di Ada Serena Zefirini
L’Unità d’Italia, proclamata ufficialmente il 17 marzo 1861, rappresenta un momento cruciale della storia italiana, spesso narrato attraverso una lente mitizzata che ne esalta il valore patriottico, l’eroismo dei suoi protagonisti e la naturalezza del processo. Tuttavia, dietro la facciata della glorificazione nazionale, si celano realtà più complesse, fatte di conflitti interni, interessi politici, resistenze locali e conseguenze economico-sociali non sempre positive per l’intera popolazione.
Uno dei miti più diffusi riguardo all’Unità d’Italia è che essa sia stata il risultato di un moto popolare spontaneo, una volontà condivisa da tutta la penisola di unirsi sotto un’unica bandiera. In realtà, il processo di unificazione fu guidato da un’élite politica e militare, con il Regno di Sardegna e la dinastia sabauda come principali promotori. La volontà popolare fu spesso ignorata o forzata, con plebisciti controllati e una scarsa partecipazione consapevole da parte della popolazione, soprattutto nelle regioni meridionali.
L’Unità d’Italia non avvenne in un vuoto geopolitico, ma fu profondamente influenzata dagli equilibri di potere europei. La Francia di Napoleone III sostenne il Piemonte in chiave anti-austriaca, vedendo nell’indebolimento dell’Impero asburgico un vantaggio strategico. L’Inghilterra, dal canto suo, favorì l’unità italiana per ragioni economiche, auspicando la creazione di un mercato unificato e stabile nella penisola. Senza questi interventi e senza le guerre di indipendenza, l’unificazione avrebbe incontrato ostacoli ben più ardui.
Uno degli aspetti più controversi dell’unificazione riguarda il cosiddetto “brigantaggio”, spesso descritto dalla storiografia ufficiale come una forma di resistenza criminale e anti-statale. In realtà, il fenomeno fu anche una reazione popolare alle nuove politiche imposte dal governo piemontese, che venivano percepite come un’invasione straniera. Il Regno delle Due Sicilie, seppur con molte criticità, possedeva una propria struttura economica e amministrativa, che fu spazzata via con la conquista garibaldina e l’annessione al Regno d’Italia. La conseguente repressione del brigantaggio, con stragi di civili e un vero e proprio stato di guerra nel Sud, segnò un capitolo oscuro della storia dell’unificazione.
L’Unità d’Italia portò con sé un forte squilibrio economico tra Nord e Sud. Le politiche fiscali e industriali del nuovo Stato furono fortemente sbilanciate a favore del Settentrione, penalizzando il Meridione con tasse elevate e la smobilitazione di molte attività produttive locali. Il divario economico, che ancora oggi caratterizza il paese, affonda le sue radici proprio in questo periodo storico, quando l’integrazione tra le diverse aree della penisola avvenne in modo diseguale e spesso punitivo per il Sud.
Il mito del Risorgimento come epopea di libertà e fratellanza fu costruito nel tempo attraverso una narrazione ufficiale che mirava a consolidare il senso di identità nazionale. Le scuole, la letteratura e la politica contribuirono a diffondere un’idea eroica dell’unificazione, spesso nascondendo le complessità e i costi umani che essa comportò. In realtà, il processo fu lungo, conflittuale e segnato da compromessi con le potenze europee e dalle difficoltà interne che portarono a tensioni sociali ed economiche destinate a durare per decenni.
L’Unità d’Italia fu un evento storico di enorme portata, ma la sua costruzione non fu né pacifica né equa. Dietro il mito dell’epopea risorgimentale si celano realtà di guerre, repressioni e profonde disparità economiche che ancora oggi influenzano la società italiana. Una lettura critica della storia non serve a sminuire l’importanza dell’unificazione, ma piuttosto a comprenderne appieno le conseguenze e a riflettere sulle responsabilità che ne derivano per il presente e il futuro del paese.