L’agonia del fascismo 25 luglio 1943
di Eliano Bellanova
Con l’entrata in guerra il 10 giugno 1940, il Regime fascista inizia il suo declino e perde la popolarità che aveva raggiunto l’acme con la proclamazione dell’Impero d’Etiopia, per cui il Re Vittorio Emanuele III aveva guadagnato, oltre ai titoli di Re d’Italia e d’Albania, anche quello di Imperatore d’Etiopia. Il Negus Hailé Selassié aveva guadagnato l’esilio in attesa che gli eventi mutassero a suo favore.
L’ingresso in guerra dell’Italia era avvenuto sotto cattivi auspici e aveva prodotto malumori in gran parte del popolo, che, già antecedentemente, si era dichiarato contrario alle leggi razziali, che non rientravano nel corredo genetico della gente.
La condotta bellica aveva destato molte perplessità, sia in terra, sia in mare, sia in cielo. La scomparsa in Tripolitania di Italo Balbo (forse ad opera della nave San Giorgio, forse ad opera della contraerea terrestre, forse ad opera di un sommergibile italiano) aveva indotto nell’opinione pubblica molte perplessità e tanti interrogativi.
L’Aeronautica era considerata l’emblema del Fascismo. L’Esercito era infatti di conio regio e borghese; la Marina era riservata, nelle carriere eccellenti, al patriziato nobiliare e, quindi, era essenzialmente regia. A bordo delle navi non si assisteva a inni al regime e, nel mentre c’era un tacito dissenso, covavano sotto le ceneri le ribellioni e le insubordinazioni.
Il capo del SIM era l’Ammiraglio Franco Maugeri, siciliano di Gela, e, benché fosse considerato poco affidabile, non poteva essere certamente sostituito con chicchessia. A fine guerra fu anche autore di un libro, pubblicato in lingua inglese, dal titolo “From The Ashes of Disgrace”, che lo rese ancor più famoso e… attendibile.
Marcello Girosi, fratello dell’Ammiraglio Massimo Girosi, era accusato di probabili rapporti di intelligenza con gli Alleati e sarebbe stato passibile di procedimento giudiziario in base alle leggi militari, che non escludevano la pena capitale.
Massimo Girosi gode dibrillante carriera durante il Fascismo e la prosegue fino agli altissimi gradi della NATO nel dopoguerra.
Benché su di lui non convergano sospetti, certamente i rapporti del fratello con il “nemico” non gli rendono onore.
L’esordio dell’Esercito Italiano in Tripolitania, nella cosiddetta “Quarta Sponda”, non è dei migliori e la dimostrazione di scarsa preparazione alla guerra appare in tutta evidenza.
Non diversamente vanno le cose in Grecia, dove si dovrà attendere l’arrivo dei potenti corpi corazzati tedeschi per mettere in ginocchio il valoroso Esercito ellenico molto ben condotto da Papagos.
In mare l’attacco a Taranto della notte fra l’11 e il 12 novembre 1940 mette in ginocchio metà della flotta di superficie italiana, cui segue un coro di sdegno nazionale non molto represso.
Talleyrand avrebbe detto che si fosse trattato dell’inizio della fine e, forse, non avrebbe avuto torto, tant’è che pochi mesi dopo a Gaudo e Matapan la Flotta di superficie italiana (passata al comando dell’Ammiraglio Angelo Jachino, subentrato a Inigo Campioni, accusato degli insuccessi navali fra cui la notte di Taranto) subisce il grave danneggiamento della corazzata Vittorio Veneto, l’affondamento di tre moderni incrociatori (Pola, Fiume e Zara) e di due caccia (Alfieri e Carducci).
Gli Inglesi, con perdite minime, divengono arbitri del Mediterraneo.
Rommel intanto denuncia che i rifornimenti in Libia giungono male, aggiungendo benzina sul fuoco per l’accusa dell’acqua al posto della benzina.
Le illusioni del 1942 (El Alamein) sono ben presto frustrate dal contrattacco britannico in Africa del Nord e l’eventualità di giungere ad Alessandria d’Egitto resta in nuce. Al valoroso Rommel, dopo gli “esperimenti” di Wavell e Auchinleck,gli Inglesi oppongono un Comandante che diverrà celebre per la sua perizia e il soprabito dagli strani bottoni, B. Montgomery.
Il destino degli italo-tedeschi in Libia è segnato. Rommel va in licenza, chiede aiuti a Hitler, non li ottiene e al suo posto subentra il Generale Stumme, che muore poco dopo per un infarto. Rommel, la celebre Volpe del Deserto, ha perso lo smalto dei tempi migliori. Le Armate dell’Asse arretrano di fronte alla preponderanza di mezzi nemici e reciteranno il canto del cigno, dopo il rifiuto germanico di difendere fino in fondo la Tunisia e la resa di Tunisi. Sarà il Generale italiano Giovanni Messe a guidare l’estrema resistenza, culminata con la resa e la prigionia.
