La banale crudeltà del carcere di Nino Mandalà

Il carcere imprigiona lo spirito oltre che il fisico. Esso è ancora più crudele quando il fine pena è mai e non offre alcuna prospettiva di rinascita. Ho conosciuto ergastolani, ho conosciuto il volto terreo di chi ha incassato l’ergastolo e deve dire addio alla vita. I loro progetti, le loro speranze, il loro futuro, vengono cancellati e i loro diritti fondamentali negati. Ho conosciuto la disperata rassegnazione di chi rinuncia a lottare, di chi vive la propria esistenza come una finzione di vita, monca, innaturale, senza connessioni con il resto del mondo, lo scoramento di quanti, dopo tanti anni, sono gli avanzi dolenti e confusi dell’antico contesto, ossessionati dal rumore dei loro passi sempre uguali, assediati dai demoni che si avventano sulle loro coscienze e li conducono all’appuntamento con il pensiero onirico latente, l’appuntamento con il suicidio.
Vivono la vendetta dello Stato, una vendetta inutile. E’ quello che scrive René Girard ne “La nausea della vendetta”: “Cercare l’originalità della vendetta è un’impresa vana. Nella misura in cui tutti i personaggi sono presi nella spirale di vendetta, possiamo dire che è maturata una tragedia senza inizio e senza fine”. Ebbene, l’ergastolo è una vendetta senza fine in cui il tempo diventa stillicidio, in cui si dimentica che vittima e carnefice sono i fili intrecciati di un’unica fune. Lo scrive da par suo Gibran in un passo del “Breviario per i laici”: “Spesso vi ho udito parlare di chi sbaglia come se non fosse uno di voi, ma un intruso in mezzo a voi e un estraneo al nostro mondo. Ma io vi dico che come il santo e il giusto non possono alzarsi sopra di voi, così il debole e il malvagio non possono cadere più in basso della peggiore bassezza che c’è anche in voi. E come una foglia non impallidisce senza la muta complicità di tutta la pianta, così il malvagio non potrà nuocere senza il tacito consenso di tutti voi. Voi non potete separare il giusto dall’ingiusto e il cattivo dal buono perché essi stanno insieme davanti al sole, come se il filo nero e il filo bianco fossero insieme intessuti. E quando si rompe il filo nero, il tessitore rivedrà tutta la tela e dovrà esaminare tutto il telaio”. Ecco, lo Stato non deve mai dimenticare di essere la pianta che nutre la foglia e deve riannodare i fili della fune. Se vuole assolvere al suo compito e non essere complice del male, non può infliggere l’ergastolo e il 41 bis, misura disumana che contraddice tutti gli standards solennemente proclamati dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In verità il 41 bis è solo la testimonianza del fallimento dello Stato incapace di controllare le maglie della detenzione ordinaria e garantire assieme alla sicurezza la dignità dell’individuo. In proposito Parlavecchio, nelle Ragioni della tolleranza” ha scritto: “La democrazia può degenerare in forme di dispotismo quando eventi contingenti richiedono una sospensione parziale o temporanea dei diritti dei cittadini. Qualche volta lo Stato si trova a dovere scegliere tra libertà e sicurezza. Il cittadino paga la sicurezza in termini di libertà. E’ lecito sospettare, quando ciò accade, un interesse, una manipolazione del consenso, una inefficienza degli organi incaricati di proteggere i cittadini e lo Stato dai criminali e si sono serviti dell’allarme sociale per giustificare la violenza legale e le regole illiberali. I luoghi della giustizia esercitano talora l’ingiustizia…..”
Non potevano essere pronunciati più efficacemente il de profundis del diritto e la denuncia di una giustizia ingiusta amministrata nell’interesse del più forte. Trasimaco, duemila anni fa ci ha messi in guardia contro questo inganno.