“Il cavaliere Hernandez”, un racconto di Vincenzo Fiaschitello (seconda e ultima parte)

letto a baldacchino
Don Juan e il cavaliere trascorsero una buona ora a passare in rassegna i ritratti dei suoi antenati. Per ognuno aveva da raccontare una storia, un aneddoto, una curiosità. Uno di questi ritratti colpì l’attenzione di don Juan, il quale si fermò a scrutarlo con attenzione.
-Vedo che anche lei è attratto da questo ritratto, disse il cavaliere, è il mio preferito. Guardi che espressione del volto, che occhi penetranti. Ecco, è il suo sguardo che mi ha sempre impressionato, uno sguardo severo, indagatore: sembra proprio che ti sottoponga a un interrogatorio, che ti voglia strappare ogni segreto nascosto della tua anima”.
-“E’ davvero così! Ma chi è? Che cosa ha fatto?”
-“Beh! Cominci ad osservare il suo abbigliamento e poi l’ambiente nel quale è ritratto, gli oggetti che lo circondano, le pareti. In testa uno zucchetto nero, sulle spalle quella mantellina di ermellino che gli conferisce una grande autorità, il collare che gli scende sul petto, l’anello che porta alla mano destra, i libri e le carte posate sul suo tavolo, il lume che illumina il suo volto con il naso aquilino e poi quelle due lunghe bandelle bianche e il cappello cardinalizio sulla sedia. Alla parete di sinistra si vede lo stemma dove è raffigurato un cerchio rosso in campo bianco, tre stelle e un mezzo grifone; al centro della parete, sopra lo scrittoio, un grande crocifisso. L’armadio contiene numerosi volumi rilegati. Su uno si legge Bibbia e su quello più in là Concilio di Trento.
Era uno dei più autorevoli giudici del Tribunale dell’Inquisizione. Lo temevano tutti per i suoi giudizi severi, per le condanne inflitte a coloro che si macchiavano di colpe come l’eresia. Il dolore e il fuoco purificavano gli animi e quindi non bisognava aver paura di infliggere sofferenze quando si ritenevano giuste. Aveva fatto proprie le idee della Controriforma, quel rigore e quella disciplina che il Concilio di Trento aveva voluto immettere nelle vene della Chiesa come nuovo sangue rigeneratore. Nessuna incertezza, nessun dubbio nella difesa dei principali dogmi della Chiesa. Gli Ordini religiosi vengono riformati, ne nascono dei nuovi, come l’ordine dei Gesuiti, fondato da Sant’Ignazio de Loyola, che vuole i suoi sacerdoti schierati come soldati in difesa del Pontefice, capo della Chiesa cattolica. Altri Ordini come quello fondato da San Giuseppe Calasanzio, anche lui spagnolo, si dedicarono alla educazione dei ragazzi, specie quelli abbandonati, e aprono le Scuole Pie. Sono costoro gli Scolopi che in breve tempo si acquistarono importanti meriti nel quadro del risveglio spirituale della Chiesa.
Come vede, caro parente, con questi personaggi abbiamo in primo piano sempre la Spagna, che nel secolo XVII non ha rivali nella cultura, nella politica e nel potere militare!-
Il cavaliere, come al suo solito, preso dall’orgoglio, era portato alla retorica senza accorgersi di aggiungere un pizzico, e forse più, di esagerazione.
Trascorsero due giorni lieti per la famiglia di don Juan, il quale non finiva di ringraziare questo suo lontano parente ritrovato, lodando tutto ciò che gli si mostrava: la casa, i mobili, il giardino e poi la campagna intorno, il paese con le sue belle chiese e i palazzi signorili, il clima, la cucina. In paese, lungo il corso, gli amici del cavaliere e la gente si erano assuefatti a vedere passare quella strana comitiva: avanti Hernandez e don Juan, il primo, basso, rubicondo con calvizie avanzata e il suo inseparabile bastone da passeggio; il secondo, alto, dinoccolato, magro come una canna e con occhi vivaci e guardinghi. Dietro, il nano e i ragazzi, impazienti di infilarsi in qualche bar per rimpinzarsi di dolci.
