IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Il nome della rosa ossia il libro dei libri di Umberto Eco

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Copertina Libro Il nome della rosa. Pianta dell'abbazia in giallo su fondo rosso

Copertina Libro Il nome della rosa

Maurizio Nocera

Scrittori Umberto Eco e Maurizio Nocera
Umberto Eco e Maurizio Nocera (foto Nocera)

(a proposito della nuova edizione della Casa editrice La nave di Teseo, Milano 2020)

«Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. 

Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, 

quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… 

perché la lettura è un’immortalità all’indietro» Umberto Eco

Il nome della rosa (Gruppo Editoriale Fabbri – Bompiani, Sonzogno, Etas Spa. Prima edizione, Milano, settembre 1980). Quando Eco (Alessandria 1932 – Milano 2016) pubblicò questo suo primo romanzo era già un intellettuale conosciuto in tutto il mondo come filosofo e semiologo, meno come narratore e bibliofilo. Sappiamo che si laureò in filosofia a Torino con una tesi su Tommaso d’Aquino e il Medioevo. La sua biobibliografia è ampia e spazia in diversi campi del sapere (v. Wikipedia). Prima del 1980, egli non si era cimentato col romanzo. Con la poesia sì. Di sue se ne leggano un po’ dappertutto. Le prime che io lessi (Ventiquattro megatoni e Tuppe tuppe colonnello lo feci sull’edizione di Bella Ciao nel volume dell’Istituto Ernesto de Martino, 1962). 

Il 1980 segna uno spartiacque nella vita di scrittore di Umberto Eco. Appunto la pubblicazione de Il nome della rosa. Comprai subito un bel numero di copie del libro (ero titolare di una libreria nel Salento). Lo lessi una prima volta, poi lo rilessi qualche mese dopo.

Quello che colpì subito la mia immaginazione fu il riferimento a Otranto. Infatti, superato il Naturalmente, un manoscritto (pp. 11-15), la Nota di p. 16 e il Prologo di Atso (voce narrante e «già novizio benedettino nel monastero di Melk») (pp. 19-26), il romanzo inizia con il Primo giorno che, come i lettori sanno, si articola con una PrimaDove si arriva ai piedi dell’abbazia e Guglielmo dà prova di grande acume»); una TerzaDove Guglielmo ha una istruttiva conversazione con l’Abate»); una SestaDove Adso ammira il portale della chiesa e Guglielmo ritrova Umbertino da Casale»); un Verso NonaDove Guglielmo ha un dialogo dottissimo con Severino erborista») e un Dopo NonaDove si visita lo scriptorium e si conoscono molti studiosi, copisti e rubricatori nonché un vegliardo cieco che attende l’Anticristo»). Altro ancora. Il primo giorno si apre con i VespriDove si visita il resto dell’abbazia, Guglielmo trae alcune conclusioni sulla morte di Adelmo, si parla col fratello vetraio di vetri per leggere e di fantasmi per chi vuol leggere troppo»). 

Monaci copisti nello scriptorum
Monaci copisti nello scriptorum (vociantiche)

Ecco. Da questo punto inizia – ovviamente ciò vale solo per me che qui scrivo – il romanzo vero e proprio. Appunto la morte del giovane monaco Adelmo. Ma chi era costui? 

Nella narrazione Eco lo introduce con un «Più ci penso e più mi convinco che Adelmo si è ucciso» (p. 98). Adelmo era morto “cadendo” da una finestra dell’Edificio abbaziale, sfracellandosi sulle rocce sottostanti. Eco, attraverso Guglielmo da Baskerville (riferimento al carattere tipografico del 18° secolo, disegnato da John Baskerville, e nel romanzo personaggio investigativo poliziesco vestito col saio francescano) lo tira nuovamente in ballo in una domanda che fa al monaco Bencio da Uppsala, divenuto aiuto bibliotecario dopo la morte di Berengario da Arundel (primo aiuto bibliotecario dell’abbazia e terzo morto del romanzo): 

«Allora, cosa si disse quel giorno che foste a discutere dei marginalia di Adelmo, tu, Berengario, Venanzio, Malachia e Jorge?» (p. 119). Ancora in una memoria dello stesso Bencio: «Poi Jorge pose fine alla discussione allontanandosi. Tutti ce ne andammo per le nostre cose, ma mentre lavoravo vidi che prima Venanzio e poi Adelmo avvicinarono Berengario per chiedergli qualcosa. Vidi da lontano che si schermiva, ma essi durante il giorno tornarono entrambi da lui. E poi quella sera vidi Berengario e Adelmo confabulare nel chiostro, prima di andare al refettorio» (p. 121). 

