La poesia di Alessandro Parronchi (1914-2007)
Alessandro Parronchi
di Vincenzo Fiaschitello
Alessandro Parronchi, insieme con Mario Luzi e Piero Bigongiari (ai quali successivamente si aggiunse Alfonso Gatto), fu uno dei componenti della triade dell’ermetismo fiorentino, secondo l’autorevole giudizio del critico Carlo Bo.
Personalità complessa quella di Parronchi: storico dell’arte, saggista, musicologo, pittore, poeta. Di famiglia borghese, il padre notaio, morto suicida per motivi mai resi noti (“non l’abbiamo mai saputo” ammise lo stesso poeta nel corso di una intervista), lasciò un gran vuoto nell’animo dell’adolescente Alessandro.
Crebbe in un periodo storico di notevole fervore culturale nella Firenze del primo Novecento.
Con la rivista “La Critica” fondata da Benedetto Croce nel 1903, l’estetica dell’idealismo che si muoveva sulla sperimentata scia della classicità trovava ancora un indiscutibile consenso. Tuttavia con la fondazione di nuove riviste come “Leonardo”, “La Voce”, “L’Italia futurista”, “La Ronda”, si annunciava un nuovo clima.
Due poeti, Ungaretti e Montale, già venivano riconosciuti maestri di una corrente poetica, cui era stata attribuita l’etichetta di ermetismo, estesa anche a quella poesia post-simbolista che i più giovani tra gli ermetici avevano prodotto dopo lo studio e la traduzione della poesia di Mallarmé, di Rimbaud e di Baudelaire.
Francesco Flora, strenuo sostenitore della critica crociana, non mancò di aprire le ostilità contro una poesia che si allontanava dai canoni classici per nascondersi in versi ostinatamente oscuri. Vi furono coloro che intesero assolvere l’ermetismo da questo peccato, ipotizzando che quei poeti si erano costruita una sorta di linguaggio convenzionale per sfuggire ai pericoli del clima politico fascista non favorevole affatto alla libera espressione artistica. Può esserci in questo una briciola di verità, ma la realtà era diversa. In intellettuali e poeti come Pavese, Sinisgalli, Caproni, Gatto, Bertolucci e altri, c’era non solo la ricerca di un più intenso sentimento che rivelasse la propria interiorità, ma anche un modo nuovo di guardare al mondo esterno, quasi che l’io del poeta e la natura tutta come l’acqua del fiume, il canto degli uccelli, gli alberi del viale, i fiori del prato, i monti, le nuvole del cielo, si trovassero stretti in un legame più che viscerale.
La relazione “Letteratura come vita” che Carlo Bo tenne al Convegno degli scrittori cattolici nel settembre del 1938 a Firenze in cui sottolineava l’importanza del contatto con la vita, dell’impegno di farsi comprendere dal pubblico, mettendo da parte quel linguaggio d’élite, quel “linguaggio sottile”, proprio dell’ermetismo, aprì un largo dibattito tra gli intellettuali fiorentini con una significativa eco nella nuova rivista quindicinale “Campo di Marte” diretta da Enrico Vallecchi e redatta da Alfonso Gatto e Vasco Pratolini, appena un mese dopo il Convegno. L’acceso dibattito mise in evidenza da un lato che Firenze era diventata “un’isola che gettava un ponte verso la cultura europea” (Renzo Cassigoli, Conversando con Alessandro Parronchi, Edizioni Polistampa, 2001, p.!4) e nello stesso tempo che si andava formando una nuova generazione di poeti, nei quali certo si poteva riconoscere la radice ermetica, ma con altro e diverso orientamento, come sicuramente era l’orizzonte religioso cattolico, soprattutto dopo l’accoglienza dell’esistenzialismo cristiano di Gabriel Marcel e di Karl Jaspers.
Questa aria nuova che spirava nella città si poteva respirare meglio in un luogo particolare, il caffè delle Giubbe rosse, dove si riunivano intellettuali, artisti, poeti, pittori, legati da fraterna amicizia, ostili al regime fascista, sempre più inclini a prendere le distanze dalla rivista “Lacerba” di Papini e Soffici e dal primo ermetismo di Ungaretti e Montale.
In realtà Parronchi per sua stessa ammissione non amò il dibattito politico. Tuttavia, vivendo in mezzo al fascismo non mancò di far sentire il suo dissenso, ignorandolo e anche ridicolizzandolo: “Ma quando il fascismo venne su coi suoi foschi gagliardetti/ di teschi e i ritornelli della storia/ vittoria-gloria eravamo maturi/ io e i miei amici per ridergli dietro/ ridicolizzandolo in mille modi. Non sapevamo/ quale tragedia nascondesse, i lager/ dei nazisti li conoscemmo dopo,/ e non senza vergogna di appartenere/ a una medesima umanità”.(Insonnia).
