La Grecia e la giornata lavorativa di 13 ore: una svolta epocale o un ritorno al passato?
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di Pompeo Maritati
La recente approvazione da parte del Parlamento greco di una legge che consente l’estensione della giornata lavorativa fino a 13 ore per un massimo di 37 giorni all’anno ha suscitato un acceso dibattito che travalica i confini nazionali. Presentata dal governo di Kyriakos Mitsotakis come una misura di flessibilità e modernizzazione del mercato del lavoro, la norma è stata duramente contestata da sindacati, opposizioni e osservatori internazionali, che la considerano un grave arretramento rispetto alle conquiste storiche in materia di diritti dei lavoratori.
Per comprendere la portata di questa decisione, è necessario partire dal lungo cammino che ha portato alla definizione della giornata lavorativa standard. Sin dal XIX secolo, il movimento operaio ha lottato per la riduzione dell’orario di lavoro, passando da giornate di 14-16 ore a un modello di 8 ore, simbolo di equilibrio tra produzione, riposo e vita personale.
La formula “otto ore di lavoro, otto ore di riposo, otto ore di svago” ha rappresentato per decenni un ideale di giustizia sociale e benessere. Le convenzioni internazionali, come quelle dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, e le legislazioni nazionali hanno consolidato questo principio, rendendolo uno standard in gran parte del mondo industrializzato. In Grecia, come in altri Paesi europei, la settimana lavorativa di 40 ore è stata considerata un pilastro della civiltà del lavoro.
Tuttavia, la crisi economica iniziata nel 2008 ha profondamente alterato gli equilibri. La Grecia ha vissuto una delle recessioni più dure della sua storia moderna, con un crollo del PIL, una disoccupazione che ha superato il 28% e una drastica riduzione dei salari e delle prestazioni sociali. In questo contesto, il mercato del lavoro è stato sottoposto a pressioni enormi, con una crescente precarizzazione, diffusione del lavoro informale e indebolimento della contrattazione collettiva.
La nuova legge si inserisce in questo quadro, proponendo una forma di flessibilità che, secondo il governo, permetterebbe ai lavoratori di aumentare i propri guadagni in periodi di alta domanda, senza modificare la settimana lavorativa standard. La norma prevede che l’estensione dell’orario fino a 13 ore sia possibile solo su base volontaria, con un limite di 37 giorni all’anno, una retribuzione maggiorata del 40% per le ore eccedenti, e un tetto massimo di 150 ore di straordinari annuali.
Tuttavia, la “volontarietà” è stata messa in discussione da molti, che temono che in settori dove il potere contrattuale dei lavoratori è debole, la pressione implicita possa trasformarsi in obbligo. L’impatto economico e sociale di questa misura è profondo e merita un’analisi articolata. Dal punto di vista economico, la possibilità di estendere l’orario di lavoro può offrire vantaggi immediati in termini di produttività e reddito disponibile. In settori stagionali o ad alta intensità, come il turismo, la logistica o l’agricoltura, la flessibilità può permettere di rispondere meglio alle esigenze del mercato.
I lavoratori che accettano di lavorare 13 ore al giorno per alcuni periodi potrebbero ottenere un incremento significativo del reddito, soprattutto considerando che i salari greci sono tra i più bassi dell’Unione Europea. Tuttavia, questo beneficio è limitato a una fascia ristretta di lavoratori e rischia di creare una polarizzazione nel mercato del lavoro. Le imprese potrebbero preferire estendere l’orario dei dipendenti esistenti piuttosto che assumere nuovi, riducendo le opportunità occupazionali.
Inoltre, la competizione tra lavoratori potrebbe accentuarsi, penalizzando coloro che, per motivi familiari, di salute o di età, non possono sostenere ritmi così intensi. Dal punto di vista macroeconomico, l’aumento delle ore lavorate potrebbe tradursi in un incremento del PIL, ma a costo di una maggiore usura del capitale umano. La produttività non dipende solo dal numero di ore, ma anche dalla qualità del lavoro, dalla formazione, dall’innovazione e dal benessere dei lavoratori. Un modello basato sull’intensificazione del lavoro rischia di essere miope, sacrificando la sostenibilità a lungo termine per guadagni immediati.
Sul piano sociale, le conseguenze sono ancora più rilevanti. L’estensione dell’orario di lavoro incide direttamente sulla salute fisica e mentale dei lavoratori. Studi internazionali dimostrano che giornate superiori alle 10 ore aumentano il rischio di stress, burnout, malattie cardiovascolari, disturbi del sonno e problemi muscoloscheletrici. La riduzione del tempo libero compromette la qualità della vita, le relazioni familiari, la partecipazione civica e culturale. In una società già segnata da precarietà e disuguaglianze, la norma potrebbe accentuare le fratture, creando una classe di “super-lavoratori” costretti a sacrificare tutto per sopravvivere, e una fascia di esclusi incapaci di competere.
Inoltre, il rischio è che si affermi una cultura del lavoro come unica dimensione dell’esistenza, in cui il valore dell’individuo è misurato solo in termini di produttività. Questo modello contrasta con le aspirazioni di una società equilibrata, in cui il lavoro è parte della vita, ma non la sua totalità. La norma greca solleva anche interrogativi etici e filosofici. In un’epoca di automazione, intelligenza artificiale e produttività crescente, la riduzione dell’orario di lavoro dovrebbe essere una conquista possibile, non un lusso.