Planimetria dell'Abbazia
Planimetria dell’Abbazia (docplayer)

Eco tira nuovamente in ballo Adelmo in una domanda che Guglielmo fa a Berengario: 

«Dunque pare che tu sia stato l’ultimo a vedere Adelmo vivo […] “Sì, sì”, disse Berengario rompendo in un pianto dirotto, “io ho visto Adelmo quella sera, ma lo vidi già morto!”. “Come?” interrogò Guglielmo, “ai piedi della scarpata?”. “No, no, lo vidi qui nel cimitero, procedeva tra le tombe, larva tra le larve. Lo incontrai e subito mi accorsi che non avevo di fronte a me un vivo, il suo volto era quello di un cadavere, i suoi occhi guardavano già le pene eterne. […] Oh Signore, con quale voce di tomba mi parlò!”. “E che disse?”. ‘… Sono dannato!’, così mi disse. ‘Tal quale mi vedi hai di fronte a te un reduce dell’inferno e all’inferno bisogna che torni’. Così mi disse. E io gli gridai: ‘Adelmo, vieni davvero dall’inferno? Come sono le pene dell’inferno?’.

E tremavo, […] Ed egli mi disse: ‘Le pene dell’inferno sono infinitamente maggiori di quanto la nostra lingua possa dire. Vedi tu’, disse, ‘questa cappa di sofismi della quale sono stato vestito sino a oggi?.

Questa mi grava e pesa come avessi la maggior torre di Parigi [siamo nel novembre 1327 e la torre Eiffel è tutta ancora da costruire] o la montagna del mondo in su le spalle e mai la potrò più porre giù. E questa pena m’è stata data dalla divina giustizia per la mia vanagloria, per aver creduto il mio corpo un luogo di delizie, e per l’aver supposto di sapere di più degli altri, e per l’essermi dilettato di cose mostruose, che vagheggiate nella mia immaginazione hanno prodotto cose ben più mostruose nell’interno dell’anima mia – e ora con esse dovrò vivere in eterno.

Vedi tu? Il fodero di questa cappa è come fosse tutto bracia e fuoco ardente, ed è il fuoco che arde il mio corpo, e questa pena m’è data per il peccato disonesto della carne, della quale mi viziai, e questo fuoco ora senza sosta mi divampa e mi arde! Porgimi la tua mano, mio bel maestro’, mi disse ancora, ‘affinché il mio incontro ti sia di utile ammaestramento, rendendoti in cambio molti degli ammaestramenti che mi desti, porgimi la tua mano, mio bel maestro!’. E scosse il dito della sua mano che ardeva, e mi cadde sulla mano una piccola goccia del suo sudore e mi parve che mi forasse la mano, che per molti giorni ne portai il segno, solo che lo nascosi a tutti. Poi scomparve tra le tombe, e il mattino dopo seppi che quel corpo, che mi aveva così atterrito, stava già morto ai piedi della rocca”.

Berengario ansimava, e piangeva. Guglielmo gli domandò: “E come mai ti chiamava suo bel maestro? Avevate la stessa età. Gli avevi forse insegnato qualcosa?”. Berengario nascose il capo tirandosi il cappuccio sul volto, e cadde in ginocchio abbracciando le gambe di Guglielmo. “Non so, non so perché mi chiamasse così, io non gli ho insegnato nulla!”, e scoppiò in singhiozzi. […] Dimmi piuttosto, come hai visto il suo volto pallido se era notte fonda, come ha potuto bruciarti la mano se era notte di pioggia e di grandine e di nevischio, cosa facevi nel cimitero? Avanti”, e lo scosse con brutalità per le spalle, “dimmi almeno questo!”

Berengario tremava in tutte le sue membra: “Non so cosa facessi nel cimitero, non ricordo. Non so perché ho visto il suo volto, forse avevo una luce, no… lui aveva una luce, portava un lume, forse ho visto il suo volto alla luce della fiamma”. “Come poteva portare una luce se pioveva e nevicava?”. “Era dopo compieta, subito dopo compieta, non nevicava ancora, ha cominciato dopo… Ricordo che cominciavano a scendere le prime raffiche mentre fuggivo verso il dormitorio.

