IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Il peso delle parole in un mondo di comunicazione istantanea, stiamo perdendo il valore del silenzio?

Parole parole parole

di Pompeo Maritati

Viviamo nell’epoca della parola rapida, dell’opinione pronta, del messaggio vocale che rimbalza da un dispositivo all’altro nel giro di pochi secondi, in un tempo dove ogni pensiero, anche il più effimero, può diventare un tweet, una storia, una diretta. Mai come oggi le parole si sono fatte leggere, udibili, condivisibili in modo così facile, immediato, globale. Ma proprio mentre ci muoviamo vorticosamente all’interno di questa corrente inarrestabile di comunicazione istantanea, forse dovremmo fermarci a riflettere: le parole, in questa loro nuova onnipresenza, non stanno forse perdendo peso?

E nel rincorrere costantemente ciò che viene detto, scritto, postato, non stiamo forse dimenticando il valore del silenzio, quella dimensione interiore e sospesa dove nascono i pensieri più veri, i sentimenti più profondi, le scelte più autentiche? La comunicazione oggi è diventata un flusso continuo, quasi una necessità fisiologica di esprimere, condividere, testimoniare. Ogni istante della nostra vita sembra dover essere narrato, reso pubblico, tradotto in parola. Eppure, proprio questa inflazione comunicativa ha un prezzo: le parole, per quanto numerose, sembrano diventare via via più vuote, più leggere, più superficiali.

Nel passato, dire significava assumersi la responsabilità di ciò che si affermava. Le parole erano rare, meditate, spesso scritte a mano, e per questo pesavano. Oggi invece ci siamo assuefatti all’idea che tutto possa essere espresso senza filtro, che ogni emozione meriti un post, ogni indignazione un commento, ogni pensiero un giudizio. Ma così facendo, paradossalmente, parliamo tanto e comunichiamo poco. Le parole si moltiplicano e, nello stesso tempo, si svuotano del loro significato profondo. Il silenzio, in questo contesto, sembra diventato un’assenza, una lacuna, quasi un’anomalia. Eppure il silenzio non è affatto vuoto: è spazio, è respiro, è pausa che consente alla parola di germogliare nel terreno del senso. Il silenzio è l’intervallo che permette all’altro di essere ascoltato, è la soglia dell’ascolto autentico.

Ma in una società dove il valore si misura in termini di visibilità, il silenzio è spesso interpretato come debolezza, passività, disinteresse. Viviamo in un tempo in cui chi tace sembra soccombere, e chi urla di più ha ragione. I social network sono l’arena perfetta per questa lotta tra parole che si scontrano più che incontrarsi. In queste piattaforme, la rapidità vince sulla riflessione, la reazione sul ragionamento, l’emotività sull’argomentazione. Eppure, in questa corsa al dire, ci sfugge il fatto che non tutto deve essere detto, che non ogni parola è necessaria, che spesso il vero coraggio sta nel trattenersi, nel ponderare, nel tacere. Pensiamo per un attimo al modo in cui ci relazioniamo con l’altro. Quante volte ci capita di parlare più per riempire un vuoto che per autentico desiderio di comunicare? Quante volte rispondiamo senza ascoltare veramente? Quante volte pronunciamo parole che, con un po’ di silenzio in più, avremmo saputo evitare o modulare in modo più rispettoso e profondo?

Le parole sono ponti, ma possono essere anche muri. Sono carezze, ma possono diventare ferite. In un mondo dove tutto si dice, tutto si espone, tutto si commenta, il rischio è che si perda la capacità di rispettare il mistero, la complessità, la profondità delle cose non dette. Il silenzio non è assenza di comunicazione, ma un’altra forma, spesso più sottile e intensa di relazione. Ci sono silenzi che parlano più di mille parole: il silenzio di uno sguardo complice, quello di una pausa carica di significato, quello di una presenza muta ma partecipe. Ma per cogliere il senso del silenzio bisogna saperlo abitare, bisogna accettarne l’ambiguità, il potenziale. In una società come la nostra, però, il silenzio fa paura. Fa paura perché ci mette di fronte a noi stessi, ci priva dell’alibi della distrazione continua, ci obbliga ad ascoltare ciò che portiamo dentro.