La mattina del terzo giorno della permanenza di don Juan in casa Hernandez, continuò il barone, mi trovai alla porta il maresciallo dei carabinieri:
-“Oh, barone, mi scusi per l’ora mattutina, ma avrei bisogno di chiederle una informazione urgente”.
-“Prego, si accomodi maresciallo, le faccio preparare subito un buon caffè”.
-“Abbiamo saputo che in paese è arrivato un signore spagnolo e che il cavaliere Hernandez ha ospitato nella sua casa perché lo ritiene un suo lontano parente di nobili origini. Lei, come intimo amico del cavaliere, mi sa dire come stanno le cose? Abbiamo il sospetto che si tratti di un imbroglione che ha già truffato tanti ingenui in varie città italiane”.
-“Ecco, maresciallo, il cavaliere mi ha voluto a pranzo per conoscere questo signore. Anch’io per la verità ho avuto lo stesso dubbio quando l’ho visto, l’ho osservato bene e l’ho sentito parlare di tante storie poco credibili. L’ho fatto notare pure al cavaliere, ma lui accecato da un insano orgoglio non mi ha voluto nemmeno ascoltare”.
-“Bene, barone, stiamo completando le indagini e fra poco agiremo”.
Non passò un’ora e già una macchina dei carabinieri era dinanzi al cancello della villa di Hernandez. In mezzo a due carabinieri usciva in manette don Juan, seguito dallo sguardo esterrefatto del cavaliere”.
-“Permettetemi di aggiungere qualche particolare di cui sono a conoscenza, intervenne il professore. Qualche giorno prima dell’arrivo dell’illustre ospite, il cavaliere, passeggiando con me, tirò fuori dalla tasca proprio la lettera che aveva ricevuto. E mostrando grande soddisfazione mi fece notare come il filo diretto della parentela si poteva evincere da un particolare, a suo dire, decisivo. Il nome completo di don Juan era don Juan Hernandez Carlos d’Aragon. Ora, diceva il cavaliere, in alcune antiche carte da me conservate anche il mio nome di Hernandez è unito a quello di Aragon, per cui mi faceva notare che le origini comuni vanno fatte risalire a quel cardinale del ritratto, identificato con il nome di Aragon scritto in un angolo superiore del quadro accanto allo stemma e a quell’illustrissimo e eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, principe e conte, nonché ammiraglio, gran Contestabile di Sicilia e marchese di Avola, come ricorda lo stesso Manzoni nel suo immortale romanzo. Vedete voi, cari amici, come questioni genealogiche complesse possano essere risolte in quattro e quattr’otto!”
-“Bene, disse l’avvocato, ora non ci pensiamo più. Qualche anno di carcere farà passare ogni grillo di nobiltà ancora in testa all’eccellentissimo don Juan! Vorrei, invece, ricordare alcuni aspetti della vita familiare del cavaliere Hernandez dal momento che in varie occasioni me ne sono occupato a seguito di disavventure drammatiche che hanno segnato la sua vita nel recente passato. Dobbiamo intanto precisare che, visto il suo carattere autoritario e decisamente maschilista, sin dai primi tempi del matrimonio, il cavaliere pensò bene di tenere la moglie relegata in casa a occuparsi esclusivamente dei problemi domestici. Tutto il resto, tutte le decisioni, dalla economia alle relazioni esterne alla educazione dei figli era affar suo. Donna Elena stava appena un gradino più alto della serva Teresina.
Alla nascita del primo figlio, Hernandez si sentì in dovere di aggiornare la propria cultura, acquistando e leggendo vari libri di puericultura e più tardi anche di psicologia infantile e di pedagogia. L’intenzione, come si può credere, era tra le più oneste, senonché molte affermazioni e consigli degli autori venivano respinti o interpretati falsamente per farli rientrare negli schemi e categorie mentali immutabili che si era dati. La rigidità del suo carattere arrivava al punto di rasentare anche la crudeltà. Vi faccio soltanto qualche cenno su come intendesse condurre l’educazione del figliolo in fatto di ubbidienza e di punizioni.