Fuggivo verso il dormitorio, in direzione opposta a quella nella quale andava il fantasma… E poi non so più nulla, vi prego, non interrogatemi più, se non volete confessarmi. “Va bene”, disse Guglielmo, “ora vai, vai nel coro” […] Berengario scomparve di corsa. E Guglielmo si sfregò le mani […] “Bene”, disse, “ora molte cose diventano chiare” […] “chiare ora che abbiamo anche il fantasma di Adelmo”. […] “Non so se Adelmo abbia detto davvero quelle cose o se Berengario le abbia udite perché aveva bisogno di udirle. È un fatto che questa storia conferma una serie di mie supposizioni.

Per esempio: Adelmo è morto suicida, e la storia di Berengario ci dice che, prima di morire, girava in preda a una grande eccitazione e rimorso per qualcosa che aveva commesso”.» (pp. 122-125). 

Questa citazione più altre su Adelmo continuano ancora, ma quanto riportato sopra mi sembra sufficiente per capire che nella narrazione Eco dà una certa importanza al ruolo del monaco Adelmo. Ancora una messa in campo del suo ruolo nella narrazione la troviamo in una conversazione di frate Guglielmo col monaco Aymaro da Alessandria. Questa: 

«”Nell’abbazia avvengono cose poco convenienti?” domandò distrattamente Guglielmo […] “Anche il monaco è un uomo”, sentenziò Aymaro. Poi aggiunse: “Ma qui ci sono meno uomini che altrove […]”. “Molto interessante”, disse Guglielmo. “E queste sono opinioni vostre o di molti che pensano come voi?”. ” Di molti, di molti. Di molti che adesso si dolgono per la sventura del povero Adelmo, ma se nel precipizio fosse caduto qualcun altro, che gira per la biblioteca più di quanto dovrebbe, non sarebbero stati scontenti”» (p. 132).

Citazioni su Adelmo ce ne sono ancora delle altre, ma ne riporto qui un’altra perché abbastanza pertinente col discorso che qui voglio fare. Nel capitolo del Quarto giorno/ Laudi (Dove Guglielmo e Severino esaminano il cadavere di Berengario, scoprono che ha la lingua nera, cosa singolare per un annegato. Poi discutono di veleni dolorosissimi e di un furto remoto), c’è scritto: 

«Severino ora sfregava leggermente le dita del morto, ma il colore bruno non scompariva. Notai [è sempre Atso che narra] che si era messo un paio di guanti, che probabilmente usava quando maneggiava sostanze velenose. Annusava, ma senza trarne alcuna sensazione. “Potrei citarti molte sostanze vegetali (e anche minerali) che provocano tracce di questo tipo. Alcune letali, altre no. I miniatori hanno talora le dita sporche di polvere d’oro…”. “Adelmo faceva il miniatore” disse Guglielmo» (p. 265).

E questo il passo de Il nome della rosa che interessa a chi qui scrive. Adelmo faceva il miniatore. Ma dove avevo appreso l’arte della miniatura? Eco lo indica come il monaco Adelmo miniatore di Otranto. Ecco Otranto che, nell’alto Medioevo, ha un solo luogo dove potevano esercitare i miniatori. Si tratta dell’Abbazia di San Nicola di Casole. È in essa che si sono prodotti centinaia e centinaia di codici medievali, oggi sparsi nelle più prestigiose biblioteche del mondo. Fu il cardinale Bessarione che, tra gli anni 1462 e 1470, portò via dall’Abbazia hidruntina numerosi manoscritti, alcuni lasciandoli nella Vaticana, altri in altre città, moltissimi (si parla di numerose casse di volumi della sua intera e vastissima biblioteca) donati alla Repubblica di Venezia.

