di STEFANO SALIERNI
Ci sono oggetti che sfuggono al giudizio del presente, custodi silenziosi di epoche e identità lontane. Tra questi, lo specchio — elegante e impietoso — diventa emblema di un secolo che della bellezza fece religione e condanna. Il Settecento, con i suoi busti rigidi, i ventagli che parlavano più delle labbra, le parrucche come trofei di classe, si riflette in uno specchio ora incrinato, incapace di restituire l’immagine intatta di quelle dame che furono protagoniste di un’eleganza tanto effimera quanto codificata.
“Il Tempo nelle Tasche” è un invito a questi viaggi brevi ma intensi nell’anima della storia, dove ogni passo è un ritorno e ogni sosta è un sussurro del passato. Non si tratta di archeologia dell’anima, ma di poesia del ricordo: una tasca cucita nel panciotto della memoria dove conservare minuscole reliquie del tempo, un nastrino, una ciocca incipriata, un biglietto profumato con note di gelsomino e ambra. In questo piccolo museo portatile si custodiscono le tracce delle dame del Settecento, non le loro biografie, ma le loro emozioni, i segreti non detti tra le pagine del diario, il tremolio delle mani dietro una tazza di porcellana.
Le dame del Settecento non furono solo grazia e leziosità, ma creature complesse, ingabbiate in abiti che erano prigioni dorate. Nei salotti ovattati e nei giardini geometrici, dietro sorrisi controllati e passi misurati, si consumava la tensione tra l’apparire e l’essere. Lo specchio, complice e traditore, restituiva una bellezza conforme ai canoni, ma non raccontava l’ansia del tempo che fugge, né le rughe che il cipria celava. Quelle dame portavano il tempo nelle tasche invisibili della loro esistenza, lo dosavano tra i rituali della toilette e le lettere d’amore scritte con inchiostro sbiadito e lacrime nascoste.
Il Settecento è spesso letto attraverso le sue esagerazioni: l’oro, le acconciature monumentali, le feste interminabili a Versailles, ma dietro questa patina c’era un’umanità che sapeva quanto la bellezza fosse una moneta a scadenza e il prestigio un palcoscenico instabile. Ognuna di quelle donne era un racconto inciso sul ventaglio del tempo, un viaggio nella contraddizione tra libertà e controllo. Molte scrissero, pensarono, amarono con intensità autentica, pur restando incatenate a una forma che le voleva eterne decorazioni di un’epoca.
“Viaggi brevi nell’anima della Storia” significa allora sostare in queste vite marginali solo all’apparenza, penetrarne i sussurri, leggere tra le pieghe della crinolina il dissenso muto, l’orgoglio, il sogno di qualcosa di diverso. Quelle dame, educate a curvare il polso e non l’opinione, seppero talvolta parlare attraverso il silenzio: con l’eleganza della sottrazione, con la forza segreta di chi cela la propria ribellione dietro un sorriso impeccabile.
Oggi, in un tempo che accelera, che consuma le immagini e dimentica i dettagli, tornare a quelle stanze barocche significa rallentare il passo. Significa infilare una mano nella tasca della nostra modernità e chiedersi cosa ci resta del tempo. Cosa abbiamo conservato della grazia, della dignità dei gesti, del rispetto per la lentezza e per l’intimità del pensiero. Lo specchio incrinato non riflette più le dame, ma ci interroga. E se quel riflesso distorto fossimo noi? Se l’anima del Settecento, con tutta la sua vanità e la sua fragilità, avesse qualcosa da insegnarci?
“Il Tempo nelle Tasche” è allora un gesto, una scelta: raccogliere frammenti di un’epoca e farne memoria viva, non nostalgia. Perché quelle dame, con i loro silenzi e i loro salotti, erano forse più consapevoli di noi del potere e della fine del tempo. Lo portavano con sé, nelle tasche segrete cucite tra un corsetto e un battito d’ali, consapevoli che anche la vanità può essere un modo per resistere all’oblio. E in quel gesto antico e nobile di aprire un ventaglio, forse si nasconde ancora la chiave di un’eleganza dell’anima che oggi, troppo spesso, abbiamo smarrito.