Il cavaliere Hernandez quando era solo andava impettito senza appoggiarsi per nulla al suo inseparabile bastone che sollevava ritmicamente fino all’altezza del ginocchio. Pochi passi più indietro, Ninuzzu, il nano, aveva il compito di tenere il conto delle persone che lo salutavano lungo i circa cinquecento metri che percorreva dalla sua casa fino alla piazzetta e ritorno. A casa Ninuzzu doveva riferirgli quante persone quel giorno lo avevano salutato, scappellandosi o con un inchino o un semplice buongiorno cavaliere. Dal numero dei saluti dipendeva l’umore del cavaliere nel corso della giornata. Succedeva che il furbo nano più di una volta lo ingannasse, a seconda se dal buono o dal cattivo umore del padrone potesse derivargli un vantaggio o un danno. Ma se per caso il cavaliere intuiva l’imbroglio non era raro che lo punisse con qualche bastonata o come quando un giorno lo sorprese in corridoio a fare gestacci e pernacchie dinanzi al ritratto del cardinale, suo parente.
Le bastonate non erano solo per il nano. Capitava in caso di disubbidienza che anche il figlio Diego le ricevesse generosamente e per giunta anche in pubblico.
Il ragazzo non aveva tanti amici perché non frequentava la scuola pubblica. Il cavaliere aveva scelto l’istruzione privata. Fino ai dieci anni, un giovane istitutore gli dette i primi elementi del sapere; poi fu suo maestro il canonico Sbano, di grande dottrina, severo e noioso. Il ragazzo soffriva quasi sempre chiuso tra le quattro pareti di casa e quando era libero, manifestava tutta la sua vivacità in maniera esagerata, correndo e gareggiando con i compagni per le vie del paese e giocando a palla. Il cavaliere, mal sopportando questi comportamenti che riteneva indecorosi per un ragazzo di nobile famiglia, aveva finito col proibirgli soprattutto di giocare a palla. Le prime volte si era limitato a rimandarlo subito a casa, poi dopo averlo ancora sorpreso a giocare gli aveva assestato un paio di bastonate dinanzi ai compagni. Diego correva a nascondersi quando lui o un compagno vedeva il cavaliere che si avvicinava. Un giorno non fece in tempo, così il cavaliere gli inflisse quella severa punizione sempre minacciata.
Lungo il muro di cinta della casa del cavaliere, un largo cancello lasciava ai passanti la vista di una stanza a piano terra, dove in prossimità del natale il cavaliere faceva approntare un ricco presepe. La gente si fermava ad ammirarlo e a pregare. In quella stanza verso il tramonto il cavaliere, accendendo la radio, (allora ancora una rarità), e alzando al massimo il volume, dava alla gente la possibilità di ascoltare le notizie del giorno.
Proprio in quella stanza, Hernandez pensò di infliggere a Diego la punizione. Aiutato dal nano e nonostante che il ragazzo si divincolasse con tutte le forze, il cavaliere lo legò a una sedia e lo spinse fino al limite della porta finestra perché potesse essere visto dai passanti. Accese la radio e andò via. Per primi furono i ragazzi a vedere quello spettacolo. Curiosi si accalcarono all’inferriata del cancello: all’inizio per canzonare il compagno e dopo per compatirlo. Gli adulti, che si erano avvicinati per ascoltare il giornale radio, restarono stupiti per quel modo di punire un ragazzo, ma ci fu qualcuno che trovò una giustificazione dicendo che evidentemente quella punizione il ragazzo se l’era meritata. Tra un commento e l’altro si sentiva la voce dello speaker che con tono concitato diceva: “Budapest è caduta! I carri armati russi dilagano per le strade della città. La libertà dell’Ungheria è già finita! Uomini dell’occidente chiediamo il vostro aiuto…”
Quella punizione lasciò il segno nell’animo di Diego. Da ragazzo allegro e vivace, divenne presto introverso, insicuro, timoroso. Crescendo, questi aspetti negativi della sua personalità anziché scomparire o almeno attenuarsi, si consolidarono. Temeva sempre di essere punito severamente ogni qual volta si discostava dal volere del padre. Non aveva affatto elaborato alcuna stima di sé, il giudizio negativo del padre lo precipitava nel tunnel dell’ansia, se non in una vera disperazione.