Parronchi si distinse per la sua eccezionale carica di umanità, ne è prova il numero straordinario di amici che gli furono accanto nella sua amata Firenze che abbandonò di rado e per la fittissima corrispondenza che intrattenne con personaggi famosi, in gran parte non ancora esplorata, conservata presso la biblioteca umanistica dell’Università degli Studi di Siena.
Da giovane si illuse di poter dipingere, ma dopo aver conosciuto il pittore Mario Marcucci, si spense la velleità di diventare un buon pittore per cui ripiegò verso la storia e la critica dell’arte, ottenendo risultati più che apprezzabili. Sono ancora oggi ben noti i suoi saggi su Michelangelo, su Paolo Uccello, sugli studi sulla prospettiva e sull’ottica di Berkeley. Ricoprì anche la carica di presidente della Biennale di Venezia. Tra i pittori, ebbe come amici, oltre Marcucci, anche Morandi, Carrà e Rosai. Per Marcucci in particolare fu prodigo di incoraggiamenti e consigli, come si evince dal ricchissimo epistolario di mille e trenta lettere.
Richiesto da quando e da dove provenisse il suo interesse per la poesia, Parronchi immancabilmente rispondeva che teneva distinta la professione di storico dell’arte e di docente universitario da quello di poeta.
Parronchi, poeta minore? Assolutamente no!
Parronchi merita un posto molto importante nella poesia del Novecento, accanto ad altri poeti della sua generazione come Caproni, Luzi e Bigongiari.
Pasolini fu uno dei primi critici a riconoscere il valore dei suoi versi originali, contribuendo a svecchiare quella etichetta di ermetismo che gli era stata cucita addosso sin dal suo esordio con la raccolta poetica “I giorni sensibili” nel 1941. Poiché Parronchi aveva mosso i primi passi, com’era naturale nel contesto storico letterario del tempo, con una ammirazione se non con reverenza paterna nei riguardi della poesia di Montale e di Ungaretti, e cominciava a farsi conoscere anche come valido critico d’arte, pubblicando contemporaneamente una monografia su Rosai, è probabile che la critica del primo momento abbia in qualche modo voluto esprimere un giudizio affrettato di ermetismo per un autore che mostrava di essere ancora insicuro sulla scelta tra poesia e prosa.
Credo che questo rapporto poesia-prosa, non adeguatamente valutato, costituisca il nodo da sciogliere per poter apprezzare la poesia di Parronchi, nodo che Pasolini con il suo carattere irruente intravide lucidamente anticipando un giudizio favorevole sui versi di Parronchi. D’altronde lo stesso poeta in varie occasioni ha sempre sottolineato che la sua creatività poetica trovava alimento non solo nella potenza della parola che è capace di portare alla luce i sentimenti e le emozioni, scavando nel cuore umano, ma anche nella irresistibile attrazione da lui provata per le opere d’arte, per le quali erano fondamentali il senso della vista (i colori della pittura) e il senso del tatto (il marmo della scultura). Di qui il cambio di rotta della sua poetica rispetto al tradizionale ermetismo, piuttosto incline all’astratto, aperto verso sentieri nebulosi, non facilmente percorribili, misteriosi, ambigui.
L’amore per l’arte lo guidò verso il concreto, la materia, gli oggetti. Le movenze stilistiche che richiamano la poesia ermetica del primo Parronchi gradualmente scompaiono per dar posto a un respiro lirico, specialmente dopo l’approfondimento del simbolismo di Rimbaud e di Mallarmé.
E’ dunque chiaro che nella seconda fase della sua produzione poetica, che ha inizio nel 1961 con la pubblicazione della raccolta “Coraggio di vivere”, poesie scritte tra il 1950 e il 1970, periodo in cui si era già consolidato il sodalizio non solo con il pittore Marcucci, ma anche con Mario Luzi e con Vasco Pratolini, Parronchi accentua quell’orientamento verso temi lirici “dall’inconfondibile sapore gnomico” (così scriveva nel 1958 Giuseppe De Robertis), che scaturiva da una poetica ormai matura fondata su punti fermi come l’oggettività, l’amore per la natura, gli affetti familiari, l’amicizia, la religiosità, la bellezza della pittura e della scultura, la fragilità della vita e i ricordi del tempo passato.