Ruderi dell'Abbazia S. Nicola di Casole a Otranto
Ruderi dell’Abbazia S. Nicola di Casole a Otranto (foto comunediotranto)

Oggi solo nell’Ambrosiana di Milano esistono ben 57 codici proveniente dallo scriptorium di San Nicola di Casole.   Si sa che uno dei manoscritti più importanti dell’Abbazia di San Nicola di Casole è il manoscritto cosiddetto Typicon Casulano (Codex Taurinensis C III 17, miracolosamente scampato al sacco Ottomano del 1480, comprato, – non si conosce il venditore – da tale Zaccaria Mega, e ancora, non conoscendo il percorso fatto dal manoscritto, finito nella Biblioteca Reale – ora Nazionale – dell’Ateneo di Torino nel 1508. In esso c’è la data della sua compilazione (1173, l’estensore l’abate Nicola), anno vicino alla realizzazione (1163-1165) del mosaico pavimentale della basilica-cattedrale di Otranto, sicuramente il più esteso d’Europa (ca. 800 mq). Ma, soprattutto, in esso c’è descritta la Hypotyposis del cenobio casulano, cioè la descrizione della vita quotidiana dei monaci all’interno dell’Abbazia.

A quanto se ne sa si tratta dell’unico codice esistente al mondo in cui viene descritta dettagliatamente la vita monastica dei frati, sul loro modo di mangiare e bere, di dormire e di pregare, di lavorare e di fare compieta. Si dice come vestivano (ampia tunica di colore nero con cappuccio dello stesso colore), i tempi della preghiera e quelli dello studio (letteratura greca e latina), il ruolo dell’ecclesiarca, quello del bibliofilace, quello del protocalligrafo, quello del cellario e, su tutti, quello dell’abate, l’igumeno, il cui governo dell’abbazia era sovrano. Sostanzialmente si tratta della stessa vita dei frati così ben descritta da Umberto Eco ne Il nome della rosa

S. Nicola di Casole Ruderi
S. Nicola di Casole Ruderi (fondazioneterradotranto)

Nella mia frequentazione col presidente Eco (egli fu per 25 anni, gli stessi da me frequentati, presidente dell’Aldu Club di Milano, associazione internazionale di bibliofilia), un giorno mi permisi di chiedergli: «Presidente, io sono salentino, quindi Otranto sta nel mio cuore. Ne Il nome della rosa, che ho letto e continuo a leggere, lei dà un certo ruolo al monaco miniatore Adelmo di Otranto. Ha forse conosciuto la storia dell’Abbazia di San Nicola di Casole? Ha letto il Typykon Casulano?».

In quel momento, Eco stava scrivendo. Alzò gli occhi. Mi guardò e mi sorrise rispondendo «Ah!, capisco a cosa alludi». La conversazione si fermò lì, ma col segno del capo mi fece capire che conosceva bene non solo il Typikon Casulano ma che aveva avuto modo di vedere anche i ruderi di quell’Abbazia. 

Gli scrittori Umberto Eco e Maurizio Nocera (foto Nocera)
Gli scrittori Umberto Eco e Maurizio Nocera

Ecco. Da quel sorriso intuii che egli non solo l’aveva letto, perché libro conservato nell’università da lui frequentata per lungo tempo, ma che l’aveva letto, riletto e ben studiato. Tant’è che non pochi eventi de Il nome della rosa, noi li leggiamo anche nel Typico del monastero di Casole d’Otranto, cioè il Taurinensis C III 17 – A. 1173, membranaceo. 

Siamo arrivati così alla pubblicazione della seconda edizione de Il nome della rosa da Bompiani come «Prima edizione riveduta e corretta nel gennaio 2012», cioè quattro anni prima della morte del suo famoso autore. A promuoverla fu il suo grande amico di origini veneziane Mario Andeose, oggi eccellente tutor della casa editrice La nave di Teseo (ma egli è stato pure un deus ex machina di non poche case editrice italiane – Mondadori, Gruppo Fabbri comprendente Bompiani, Sonzogno, Etas, RCS libri – nonché collaboratore de il «Sole 24 Ore»), sul cui «Domenicale» del 17 maggio 2020, recensiva l’ultima edizione La nave di Teseo col titolo Il nome disegnato della rosa annotata. L’incipit dell’articolo dice che:

«La nuova edizione de Il nome della rosa, nell’imminente quarantesimo anniversario della prima, esce arricchita da un’appendice con disegni e annotazioni manoscritte dell’autore, ulteriore testimonianza, accanto alle Postille, della genesi dell’opera».

