Il filosofo di Taurisano: Giulio Cesare Vanini
Di Stefania Carofalo
Giulio Cesare Vanini, è un filosofo nato nella nostra terra, a Taurisano (Le), ma che ben presto lascia per approfondire i suoi studi. Diversi i luoghi da lui vissuti ed ognuno gli ha fatto maturare e approfondire le sue teorie e l’amore per Dio e la natura, che considera un tutt’uno. Il suo pellegrinare in un’epoca marchiata dalla Santa Inquisizione è più un fuggire. La sua colpa è quella di essere un pensatore obiettivo, lui riflette distaccandosi dalle credenze semplicistiche dei dettami inquisitori. Abiura in Inghilterra la religione cattolica per abbracciare quella ortodossa, ma ben presto ritroverà in quest’ultima la stessa crudeltà dalla quale rifuggiva.

Sospettato di eresia è più volte arrestato, come i più dotti uomini del tempo. I loro scritti venivano bruciati dal carnefice, quasi a fermare la propagazione delle idee e annientare la ragione umana.
A Tolosa trovò protezione, insegnò filosofia: aveva grande credibilità, era molto seguito per le sue idee e tanto più cresceva la sua popolarità e stima, tanto più aumentava la brama inquisitoria alla ricerca di prove per condannare in maniera esemplare il filosofo ribelle sotto gli occhi dei potenti che dovevano guardare, tacere e tremare.
Purtroppo qui fu arrestato anche se in assenza di prove. Queste furono “cercate” dal suo nemico il magistrato inquisitore de Grammont (o Gammont) che riuscì a trovare un certo Franconi che denunciò Vanini di eresia per averlo sentito parlare contro le sacre dottrine cattoliche.

“Si confrontarono accusato e testimone, e questi avendo sostenuto ciò che l’altro aveva profferito, Vanini fu tradotto innanzi ai giudici, ed essendo sulla predella fu interrogato su quel che pensava circa l’esistenza di Dio. Rispose, che adorava con la chiesa un Dio di tre persone e che la Natura dimostrava chiaramente l’esistenza della Divinità.
Avendo a caso visto una festuca a terra, la raccolse e stendendo la mano disse: questa festuca prova che v’è un Dio, ed avendo dato termine al suo discorso sulla Provvidenza aggiunse: il grano gettato in terra sembra dapprima distrutto e comincia ad imbianchire, divien verde ed esce dalla terra, cresce insensibilmente, le rugiade l’aiutano a germogliare, la pioggia gli da anche più forza, si guernisce di spighe le cui punte allontanano gli uccelli, lo stelo si innalza e si copre di foglie, ingiallisce e s’alza vieppiù, poi incomincia a piegarsi fino a che muore, lo si batte nell’aja e la paglia vien separata dal grano; questo serve per nutrimento agli uomini, quella per gli animali, reati per servire l’uomo.
Da tutto questo discorso conchiudeva che Dio era l’autore di ogni cosa e per rispondere all’obbiezione che la Natura era la causa di queste produzioni, egli ritornava al suo seme di grano, per risalire al suo autore e ragionava a questo modo.
Se la natura ha prodotto l’altro seme che ha preceduto immediatamente questo; se l’ultimo è anche esso il prodotto della natura, si risalga ad un altro, fino a che non si giunga al primo che necessariamente sarà stato creato, poiché non si potrebbe trovare altra causa della sua produzione.”
(tratto dalla relazione di Grammont nella sua opera Historiarium Gallie)
De Grammont convinse i giudici che il discorso di Vanini era stato enunciato per vanità o per timore, e non per proprio convincimento , a questo punto quei giudici, timorosi esaminarono l’accusa e de Grammont lesse la sentenza di condanna “come reo di ateismo, ad aver tagliata la lingua, ad aver bruciato il corpo a fuoco lento, e le sue ceneri sparse ai quattro venti”.
(tratto dalla relazione di Grammont nella sua opera Historiarium Gallie)
L’inquisitore si preoccupò di far sparire gli atti del processo dagli archivi per evitare di rispondere in futuro di quell’assassinio, in quanto la sentenza non conteneva motivazioni per mandare al rogo il filosofo.

I frati e i carcerieri il 19 febbraio 1619, prelevarono dalla cella di una prigione segreta Vanini, per prepararlo all’esecuzione. Gli furono tagliati i lunghi capelli neri e lo vestirono con uno scapolare di stoffa gialla chiamato San Benito, destinato agli eretici, e la Manteta: una tela oblunga sulla quale erano dipinte le fiamme o la croce di S. Benito e in basso era scritto il nome, la qualità, lo stato, il delitto del condannato e l’anno della sentenza. Questo abito era poi consegnato alla chiesa del condannato per eternare la memoria della condanna. Mentre uscivano dalla cella il nostro filosofo esclamò: andiamo, andiamo a morire allegramente da filosofo.

Giulio Cesare Vanini fu martirizzato a Tolosa nella Place du Salin e lì in suo onore una targa lo ricorda.

Vanini ricorda così la sua terra:
“Andando a Taurisano, mia illustre patria, ch’è come una gemma nell’anello del mondo, udii il canto sinistro d’una cornacchia, e siccome io doveva viaggiare a cavallo ne’ calori estivi, presentii d’esser minacciato da morte funesta”.
(Julii Caesaris Vanini, theologi, philosophi et juris ultriusque dotoris, de Admirandis Naturae Reginae Deaeque Mortalium Aranis libri quatuor. Lutetia 1616, Dial. 51 p. 424)
Leonardo Stampacchia in un suo articolo: Scorsa Bibliografica su Giulio Cesare Vanini e i suoi tempi (ne Il Gazzettino letterario di Lecce anno 1 n.3 del 10 agosto 1878 p. 39-42), riporta in ultima pagina:
“…mi auguro che a Taurisano, sul prospetto della casa abitata un dì dall’illustre filosofo, vorranno incidere i suoi conterranei le stupende parole lapidarie dettate dal Bovio”
In questa casa plebea
Nasceva nel secolo più eroico
Della riflessione e del martirio italiano
GIULIO CESARE VANINI
Che infondendo nella infinita natura
L’infinità del moto
Compiva la mente del Nolano
E ne ereditava il destino
Nel XDCXIX
Arso non confutato
Dalla inquisizione di Tolosa
La patria
Cercatrice impotente delle ceneri
Date al vento
In questa pietra ne raccoglie il nome
E lo consacra
Al secolo vendicatore

Fonti
Raffaele Palumbo: Giulio Cesare Vanini e i suoi tempi. stabilimento. Tipografico di N. Jovene, 1878 Napoli
