IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Intervista a Simone Ollanu: Archeologia del futuro. Identità, pietra e visione nel progetto NurTime

Nurago sardo

di Simona Mazza

In Sardegna, terra di pietre antiche e silenzi carichi di memoria, prende forma un progetto visionario che intreccia saperi arcaici e strumenti contemporanei: NurTime. Un’iniziativa che affonda le radici nella materia primigenia dell’isola – la pietra – per dare nuova voce a una civiltà millenaria e, al tempo stesso, rinnovare il dialogo tra spiritualità, identità e paesaggio.

In occasione della mostra “Santo Antioco – Il Santo venuto dal mare”, ospitata nelle storiche Corsie Sistine del Complesso Monumentale di Santo Spirito in Sassia a Roma, abbiamo incontrato Simone Ollanu, co-ideatore del progetto e presidente dell’Associazione Culturale Perdas Novas, fondata nel 2020 insieme al fratello Claudio Ollanu – anch’egli ideatore – e all’architetta Beatrice Auguadro. Con lui abbiamo approfondito il senso profondo di un’impresa archeosperimentale che non si limita a ricostruire un monumento, ma mira a riattivare un senso di appartenenza, aprendo una via possibile verso una rinascita culturale condivisa. Una conversazione che si muove tra pietre, visioni e nuove narrazioni mediterranee

Il progetto NurTime affonda le sue radici nella materia primigenia della Sardegna: la pietra. In che modo questa scelta diventa simbolica, filosofica, oltre che costruttiva?

La pietra, in Sardegna, non è solo un materiale: ciascuna è uno scrigno di memoria, non solo geologica, ma anche culturale, testimonianza di una continuità profonda tra il passato e il presente. I nuraghi rappresentano la più alta espressione di questa relazione: architetture che sfidano il tempo, fatte della stessa sostanza della nostra terra.
Scegliere di ricostruire un nuraghe oggi significa riaffermare questa connessione, riportando in vita un sapere costruttivo ancestrale, ma anche l’idea che la nostra identità non è qualcosa di immobile: è un processo vivo, che possiamo riabitare e reinterpretare.

La ricostruzione di un nuraghe trilobato con tecniche tradizionali richiama l’idea di un’archeologia “vivente”. In che misura questa operazione riesce a coniugare ricerca scientifica, esperienza sensoriale e restituzione identitaria?

La nostra è un’impresa archeosperimentale: non ci limitiamo a studiare il passato, ma lo rendiamo esperienza diretta. Ricostruire un nuraghe con gli stessi strumenti e materiali degli antichi significa riscoprire il loro sapere empirico, capire come si muovevano le pietre, quali equilibri architettonici garantivano stabilità. Questo processo è anche un’esperienza sensoriale unica: il suono della pietra che si incastra, il peso degli strumenti, il ritmo del lavoro collettivo. È in questo fare che si ricompone l’identità, perché abitare uno spazio è il primo passo per riconoscersi in esso.

La mostra alle Corsie Sistine intreccia il sacro con l’antico, il culto cristiano con le radici precristiane. Come si innesta NurTime in questo dialogo tra spiritualità e memoria arcaica?

La Sardegna è una terra in cui il sacro non ha mai smesso di trasformarsi, mantenendo però una coerenza profonda. I nuraghi erano luoghi di culto, di osservazione astronomica, di incontro tra uomo e cosmo. Questo senso del sacro si è poi stratificato nelle chiese, nei culti dei santi, nelle feste che ancora oggi conservano echi di riti ancestrali. NurTime si inserisce in questo dialogo senza forzature, perché racconta una continuità: il bisogno umano di radicarsi in un luogo e di dargli significato.

Nel vostro progetto convivono tradizione e innovazione: cosa significa, oggi, rileggere l’antico attraverso strumenti come il metaverso, i gemelli digitali o la realtà immersiva? È possibile mantenere intatto lo spirito originario attraverso queste lenti tecnologiche?

La tecnologia non è un ostacolo alla tradizione, ma un mezzo per amplificarla. I gemelli digitali e il metaverso ci permettono di esplorare i nuraghi in modi impensabili: possiamo camminarci dentro prima ancora che sia costruito, studiarne ogni pietra, rendere accessibile l’esperienza a chi è lontano. Ma la chiave è sempre il rispetto della sua anima. Se usata con consapevolezza, la tecnologia non sostituisce la materia, ma la esalta, rendendola più comprensibile, più condivisa, più viva.