Nella seconda (nuova prima) edizione del romanzo, Eco aggiunte un Ultimo Folio (Postille a Il nome della rosa e una Nota alla nuova edizione). Le Postille (pp. 577-615), egli le aveva pubblicate già sul n. 49 (giugno 1983) della rivista «Alfabeta», diretta dalla milanese-hidruntina Maria Corti, mentre Bompiani – leggi Andreose – lo pubblicherà come opuscolo “I Grandi Tascabili Bompiani” nel marzo 1984. In esse spiega il «titolo e il senso» del libro, il «raccontare il processo», la «maschera», il «romanzo come fatto cosmologico», il «chi parla», la «preterizione», il «respiro», il «costruire il lettore», la «metafisica poliziesca», il «divertimento», il «post-moderno, l’ironia, il piacevole», il «romanzo storico», il «per finire». La Nota alla nuova edizione (pp. 617-619) è un testo scritto nel 2012 in cui Eco scrive che:

«In questa edizione riveduta e corretta del mio romanzo di trent’anni fa le varie e sparse modificazioni che ho apportato al testo originario non ne mutano né la struttura narrativa né lo stile – che fatalmente deve essere quello di un cronista medievale. […] Per il resto, come ho detto, sono variazioni fatte non tanto a vantaggio del lettore bensì a vantaggio mio di ri-lettore, per farmi sentire stilisticamente più a mio agio là dove il discorso mi pareva un poco ansimante».

Dedica e firma Umberto Eco
Dedica e firma Umberto Eco

Come lo stesso Eco scrive, è vero che si tratta dello stesso romanzo ma, secondo me che l’ho riletto, c’è un qualcosa in più, che te lo rende più piacevole rispetto all’edizione del 1980. Inoltre c’è ancora un motivo in più. Ce lo fa sapere Mario Andreose nel suo libro Uomini e libri (Bompiani 2015) dove, nel capitolo Eco e Il nome della rosa scrive:

«Tra tutte le ragioni che possono avere spinto l’autore de Il nome della rosa (1980) a licenziarne, trent’anni dopo, un’edizione “riveduta e corretta”, credo non debbano escludersi gli intensi rapporti da sempre intrattenuti con i suoi traduttori. Un indizio ce lo fornisce egli stesso, nella Nota in calce al volume, nel riferirci le considerazioni del suo editore americano, la leggendaria Helen Wolff, riguardo all’impatto dei testi in latino presso i lettori del Nuovo Mondo» (p. 235).

Ed ecco infine l’ultima edizione, datata come la “prima” dalla Casa editrice milanese La nave di Teseo 2020 «su licenza eredi Eco». Frontespizio: Umberto Eco. Il nome della rosa. Romanzo. Nuova edizione con i disegni e gli appunti preparatori dell’autore. Bellissima la grafica editoriale e stupendi gli appunti e i disegni (fra cui un interessantissimo SATOR/AREPO). Tra i monaci che Eco disegna non poteva mancare Adelmo miniatore di Otranto, che è il primo tra tutti i profili dei monaci. Ovviamente chi ha proposto e voluto più di ogni altro questa bellissima edizione altro non è che Mario Andreose, come ho già detto intimo e fraterno amico di Eco, che scrive:

«I disegni e le annotazioni manoscritte del futuro autore de Il nome della rosa testimoniano il minuzioso lavoro preparatorio prima della stesura del romanzo. A conferma di quanto affermato da Eco nelle Postille (1983): “Per raccontare bisogna anzitutto costruirsi un mondo il più possibile ammobiliato sino agli ultimi particolari”. E che cosa ci racconta o, meglio, ci anticipa di questo mondo il materiale visivo qui riprodotto? Innanzi tutto l’identità, la fisionomia dei principali protagonisti, con il tipico tratto veloce, arguto dell’autore, che ne giustificherà l’invenzione “per sapere quali parole mettere loro in bocca”. Poi i profili e piante di abbazie, castelli, labirinti, in una piena immersione nella cultura anche materiale del Medioevo» (v. Mario Andreose, prima aletta della sovra copertina). 

Disegni di U. Eco. Monaci de Il nome della rosa
Disegni di U. Eco. Monaci de Il nome della rosa (doppiozero)

Infine, c’è da aggiungere che dei materiali di base del manoscritto del romanzo Il nome della rosa si era interessato anche Matteo Motolese il quale, nel volume Scritti a mano. Otto storie di capolavori italiani da Boccaccio a Eco (v. I classici del «Corriere della Sera», 2018), fa un’analisi storico-linguistica del romanzo (pp. 251-290). Ma questa è un’altra storia.

Maurizio Nocera

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