Evidenziare alcuni di tali aspetti della corposa raccolta di sillogi nei due volumi di circa ottocento pagine (A. Parronchi, Le Poesie, Edizioni Polistampa, Firenze, 2000), pubblicati qualche anno prima della sua morte, può essere utile per un primo approccio alla conoscenza della sua poesia e per un invito a leggerla direttamente. L’aspetto della oggettività, che in realtà Parronchi privilegia anche quando è ancora immerso nel clima dell’ermetismo, è già presente nella prima fase della sua produzione. Attratto dalle opere d’arte, egli ama il visibile, l’immagine, la materia, i colori: “La fissità che tiene appesi i muri/ pendenti su dirupi, e travi a sghembo/ sul sonno di fanciulle…(Canto boscaioli); “Di taciturne vene/ l’acqua s’accaglia in tenere piume…(Notte fuggitiva).
Gli oggetti, il cancello, il muro, l’Arno, la casa sepolta nella notte, sono presenti accanto ai ricordi, alla tenerezza, alla malinconia di un tempo fuggito: ”Ma la casa sepolta nella notte/ la lucciola che d’essere dispera/ il cancello rinchiuso in fondo all’ombra/ la terra che da un alto muro sgretola/ il rintocco di un urlo nella tenebra… (Alle ore di tristezza).
E ancora: “Nel tramonto che non vuol più morire/ lascia che sia la brezza a riportarmi/ l’immagine di te più vera,/ lasciami solo ai miei pensieri, l’Arno/ è un fiume triste stasera. (Sera).
Il bisogno di guardare con occhi di poeta le cose più semplici, i colori, le piante, i sassi, lo conduce ad amare la natura tutta e a rispettarla: “Si rispetta la natura non tagliando/ l’erba dei prati, in modo che cresca alta/ e tutto invade. Si rispetta la natura/ lasciando i sassi al loro posto nelle valli/ così che il respiro delle montagne/ arrivi a frusciare alle tempie pei sentieri consueti…(Il rispetto della natura).
In un’altra poesia: “La mia droga/ è questo verde degli ulivi/…i sensi si addormentano ma non l’anima/ tesa in ascolto/ se s’oda per la viottola/ scricchiolare di sassi/ per un’auto che arriva”(Da L’estate a pezzi).
La percezione del mondo concreto che lo circonda ha una profonda eco nella sua interiorità, è poetica, scava nei ricordi, nella tenerezza, nella malinconia. C’è il ricordo sempre vivo delle ombre del viale dei giardini, il profumo caldo dei fiori di fine estate che conduce al cuore un triste scirocco di pensieri. C’è il ricordo di un amore lontano: “…entro le nubi/ quella lama di luna esita, come/ una lacrima che non sa più scendere/ dalla mandorla bruna dei tuoi occhi. (Passeggiata).
Se carichi di viva commozione sono i versi dedicati agli affetti familiari, alla figlia, alla moglie, altrettanto sinceri e lucidi sono i sentimenti, i ricordi, i rimorsi, il desiderio di tornare indietro per rivivere le emozioni felici di un tempo passato. Ecco qualche esempio:
“Amico, addio. Non seppi lungo il corso/ d’una vita vissuta insieme, dare/ risposta ad un tuo invito/ che mi colse sprovvisto, all’albeggiare…quando penso al giorno che volevo e non avevo amato ancora,/ sento che solo dopo avevo in bocca/ la polpa amara del tuo frutto, memoria. (A Mario).
E ancora: “In questo mondo che va, va, va sempre avanti,/ un pensiero per te mi tortura: /tornare indietro/ riavere i giorni felici/ che tali non parvero…/ e non avrò coraggio di leggerti questi versi…/ e quando ti raggiungeremo/ da tanto anch’io sarò morto…/E la fine del viaggio sarà quando/ ci troveremo al punto di partenza. (A Vasco malato).
L’amicizia è davvero un motivo centrale nella sua vita tradotto in una espressione poetica priva di qualsiasi retorica, palpitante, sincera, che troviamo in una lunga lirica nella quale ricorda i suoi amici, quasi una sorta di manifesto dell’amicizia dove i ricordi sono intrecciati agli accadimenti del tempo, come l’invasione di Praga da parte dei carri armati dell’Unione Sovietica, l’alluvione di Firenze ed altri piccoli e grandi eventi che premevano sul suo animo sensibile, come qualche tempo prima aveva sperimentato l’orrore della guerra, gli odi dell’immediato dopoguerra (non ultimo l’assassinio del filosofo Giovanni Gentile all’uscita dall’Università di Firenze).
