e cadde a terra. Gli riuscì di pronunciare solo le parole: “Continuate l’attacco, io muoio, ma sono felice. Muoio per l’ideale. Viva il Partito comunista albanese» (p. 167). Misefari pubblica anche l’Appello di Enver Hoxha ai partigiani italiani (pp. 168-170), conosciuto da molti.
Dal Diario (Associazione Casa della Resistenza, Verbania Fondotoce, 2012, pp. 120) di Battista Cavallotto, comandante della 3^ Compagnia del “Gramsci”, riprendo solo un passaggio che riguarda un mio amico e compagno albanese, per anni incontrato in terra albanese:
«nel mese di Maggio [1943] il comando della prima brigata decise di mandare presso la nostra formazione un partigiano albanese che parlava benissimo la nostra lingua. Questo anche per evitare di trattare direttamente con la popolazione albanese. Il suo nome era SAMI KOTERIA, proveniva da Elbasan ed era studente universitario. Durante il periodo partigiano ebbe la sventura di perdere il padre ed un fratello, uccisi da reparti reazionari. Compagno migliore non poteva arrivare. Era come un fratello per noi. Sempre pronto ad aiutarci in qualunque cosa avessimo bisogno. La sua gradita compagnia ci venne lasciata fino al termine della guerra, fine novembre 1944, dopo di che, fece ritorno alla Brigata albanese. Seppi in seguito che si era laureato in lettere ed esercitò la professione presso le scuole medie di Tirana, di essersi unito con una ragazza italiana, di Trieste, e di avere avuto più bambini. Dalla fine della guerra, o meglio dal mio rimpatrio, sono sempre stato in collegamento epistolare con lui e, suo tramite, ricevo notizie dall’Albania che da me, è considerata come una seconda patria» (pp. 52-53).
Sami Koteria, negli anni 1973-1990, quando io ero componente del Consiglio Nazionale dell’Associazione Italia-Albania ed ogni anno, d’estate, guidavo i gruppi degli amici dell’Albania nelle Terra delle aquile, è stato sempre la mia guida albanese. Non l’ho mai dimenticato, ed oggi che siano qui a ricordare il Battaglione “Gramsci” gli rendo onore.
Nella 3^ Compagnia del Battaglione “Gramsci”, comandata da Battista Cavallotto, erano presenti i partigiani Spenga Antonio (di Lecce) e Vito De Lorenzis (di Dragoni-Lequile di Lecce).
Cavallotto scrive ancora:
«In Tirana, capitale dell’Albania e centro di ogni via di comunicazione affluirono tutti gli italiani che erano sparsi nei vari villaggi a lavorare presso le famiglie di contadini albanesi. Da parte degli ufficiali e dei civili italiani [….] fu fondato un circolo denominato “Garibaldi” il quale aveva le funzioni di posto di ristoro e di circolo ricreativo. A capo di esso venne posto il Gen. Piccini di Firenze e, con l’aiuto di altri ufficiali, anche loro sparsi nei vari villaggi, cercavano di dare un poco di aiuto a chi ne aveva maggiormente bisogno. Da loro abbiamo saputo che il Gen. Azzi, di Cuneo, comandante della Divisione Firenze, ed il Maggiore Chiarizia, Capo di S. M. della stessa, si erano imbarcati nel mese di giugno dello stesso anno – 1944 – nei pressi di Valona, su di un sommergibile inglese ed erano rientrati in Italia, da dove contribuirono a fare inviare aiuti, tramite lanci degli Alleati, agli italiani che erano rimasti sul posto. Noi della ”Gramsci”, da quanto posso sapere, abbiamo avuto sempre molto poco, e quel poco dovevamo conquistarcelo con le armi, combattendo contro il Balli Kombetar e i tedeschi. Ai primi del 1943, mi recai a Tirana col compito di domandare se tra gli italiani colà arrivati dalle compagne o da altre formazioni partigiani albanesi, vi fosse persona alcuna che desiderava unirsi alla “Gramsci”. Ne trovai moltissimi, che dietro ad una mia dichiarazione scritta li facevo proseguire verso la sede a Miloti. […] Prima del nostro rimpatrio, il Comandante in Capo Gen. Enver Hoxha ci indirizzò un messaggio» (pp. 78-79).