L’alba del 1943 sorge fra nuvole oscure e sinistri presagi. I santi numi del Mediterraneo e gli dei nibelungici hanno girato le spalle a Mussolini e Hitler e, forse, si occupano più compiutamente del regno ultraterreno “ov’è silenzio e tenebre la gloria che passò”.
La Sicilia subisce il primo sbarco Alleato. È il 10 luglio 1943 e dall’inizio della guerra sono passati esattamente tre anni e un mese.
La teoria del bagnasciuga preconizzata dal Duce non regge e i proclami di vittoria non riscontrano credito nemmeno fra i “fedelissimi”.
Gli eventi si svolgono con rapidità e la notte fra il 24 e il 25 luglio, malgrado il caldo del solleone, diviene l’epilogo tragico di un regime che aveva creato molte illusioni e, anche, tante positive realtà.
Come in una tragedia greca, alle ore 18.00 del pomeriggio inizia l’epica riunione del Gran Consiglio del Fascismo.
La soluzione è una delle tante soluzioni, di cui si parla dalla fine del 1942. Casa Savoia era propensa ad appoggiare ogni soluzione per liberarsi del Fascismo. Si ipotizzava un colpo di Stato guidato dall’Esercito, con a capo Badoglio e Caviglia, oppure (come poi avverrà) una congiura di palazzo ordita da fascisti malcontenti, industriali, finanzieri e potenti agrari, fra i quali il Conte Volpi di Misurata, che sperava nella sopravvivenza del Fascismo successivamente alla caduta del Duce.
Il Gran Consiglio del Fascismo taceva da tanti anni e quindi la convocazione costituiva il preludio di gravi e importanti decisioni.
Su tutte le mozioni (gli altri ordini del giorno sono a firma di Farinacci e Scorza) prevale la Mozione di Dino Grandi, figuro silenzioso e sornione, che attendeva il momento opportuno per salire in cattedra.
La votazione dà ragione a Grandi: alle 02,31 del 25 luglio, 19 componenti votano a favore, 7 contro, 1 si astiene.
Entrando nello specifico i favorevoli alla Mozione Grandi sono: Emilio De Bono (quadrumviro della Marcia su Roma), Cesare Maria De Vecchi (quadrumviro), Dino Grandi (Presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni), Alfredo De Marsico (Ministro di Grazia e Giustizia), Giacomo Acerbo (Ministro delle Finanze), Carlo Pareschi (Ministro dell’Agricoltura e della Foreste), Tullio Cianetti (Ministro delle Corporazioni), Giuseppe Bastianini (Sottosegretario agli Esteri), Umberto Albini (Sottosegretario agli Interni), Luigi Federzoni (Presidente dell’Accademia d’Italia), Giovanni Balella (Presidente della Confederazioni degli Industriali), Luciano Gottardi (Presidente della Confederazione lavoratori dell’industria), Annio Bignardi (Presidente della Confederazione lavoratori dell’agricoltura), Alberto de’ Stefani, Edmondo Rossoni, Giuseppe Bottai, Giovanni Marinelli, Dino Alfieri, Galeazzo Ciano (genero di Mussolini e marito della figlia Edda).
Otto sono i voti contrari: Carlo Scorza (Segretario del PNF), Carlo Alberto Biggini (Ministro dell’Educazione Nazionale), Gaetano Polverelli (Ministro della Cultura Popolare – Minculpop), Antonino Tringali Casanuova (Presidente del Tribunale Speciale), Ettore Frattari (Presidente della Confederazione Agricoltori), Enzo Galbiati (Capo di Stato Maggiore della MVSN), Roberto Farinacci, Guido Buffarini Guidi.
Il solo che si astiene è Giacomo Suardo (Presidente del Senato del Regno).
In piena notte, alle 02,45, Mussolini toglie la seduta e “prende atto” della decisione del Gran Consiglio. Ha dovuto fare i conti con… gli amici dei nemici.
Benito Mussolini ha sessant’anni. È molto invecchiato. Soffre di lancinanti dolori di stomaco, di ansia e depressione.
L’atmosfera cupa della Sala del Pappagallo a Palazzo Venezia, dove si era svolta la celebre riunione, lascia in lui una depressione ancora maggiore. Non ha appetito, soffre di insonnia, si lascia trasportare da effimeri entusiasmi (pochi) e facili cadute (molte).
In seguito all’approvazione dell’o.d.g. Grandi, Benito Mussolini dichiara sconsolato: “Signori, con questo ordine del giorno, voi avete aperto la crisi del regime”.
Come Robespierre si oppose ai giacobini fedelissimi che proponevano di marciare contro i termidoriani nel lontano luglio 1794, così Mussolini non incoraggia l’azione di forza propugnata da Scorza e Galbiati, rivelandosi o un debole o un rassegnato o un fedele “costituzionalista”, specialmente perché rifiuta il suggerimento di Galbiati di interloquire con Himmler. L’altra ipotesi, che oggi si direbbe sostenibile (in base a un termine inopportuno, usato e abusato), è che Mussolini non desiderasse una guerra civile, stante anche la situazione bellica drammatica che vede l’Italia occupata in gran parte dai tedeschi e incalzata dall’avanzata Alleata, che incomincia a far perno sui primi nuclei (non organizzati) di partigiani. Così la Guardia Armata della Rivoluzione, ovvero la Milizia Fascista, non intraprende alcuna azione a favore di Mussolini e del regime.