“Tempo dei Nuraghi e tempo dell’uomo contemporaneo”: può esistere una convergenza? O meglio, cosa ci insegnano i nuraghi – statici ma eterni – sul nostro tempo, spesso effimero e fugace?

I nuraghi ci parlano di durata, di resilienza, di una civiltà che costruiva per il futuro, non per il consumo immediato. Oggi siamo abituati a un tempo veloce, ma forse proprio per questo sentiamo il bisogno di riscoprire strutture che sfidano i millenni. Costruire un nuraghe oggi è un atto di resistenza culturale: significa ricordare che esistono valori che meritano di essere tramandati, che il nostro orizzonte deve andare oltre il presente.

La Sardegna è spesso percepita come un altrove mitico e marginale. NurTime sembra voler ribaltare questo paradigma. È corretto dire che state costruendo un nuovo centro, una nuova narrazione mediterranea?

Assolutamente sì. Per troppo tempo la Sardegna è stata raccontata come periferia, come luogo sospeso tra leggenda e isolamento. Ma la verità è che i nuraghi stessi dimostrano il contrario: la civiltà nuragica era connessa con il Mediterraneo, scambiava idee, tecnologie, visioni. NurTime vuole restituire alla Sardegna questo ruolo centrale, farla diventare un laboratorio di cultura e innovazione, un punto di riferimento per chi cerca un nuovo equilibrio tra radici e futuro.

La civiltà nuragica è ancora avvolta in molti misteri. Il vostro progetto può essere considerato una forma di “indagine poetica” oltre che archeologica?

Sì, perché la storia non è solo un insieme di dati e misurazioni, ma anche un racconto che dobbiamo saper ascoltare. Noi vogliamo avvicinarci ai nuraghi con lo sguardo di chi cerca risposte, ma anche di chi accetta le domande irrisolte. In questo senso, NurTime è anche una forma di poesia materiale: mettere una pietra sopra l’altra è come scrivere un verso antico che torna a parlare.

Quanto conta il coinvolgimento della comunità locale, non solo come pubblico, ma come co-autrice del progetto? È possibile pensare a una nuova forma di “cantiere culturale partecipato”?

Non solo è possibile, ma è necessario. NurTime non è un progetto calato dall’alto: è un’operazione collettiva, in cui la comunità è protagonista. Vogliamo che le persone partecipino attivamente, che imparino le tecniche costruttive, che raccontino la loro visione del passato e del futuro. Solo così un cantiere può diventare davvero culturale: quando non costruisce solo muri, ma relazioni, consapevolezze, nuovi orizzonti.

Nel vostro manifesto ideale si parla anche di emancipazione collettiva. Come può un’operazione artistico-archeologica diventare uno strumento di riscatto sociale, economico e umano?

La cultura non è un lusso, è un motore di sviluppo. Il nostro progetto può creare lavoro, attirare turismo di qualità, generare nuove competenze. Ma il riscatto non è solo economico: è anche identitario. Quando una comunità riscopre il valore delle proprie origini, acquista forza, visione, dignità. Questo è il vero cambiamento: tornare a essere protagonisti della propria storia.

Lei ha parlato di NurTime come di un’occasione per “raccontare di nuovo, ma anche in altro modo”. Quale racconto non è ancora stato ascoltato abbastanza in Italia e nel Mediterraneo?

Quello di una Sardegna viva, innovativa, consapevole del proprio passato ma capace di guardare avanti. Troppo spesso la nostra terra è raccontata solo attraverso stereotipi o silenzi. NurTime vuole dare voce a una storia che non è nostalgia, ma spinta verso l’avvenire.

In che modo il progetto NurTime dialoga con la mostra “Santo Antioco – Il Santo venuto dal mare”?

La mostra esplora il viaggio, il dialogo tra culture, il sacro che si trasforma. NurTime parte dallo stesso presupposto: la Sardegna non è un’isola chiusa, ma un crocevia. La nostra storia è fatta di incontri, di contaminazioni, di continue rinascite. E questo è il messaggio che vogliamo portare avanti.

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