Da qualche mese il cavaliere, finalmente, aveva raggiunto quell’obiettivo che tutti considerano appartenenza a uno status sociale elevato. L’acquisto della vettura, affettuosamente battezzata dalla gente con il nome di Topolino, era stato un avvenimento importante. Lucida, nera, elegante, veloce, faceva girare la testa solo a guardarla. Per le strade del paese erano poche allora le vetture che circolavano. I cavalli non erano stati ancora tutti imprigionati dentro le lamiere della macchine, la gran parte viveva e lavorava all’aria aperta, tirando i pesanti carri dei contadini!
La domenica, il cavaliere regalava a sé e ai suoi due figli una bella corsa in macchina, raggiungendo quelle contrade dai nomi mitici che i figli conoscevano solo per averne sentito parlare: Olivella, Santa Croce, Mostarda, Baulì, ecc.
Una mattina che il canonico Sbano non era potuto andare a far lezione in casa Hernandez, perché ammalato, Diego, ormai quindicenne, gironzolando in giardino si avviò verso la ex stalla trasformata in garage dove il cavaliere teneva chiusa la sua Topolino. La ammirò a lungo, guardando dalla finestrella accanto alla porta, poi all’improvviso gli balenò un’idea: “Perché non provare a tirarla fuori e a fare un giretto?” Si ricordò che il padre nascondeva nel cassetto dell’armadio della camera da letto le chiavi, quando come al solito usciva a fare la sua passeggiata mattutina.
Il cuore gli batteva forte, ma il desiderio di guidare la macchina era così straripante che subito si trovò al posto di guida per accendere il motore. Aveva appreso tutto il necessario nei giorni in cui, seduto al fianco del padre, aveva attentamente osservato ogni manovra. Uscì lentamente dal garage e, fatte piccole manovre all’interno del giardino, pensò di uscire in strada. Man mano che procedeva, si sentiva sempre più sicuro. Lungo il rettilineo aumentò la velocità. Che ebbrezza! Un senso di libertà, una voglia di dimenticare le tante insicurezze che aveva accumulato, la noia di una vita monotona, opprimente con una madre che per paura del marito non riusciva a difenderlo da violenze e imposizioni spesso ingiuste di un padre ossessivo e tirannico. Disse a se stesso che, superato il ponte, c’era la curva a gomito e che bisognava rallentare. Non seppe frenare o non volle. Non lo sapremo mai. La macchina si girò su se stessa, si capovolse due tre volte. Uscì dall’abitacolo ferito e sanguinante, guardò atterrito la macchina distrutta, poi zoppicandofuggì per la scarpata tra i rovi. Trovò un anfratto e decise che come nascondiglio era perfetto. Non badava al sangue che perdeva da un braccio, né al dolore fitto al petto. Doveva nascondersi. Come poteva farsi perdonare dal padre? Aveva distrutto la sua vettura! Vedeva tutto ciò come qualcosa di irreparabile, di mostruosamente grave. Ora a lui non restava altro da fare che infilarsi in quella buca della roccia, scivolare giù finché fosse possibile.
Lo cercarono per tutto il giorno inutilmente, gli amici del cavaliere, la gente del luogo e i carabinieri. Niente. Lo trovarono dopo tre giorni. Stava rannicchiato su se stesso in posizione fetale, come se avesse voluto chiudere la sua breve e infelice esistenza, tornando nel ventre della madre, dove soltanto c’era possibilità di sicura protezione, quella protezione che invece gli era sempre mancata da quando era venuto al mondo”.