Il rumore costante della comunicazione digitale è anche un modo per non sentirci, per non pensare, per non guardarci veramente. Ed è per questo che dovremmo reimparare a tacere, o almeno a fare spazio al silenzio come condizione necessaria del pensiero, della creatività, della cura. A scuola non si insegna più a tacere. Si parla di educazione alla comunicazione, di public speaking, di assertività. Tutto giusto, per carità. Ma chi insegna ai giovani l’importanza del silenzio riflessivo, della sospensione, dell’attesa? Chi insegna che un pensiero ha bisogno di tempo per maturare, che un sentimento ha bisogno di spazio per fiorire, che non tutto può essere detto subito e sempre? Il silenzio è anche una forma di rispetto: rispetto per l’altro, per la sua diversità, per la sua sofferenza.

In molte culture antiche, il silenzio era parte integrante della comunicazione. I saggi parlavano poco, e ogni parola aveva il sapore della verità. Oggi i saggi sono sopraffatti dal rumore di chi parla senza sapere, giudica senza conoscere, interviene senza aver ascoltato. La tecnologia, con la sua straordinaria capacità di connessione, ha però anche una responsabilità etica. Ogni strumento comunicativo dovrebbe essere accompagnato da una riflessione sull’uso che ne facciamo. La comunicazione istantanea ci ha regalato la possibilità di abbattere le distanze, di mantenere vivi legami, di esprimere la nostra voce. Ma ci ha anche portati a dimenticare che ogni parola ha un peso, un effetto, una conseguenza. E che la vera libertà di parola si accompagna sempre alla responsabilità del silenzio. Non tutto ciò che pensiamo deve essere espresso, non ogni emozione va riversata nell’arena pubblica. Talvolta il dolore ha bisogno di raccoglimento, la rabbia di decompressione, l’amore di pudore.

Recuperare il valore del silenzio significa allora recuperare un’etica della parola. Significa tornare a dire solo ciò che vale, solo ciò che costruisce, solo ciò che unisce. Significa riscoprire la bellezza della pausa, della reticenza, della discrezione. Il silenzio può essere anche resistenza. In un tempo dove la parola è spesso strumento di manipolazione, propaganda, marketing, saper tacere può essere un gesto di libertà. Tacere quando tutti gridano, ascoltare quando tutti parlano, riflettere quando tutti reagiscono è un atto rivoluzionario. Il silenzio ci invita a rallentare, a discernere, a dare spazio all’interiorità. Nelle relazioni interpersonali, il silenzio è spesso più eloquente delle dichiarazioni. Una presenza silenziosa accanto a chi soffre vale più di mille frasi fatte. Un abbraccio silenzioso dice più di tante rassicurazioni.

Ma perché il silenzio sia comunicazione, occorre una consapevolezza condivisa, una cultura che lo riconosca come parte integrante del dialogo. È urgente allora ripensare la nostra idea di comunicazione. Non per negare la parola, ma per restituirle il suo peso. Insegnare a comunicare dovrebbe significare anche insegnare a tacere, a riconoscere quando è il momento di parlare e quando invece è il momento di ascoltare. E l’ascolto vero nasce solo nel silenzio, non nel rumore delle notifiche o nel frastuono delle opinioni. In questa prospettiva, anche i media hanno una grande responsabilità. Il giornalismo, ad esempio, dovrebbe recuperare la dimensione della profondità, del tempo lento, della verifica. Non tutto va detto subito, non tutto va semplificato, non tutto va gridato. Anche la narrazione ha bisogno di silenzi, di pause, di sfumature. E così anche la politica, che oggi appare spesso come una gara di slogan, dovrebbe riscoprire il silenzio del pensiero, della progettualità, della visione.

In una democrazia matura, non vince chi parla di più, ma chi sa ascoltare meglio. Il silenzio non è il contrario della parola, ma la sua condizione. Come in musica, dove le pause sono parte della melodia, così anche nella vita e nella comunicazione, il silenzio è ciò che dà senso al dire. Un mondo senza silenzio è un mondo stonato, dove tutto si sovrappone e nulla si distingue. Non si tratta di tornare a un mutismo nostalgico, né di rinunciare ai meravigliosi strumenti che la tecnologia ci offre. Si tratta piuttosto di riappropriarci della nostra voce autentica, quella che nasce dal silenzio interiore, dal rispetto dell’altro, dalla profondità dell’ascolto. Forse la vera sfida del nostro tempo non è tanto quella di dire di più, ma di dire meglio. E per dire meglio, bisogna imparare a tacere. Il silenzio è il grembo dove le parole ritrovano il loro valore. È il respiro del pensiero, il custode dell’anima, il ponte invisibile tra le persone. In un mondo di comunicazione istantanea, riscoprire il silenzio è un atto di umanità, una scelta etica, una via per tornare a comunicare davvero. Ed è in quel silenzio che, forse, possiamo ritrovare noi stessi.


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