Le reazioni sono ancora insignificanti, sicché Mussolini rientra a casa, conversa con Rachele, che vorrebbe un’azione armata contro i “cospiratori” e quindi alle 10,30 ha un breve conciliabolo con Scorza. A mezzogiorno riceve l’ambasciatore giapponese Shinokuro Hidaka (a cui manifesta l’idea poco credibile di concludere una pace separata con l’URSS e proseguire la lotta contro gli Alleati, tradendo il suo “o Roma o Mosca” e il fedele alleato germanico, favorevole, tutt’al più, a una pace separata con gli anglo-americani per proseguire la guerra contro Stalin).
Alle 17.00 si porta a Villa Savoia. Il Duce indossa un abito blu di lino, sdrucito e spiegazzato, perché ha dormito vestito intere notti. Incontra il Re per il colloquio bisettimanale. Il Re indossa l’alta uniforme e un paio di scarpe con molte suole interne per sembrare più alto. … da una certa altezza si impartiscono ordini perentori e non trasgredibili…
Il Re, che aveva asserito che l’Italia fosse in tocchi, aggiunge “Duce, voi siete l’uomo più odiato d’Italia”. Parole inequivocabili.
Poco dopo gli comunica che Pietro Badoglio (l’uomo di Caporetto e della Guerra d’Etiopia, utile per ogni circostanza, non destando sospetti di appartenenza politica) sarebbe divenuto il nuovo Capo del Governo.
Mussolini si congeda dal Re, si avvia verso l’auto, ma è fermato dal Capitano Paolo Vigneri, che lo invita a seguirlo. Il Duce sarà condotto a Ponza, in una specie di confino, la parola che i suoi seguaci avevano spesso pronunciato contro gli antifascisti o i presunti tali. Il suo “amico” di percorso, responsabile dell’incolumità, è il discusso Ammiraglio Franco Maugeri, responsabile del SIM, in questo caso in veste di “scorta”.
A Ponza sono confinati Pietro Nenni e Tito Zaniboni, che non incontrano Mussolini, dirottato in una dimora maleodorante e abbandonata, che aveva ospitato il ras abissino Immerù, anch’egli tradotto in passato in domicilio coatto.
A Ponza Mussolini riscopre la fede cattolica e le “Odi Barbare” del grande letterato Giosuè Carducci.
Trasferito alla Maddalena, riceve da Hitler le ventiquattro opere di F. W. Nietzsche, il filosofo del superuomo che forse aveva ispirato due guerre mondiali. Sono libri che giungono in ritardo perché erano indirizzate a Ponza.
Mussolini, ammiratore del grande filosofo germanico, in effetti ha letto appena tre-quattro libri, fra i quali lo Zarathustra e alcuni passi della manipolata “Volontà di Potenza”.
Il capo del Nazismo aveva spedito al Duce le opere di Nietzsche in occasione del sessantesimo genetliaco.
La prigionia prosegue a Campo Imperatore sul Gran Sasso in Abruzzo. Mussolini dirà che si tratta della prigione più alta: come Nietzsche aveva detto di Engadina di essere al di sopra di ogni miseria umana, così Mussolini lo imita in un domicilio meno “commendevole”.
Il Gran Sasso gli offre l’opportunità di essere liberato. La liberazione avverrà ad opera del Colonnello delle SS, Otto Skorzeny, su ordine del Fuhrer. È il 12 settembre 1943.
Il successivo 18 settembre (l’Italia si è già arresa a Cassibile agli Alleati), da Monaco Mussolini dichiara che si sarebbe vendicato dei traditori e del Re, sostenendo inoltre “solo il sangue può cancellare una pagina così obbrobriosa nella storia della patria”.
In effetti la successiva Repubblica di Salò testimonia che Mussolini sia solo un suddito tedesco, che imbastisce una vera e propria lotta fratricida nella penisola, braccato dai partigiani e dalle truppe Alleate che avanzano lentamente contro le agguerrite Divisioni tedesche, ai cui vertici Kesselring e Rommel non sono certo in armonia, come non lo sono Patton e Montgomery fra gli angloamericani, cosa ampiamente attestata nelle Memorie del Capo di Stato Maggiore Generale Imperiale Lord Alan Brooke.
Intanto il Re e il Governo Badoglio, il 9 settembre 1943, abbandonano Roma al suo destino e si rifugiano a Brindisi. Gli onori di casa spetteranno al Comandante la Piazza, Ammiraglio Luigi Rubartelli.
… ma questa è un’altra storia.
Eliano Bellanova