“Canto gli amici con la sera che muore…/All’alba i carri armati hanno invaso le vie di Praga…/I cittadini si chiedevano perché?/ Amici russi sono scesi dai carri/. E’ stato chiesto loro: perché? Non lo sapevano…Un’altra alba…l’acqua invase le vie di Firenze…una lunga catena d’amici si passavano le cose/ preziose, i libri della sapienza/…Quello che sto per lanciare è un manifesto di servitù…Io le cose che ricordo del mio prossimo/ sono gli aiuti che ho ricevuto…E se sono vivo lo devo a te: se guardo ancora il velo della sera che scende…E in questo istante mi ossessiona tutto il male che ti ho fatto,/ io, peccatore mediocre…/Non sarà abbastanza lunga la vita/ per aiutarci l’un l’altro, in un mondo/ di povertà ricco solo di amore. (Volti dell’amicizia).
Ho consapevolmente evitato di seguire un preciso riferimento temporale delle sillogi pubblicate nel corso della lunga carriera poetica di Parronchi, perché condividendo il suo pensiero, non trovo una iniziale volontà progettuale che si va snodando nel tempo. Le sue poesie sono al seguito della vicenda esistenziale, libere da un ordine prestabilito, sostanziate dal vero che intendono rispecchiare, dalla incertezza del vivere quotidiano, ma potenti perché, goccia dopo goccia, ci mettono di fronte al nesso vita-morte-eternità. Quanto più si richiama al concreto, tanto più si realizza uno stretto legame con la prosa, rendendo sempre più estranea e lontana l’espressione crittografica dell’ermetismo. La commistione poesia-prosa, che al suo esordio era stata intravista e criticata, era frutto di un giudizio poco sereno; d’altronde anche lo stesso Montale, sulla scia dello Zibaldone di Leopardi, si era pronunciato a favore della prosa, definendola “semenzaio d’ogni trovata poetica”. E’ così che tutte le poesie delle sue sillogi possono essere considerate, a prescindere dalla data, come una sorta di diario, nel quale si susseguono senza un ordine programmato, alternando, come nella vita di ogni giorno emozioni e sentimenti: speranza, scoraggiamento, ottimismo, solitudine.
Il sopraggiungere della vecchiaia (“la vecchiaia m’è rotolata addosso”) gli fa avvertire quel senso di solitudine, quando tutti gli amici hanno intrapreso il viaggio dell’eternità: “Ma Mario non c’è più e non ti risponde…/Il suo cammino e il mio/coincidono nel punto dell’addio”(Che avrebbe detto Mario).
Una solitudine che si protrae “Per strade di bosco e di città” (questo è il titolo di una raccolta poetica degli ultimi anni della sua vita), una solitudine che lo guida al silenzio, propizia alla riflessione morale e a meditare sul dolore della vita: Pasolini assassinato, Alfonso Gatto morto in un banale incidente stradale, Marcucci e Pratolini scomparsi da molti anni… E tuttavia tra ferite e dolori, Parronchi, poeta visivo ma non visionario, ha il “Coraggio di vivere”, (altro titolo di una silloge), si sforza di “esiliare la malinconia e il sogno” (così in una lettera che un tempo gli aveva scritto Vasco Pratolini), per restare legato alla realtà, al concreto, fino ad immaginare giorni e ore fugaci per ritrovarsi vivi un’ora nel sole in una piazza. La consapevolezza della tragedia, della presenza del dolore nella vita dell’uomo e in parallelo la constatazione del declino e della mistificazione e mercificazione dell’arte contemporanea, da lui denunciate più volte come storico dell’arte, non gli procurano tuttavia disimpegno o rinuncia. Resta incrollabile la fede cristiana e con essa il valore salvifico della parola poetica, presente indifferentemente nel verso o nella prosa. E’ la parola che aiuta a vincere, pur nella sconfitta dolorosa dell’esistenza, perché risponde al “bisogno insopprimibile che tutto si ripeta”, ma in modo perfetto senza orrori né viltà.
Nota bibliografica
I due volumi Alessandro Parronchi, Le poesie, Edizioni Polistampa, Firenze, 2000, contengono tutte le poesie delle raccolte pubblicate nel seguente ordine:
Per strade di bosco e città (dal 1937 al 1953)
Coraggio di vivere (dal 1950 al 1970)
Replay (dal 1970 al 1990)
Nuovo cammino (dal 1991 al 1999)