-“Certo questo avvenimento, intervenne il professore, sembrava destinato a mitigare l’intransigenza e la severità del cavaliere, ma invece nulla cambiò, perché nei confronti della figlia fu altrettanto rigoroso, al punto da renderla infelice e distruggere la sua vita.”
-“Che cosa accadde alla figlia? disse Jacques, ormai completamente coinvolto nella terribile vicenda umana del cavaliere.
Incoraggiato dall’interesse dimostrato dal regista, il professore si accinse a descrivere i dettagli di cui era venuto a conoscenza. “Maria Dolores era rimasta emotivamente scossa dalla terribile fine del fratello. Più grande di due anni, frequentava il prestigioso liceo ginnasio del paese con grande profitto. Aveva una intelligenza superiore alla norma come riconoscevano gli stessi professori e una sensibilità così accesa che spesso la faceva soffrire. Come spesso accade alle ragazze della sua età, si era follemente innamorata del suo insegnante di lettere. Non mancava giorno che non gli indirizzasse una poesia, una lettera nella quale minutamente descriveva tutto ciò che faceva e pensava durante il giorno. Erano spesso pensieri malinconici!
-Scusami, collega, mi disse un giorno il suo insegnante, tu che sei molto amico del cavaliere Hernandez, mi potresti dire qualcosa della figlia? Com’è? Come si comporta a casa con il padre, con la madre?
-Io so che è una ragazza studiosa, che è rimasta fortemente rattristata per quella disgrazia del fratello. Il padre è molto severo e pretende il massimo da lei.
-Sì, questo lo sapevo. Ma senti, devo confessarti che sono molto preoccupato perché mi lancia certi sguardi, mi scrive di continuo lettere e poesie. Non so più come frenarla, mi spaventa!
E io scherzando gli dico: ”Ma di che ti preoccupi? In fondo sei scapolo, hai qualche anno in più!…
Accadde che il cavaliere ebbe la disavventura di leggere qualche lettera e alcune poesie rimaste tra i libri della ragazza. Il cavaliere minacciò la figlia, minacciò il professore, chiese a me notizie su quel bell’imbusto che voleva corrompere la figlia. Cercai di rassicurarlo, dicendo che sicuramente si trattava di una fiamma passeggera che si sarebbe spenta di lì a poco con la fine dell’anno scolastico. Era una cosa che succedeva spesso alle ragazze intelligenti e sensibili. Non bisognava farne un dramma. Ma il cavaliere non si mostrò affatto convinto e presto prese le sue misure, una serie di controlli e restrizioni che in breve portarono la figlia a esplodere in vere e proprie crisi di nervi. Il cavaliere non la lasciava uscire mai da sola, l’accompagnava a scuola e la riprendeva all’uscita. Le proibiva di incontrarsi con le amiche, le vietava perfino di andare a messa da sola; doveva andare accompagnata da Teresina o dalla madre. Iniziò per la povera ragazza un calvario.
Terminata la scuola, conseguita la maturità, Maria Dolores restava per lunghi giorni a casa senza poter uscire, né vedere alcuno. Nel suo diario scriveva: “Questa notte, amore mio, ho udito a lungo il trillo del grillo nel mio giardino e tu non c’eri. Com’è oscura la mia solitudine!” E in altra data: “Io sogno il mare: una vela che il vento gonfia ci porta lontano. Crudelmente il vento la strappa, ma tu, mio amore, non aver paura, io sto qui vicino a te e la cucio con un filo d’argento”.
Si era smagrita e coloro che la vedevano affacciata al balcone che dava sulla strada, ne avevano compassione.
Un giorno passò di là una compagna di scuola, la riconobbe e le fece segno di avvicinarsi. Poterono parlare e scambiarsi qualche notizia. La compagna le riferì che per la domenica seguente qualcuno aveva preso l’iniziativa di una breve gita a piedi alla Cava Grande. C’erano i compagni e le compagne di scuola e il professore di lettere. A sentire il nome del professore, Maria Dolores impallidì e le venne subito spontaneo dire che le avrebbe fatto piacere partecipare.
