“Il Tempo nelle Tasche” Viaggi brevi nell’anima della Storia: L’orologio fermo a Sarajevo

di Bettina Sarrilli
Era il 28 giugno 1914. Le lancette si fermarono alle 10:45. Quel giorno, un orologio da taschino, trovato a pochi passi dall’attentato che avrebbe cambiato il destino del Novecento, smise di battere. Non sappiamo se si ruppe nella concitazione, se fu colpito da una scheggia, o se fu solo un guasto. Ma quell’orologio, fermo per sempre sull’ora in cui vennero esplosi i colpi contro Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia, è oggi custodito in un piccolo museo bosniaco come una reliquia del tempo spezzato.
L’orologio è piccolo, inciso in argento, con una leggera ammaccatura sul retro. Nulla di appariscente. Nulla che suggerisca la tragedia. Eppure, in quel gesto silenzioso del tempo che si arresta, si annida il simbolo stesso della fine di un’epoca: l’Ottocento, con le sue certezze, il suo aplomb imperiale, il suo crepuscolo borghese, è morto esattamente lì.
Ma cosa significa un orologio fermo?
Forse è il contrario della morte. La morte è dissolversi nel flusso. L’orologio fermo, invece, è il tentativo disperato di trattenere il tempo, di renderlo testimonianza, cicatrice, memoria. È il gesto dell’anima che rifiuta l’oblio. Quel piccolo oggetto inerte racconta più di mille volumi: dice che in un istante tutto può cambiare, che la Storia ha un cuore irregolare e che il tempo non scorre sempre in avanti. Talvolta inciampa. Talvolta si rompe.
Pensiamoci: quante volte, nella nostra vita, avremmo voluto fermare un orologio? All’istante di un bacio, all’istante di una perdita, al passaggio silenzioso di una felicità che non tornerà. Fermare il tempo non per possederlo, ma per testimoniarlo.
Nel mondo liquido in cui viviamo, tutto scorre e si consuma: notizie, immagini, emozioni. Un orologio fermo, invece, ci costringe a guardare. Ci chiede di non dimenticare. È una resistenza discreta all’amnesia collettiva.
Il tempo che portiamo in tasca – reale o metaforico – è sempre personale. Ognuno ha il proprio orologio fermo. Un punto preciso nel calendario della memoria. Quel giorno in cui ci siamo sentiti diversi, vecchi, perduti, o, forse, definitivamente vivi.
E allora, cosa portiamo oggi nelle nostre tasche?
Uno smartphone che vibra? Un portachiavi anodino? O forse niente? Sarebbe bello, ogni tanto, tornare a portare con noi un oggetto che ha un cuore, una piccola reliquia della nostra storia, anche se rotta. Perché gli oggetti che si rompono parlano. Gli oggetti che funzionano perfettamente, invece, raramente hanno qualcosa da dire.
L’orologio di Sarajevo non ci indica più l’ora. Ma ci indica la memoria. E se chiudiamo gli occhi, forse sentiamo ancora quel ticchettio, non del meccanismo, ma della Storia, che bussa piano al nostro petto. Ci chiede silenzio, ci chiede rispetto. E, a volte, anche un po’ di commozione.