Il messaggio di Enver Hoxha ai partigiani italiani è molto conosciuto, per cui evito di riprenderlo qui.
Ma la storia più completa del Battaglione, della Brigata e della Divisione “Antonio Gramsci” noi la troviamo nel libro Liri Popullit. Partigiani italiani in Albania. Un esempio di internazionalismo proletario (Cultura Cooperativa Editrice, Firenze, 1974, pp. 232), pubblicazione curata da un gruppo di studio del Circolo di Firenze dell’Associazione Italia-Albania, composto dai partigiani Bruno Brunetti (presidente del Circolo) ed Enzo Busi e dagli amici Alessandro Carrasco, Roberto Renzoni, Daniela Ricci e Sergio Staino.
Importante la dedica sulla prima pagina del libro:
«Ai compagni di lotta caduti per la libertà dei popoli,/ al popolo albanese/ che, con grande fede nel suo Partito del Lavoro,/ tese ai suoi soldati occupatori/ le mani ancora ferite dalla tirannide nazifascista/ per aiutarci a riscattare il nome dell’Italia/ ed insegnarci la via verso una società più giusta».
Traggo una sola nota dell’Introduzione. Questa:
«L’Albania è un esempio nel quale la Resistenza vinse fino alle ultime conseguenze contro l’invasione esterna e contro la reazione interna: esempio nel quale l’obiettivo della liberazione nazionale è strettamente collegato all’emancipazione delle classi popolari. […] Le pagine che descrivono la vita nel Battaglione “Gramsci” ed i rapporti con la popolazione sono ricchi di insegnamenti: l’attività dei commissari politici, le conferenze di Battaglione, la critica e l’autocritica, la solidarietà tra compagni, ecc. Questi nuovi rapporti umani traspaiono dagli scritti spesso con commovente ingenuità. [….[ Di contro, la severità con la quale vengono colpiti gli errori e le decisioni avventate. Proprio nella contrapposizione tra massima democrazia e rigida applicazione della stessa, sta la forza dell’esperienza partigiana in Albania, la ragione della sua vittoria, l’insegnamento delle nuove generazioni» (v. pp. 5-7).
Nel libro sono riportati i nomi di migliaia di soldati italiani che si fecero partigiani e lottarono per la libertà del popolo albanese dal nazifascismo. Molti di loro caddero sul campo di battaglia. Al loro sacrificio è dedicato questo scritto.
Una nota a margine ma che a margine non è.
Quando, nel marzo del 1991, il popolo albanese, su istigazione di potenze straniere (USA, Gran Bretagna, Vaticano, Europa Unita, ecc.) e su istigazione di vecchi e nuovi nazifascisti albanesi (Balli Kombetar più neofiti dei regimi reazionari) decise di cambiare il sistema socialista della Repubblica Popolare d’Albania, io avevo deciso di non mettere più piede sulla terra albanese. Nel 1997, però, accadde un evento che mi fece cambiare idea. La partigiana Nexhmije Hoxha, dopo avere fatto più di sei anni di ingiusta prigionia per avere offerto dei caffè a suor Teresa di Calcutta, venne liberata, con l’apporto anche di una campagna internazionale per la sua liberazione. A partire da quell’anno, ritornai nella terra che ho amato e amo ancora, e sempre (quasi tutti gli anni) fui ospite di questa meravigliosa partigiana. Ciò che Nexhmije mi ha insegnato è per me di grande importanza e mai potrò dimenticarla. Quando mi parlava del Battaglione “Gramsci” i suoi occhi, ormai anziani, ritornavano a illuminarsi, dicendomi «grazie anche a voi italiani che l’Albania riuscì a liberarsi dal nazifascismo tra i primi paesi d’Europa».
È a questa partigiana che oggi il popolo albanese dovrebbe innalzare il più alto monumento d’Albania.