Fu per caso che la domenica Maria Dolores poté andare alla Cava Grande. Il cavaliere da due giorni era ammalato e non poteva lasciare il letto.
-Vai, povera figlia, vai. Tuo padre non si accorgerà della tua assenza, disse la madre.
Fu una mattinata di gioia. Alla vista del professore, Maria Dolores trattenne a stento le lacrime. Dopo la consumazione di un panino e di un dolce, Maria Dolores si allontanò per andare a vedere dall’alto di una rupe il torrente che scorreva spumeggiando tra le rocce. Il professore la raggiunse e cominciò a chiederle notizie sulle sue future intenzioni, raccomandandole di iscriversi all’università. La ragazza si voltò, lo guardò negli occhi e fu presa da un desiderio irrefrenabile di abbracciarlo. A un tratto lei gli disse: “Abbracciami, abbracciami forte!” Sentiva dentro di sé una voce che diceva: “Non staccarti da lui, tienilo stretto a te se non vuoi perderlo. Ora, fallo subito, non ci sarà più un’altra occasione simile in futuro”.
Si spostarono di pochi passi. Sotto di loro si apriva un baratro: i suoi occhi guardavano incantati quell’abisso. Lo tenne ancora più forte, lo tirò a sé e poi esclamò come ispirata: “Lanciamoci giù, noi due abbracciati, le nostre anime voleranno insieme”. Ma il professore, già infastidito e allarmato per quella stretta inconsueta, fece un balzo indietro, staccandosi da quel fatale abbraccio. Tornata un po’ lucida, Maria Dolores si allontanò dal precipizio, seguì il professore e rientrò nella comitiva.
Col passare dei giorni, la ragazza divenne sempre più inquieta e instabile. Si muoveva in continuazione; quando usciva sul balcone non stava mai ferma, andava da una parte all’altra, si affacciava e se vedeva passare un uomo gli sputava in testa. Numerose le proteste di coloro che avevano avuto quel trattamento. Il cavaliere si scusava con loro e andava a rimproverare aspramente la figlia. Le cose non cambiarono, finché una mattina Maria Dolores non poté affacciarsi al balcone perché il padre aveva fatto inchiodare le imposte.
Poiché non passava giorno che la figlia non desse gravi segni di follia, il cavaliere Hernandez fu costretto a farla ricoverare in manicomio. Fu un grave colpo per l’orgoglio del cavaliere. Ora la sua non era più una famiglia. Restava incrollabile solo il decoro delle radici che si estendevano nel passato. Dopo alcuni mesi che Maria Dolores era ricoverata, il cavaliere ricevette una lettera: “Caro padre, qui si sta bene, molto bene. Tutti mi vogliono un gran bene, me ne vuole persino la mia bambola, specie quando la pettino. Di giorno gioco distesa sul prato e mi diverto a schiacciare le formiche e i vermetti che passano. La sera gioco a carte e ammazzo tutti i re e i cavalieri che li seguono. Io ne conosco uno e quando passa lo infilzo con il mio spillone…”
Una sera d’inverno il cavaliere ricevette un telegramma. Dal manicomio gli annunciavano la morte della figlia. Maria Dolores quel giorno aveva visto aperta la porta dell’infermeria e aveva trovato una scatola incustodita di medicinali.”
Fino a quel momento nel corso della serata, solo il dottor Cassone era rimasto in silenzio.
-“Lei, signor farmacista, disse Jacques, non ha da aggiungere qualche altro particolare sulla vita di questo personaggio?”
-“Oh, sì certo! Dopo quelle sventure e di recente, dopo l’imbroglio dell’eccellentissimo don Juan, il cavaliere Hernandez ha avuto una salute piuttosto malferma. E dunque negli ultimi mesi l’ho visto spesso in farmacia per l’acquisto di medicinali. Così ho potuto conoscere un po’ della sua vita prima della morte. Lo trovavo malinconico, intristito, soffriva di solitudine. La moglie era andata a vivere con la sorella nella vicina cittadina. Gli restava soltanto il nano Ninuzzu che però spesso gli nascondeva le cose più care, lo ingiuriava. Quando andai a trovarlo qualche giorno prima della morte, mi raccontò che le cose attorno a lui avevano assunto un’aria grigia, di tristezza, di abbandono, come se gli annunciassero la fine imminente.
Una sera pregò Ninuzzu di accompagnarlo fino al corridoio. Da un lato appoggiandosi alla testa del nano, dall’altro al bastone, il cavaliere si alzò e, raggiunto il corridoio, si fermò dinanzi al ritratto del suo antenato. Gli occhi, gli occhi erano sempre quelli, terribili, indagatori, penetranti. In quei minuti che poté restare in piedi, ebbe la sensazione che quello sguardo lo spogliasse e mettesse a nudo la sua anima. Per istinto provò a stringersi sul petto la mantellina di lana che portava sulle spalle. Dalla stanza vicina gli parve di udire la voce di un fanciullo che correva e batteva una palla sulla parete. Dalla stanza in fondo al corridoio gli giungeva la voce di una ragazza che sembrava declamare una poesia: “Mio piccolo amore… mio piccolo amore!”
Disse a Ninuzzu di riportarlo nella sua camera e quando gli confidò che là nel corridoio aveva udito quelle voci, il nano, pronto, crudelmente gli rammentò il dolore e il male che aveva procurato ai suoi figli.
Gli occhi del cavaliere si inumidirono di pianto.
Seduto su una poltroncina dietro i vetri della finestra, respirava a fatica. Sentiva che il male gli stava mangiando la carne. Guardava la luce del giorno che andava spegnendosi come la sua vita. Pensava che forse non avrebbe nemmeno fatto in tempo a vedere l’arrivo delle prime rondini.
Morì quella stessa notte, solo, nel suo letto. Di là, Ninuzzu girava per le stanze deserte, rovistando negli armadi e nei cassetti.”
Jacques restò assorto nei suoi pensieri per un po’? Poi disse: -“Amici, vi ringrazio. Sono certo di aver trovato il personaggio giusto per il mio film.”
Si era fatto tardi e il garzone aveva ricevuto l’invito a spegnere il grande lampadario di Murano al centro del salone, lasciando le fioche luci delle applique di opalina bianca e viola.
Il barone, piuttosto contrariato, disse:
-“Babbazzu, nun viri ca piovi! Non possiamo uscire ora!”.
Vincenzo Fiaschitello
Nato a Scicli il 18/10/1940. Laurea in Materie Letterarie presso l’Università di Roma con il massimo dei voti (1966) e Abilitazione all’insegnamento di Filosofia e Storia nei licei classici e scientifici; pedagogia, filosofia e psicologia negli istituti magistrali (Esami di Stato D.M.10/8/1966). Docente di ruolo di Filosofia e Storia nei licei statali (Vincitore Concorso nazionale a 119 cattedre, indetto con D.M. 30/6/ 1969) e Incaricato alle esercitazioni presso la cattedra di Storia della Scuola –Facoltà di Magistero Università di Roma dall’anno accademico 1965/66 al 1973/74. Direttore didattico dal 1974 (Vincitore Concorso nazionale D.M.25/9/1970), preside e dirigente scolastico fino al 2006. Docente nei Corsi Biennali post-universitari. Membro di commissioni in concorsi indetti dal Ministero P.I.
Ha pubblicato oltre venti opere di saggistica, di poesia e di narrativa, nonché molteplici articoli di critica letteraria, di filosofia, di storia, di pedagogia e di didattica.
Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lo ha insignito della onorificenza di Commendatore Ordine al merito della Repubblica Italiana (Decreto Pres. Rep. 2/6/1997 ).