IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

L'altra Calabria

di Paolo Vincenti

Su LACtv.it, web tv calabrese, mi sono imbattuto in una puntata della trasmissione E venne il giorno della Calabria, dedicata all’archeo-vino. Il conduttore è andato a San Demetrio Corone, piccolo paese in provincia di Cosenza, nell’alta valle del Crati, a visitare questa speciale azienda vinicola.

Gabriele Bafaro è un giovane archeologo, laureato a Matera, il quale ha deciso di scommettere sul proprio territorio. Per le sue ricerche scientifiche, egli si occupa delle antiche tecniche di coltivazione, ed essendo anche un appassionato viticultore, ha deciso di applicare le proprie competenze specifiche alla coltivazione della vigna, creando così l’“archeovino”, un vino prodotto esattamente con il metodo degli antichi greci e romani. A seguito delle ricerche paleobotaniche, Gabriele ha approfondito col tempo le proprie conoscenze ed ha iniziato a produrre il succo di Bacco con un progetto fortemente innovativo, nel quale hanno creduto anche dei partner istituzionali, come l’Università di Matera.

La raccolta non è meccanica ma esclusivamente manuale. Si tratta di un vino artigianale e biologico che, per forza di cose, non può dare grandi quantitativi. È una produzione di nicchia che punta esclusivamente sull’alta qualità e che viene distribuita in un circuito circoscritto, quello degli addetti ai lavori, ristoratori, chef e amatori. Acroneo si chiama, ossia “senza tempo”, dal greco a-kronos, e anche da Acra, “sommità”, come omaggio al territorio nel quale viene prodotto. Il vino è cultura, ripete Gabriele Bafaro, perché esso permette di interagire con la cucina, con la musica, con l’arte e comporta necessariamente il rispetto della natura, in sinergia con le peculiarità del territorio calabrese.  Le bottiglie sono tutte numerate ed anche oggetto per collezionisti.

La cantina vitivinicola si trova ad Acri: una cantina sperimentale, chiaramente, che porta avanti il progetto di Bafaro, emulando i classici. Il vino, prodotto con delle particolari spremiture, viene conservato nelle anfore interrate. Sono utilizzati argille e legni speciali, le uve selezionate manualmente e poi pigiate in tronchi scavati e, dopo una lunga macerazione in acqua, conservate dentro queste particolarissime anfore, che hanno la forma di quelle antiche. Il processo di maturazione ha una durata media più lunga del solito, dai sei agli otto mesi, poi il merum viene imbottigliato e tenuto in vetro per ancora quattro, cinque mesi, dopo di che è pronto per essere immesso sul mercato. Anche per la tappatura delle anfore, viene usato un sughero speciale con della cera enologica, sempre secondo i dettami degli antichi trattati di vinificazione. Gabriele trasmette empatia, nella sua appassionata perorazione, quando ripete che la Calabria è l’antica Enotria, perché già i Romani l’avevano definita “terra del vino”, e che questo territorio conosceva già prima dell’arrivo dei Greci la coltivazione della vigna. Si percepisce l’orgoglio dell’appartenenza ad una terra onusta, per storia, cultura e tradizioni millenarie. E le soddisfazioni sono presto arrivate, essendo il suo prodotto pluripremiato. 

Al di là della facile retorica sul ritorno dei cervelli in fuga, cui ci spingerebbe il servizio, è significativo constatare come la Calabria (ma potremmo dire il Meridione in generale) sia depositaria di potenzialità ancora inespresse che a volte trovano felicemente il modo di esprimersi, come nel caso di specie trattato da La Ctv. Mentre guardo la trasmissione, mi viene di pensare a come sia ridotta oggi la nobile terra calabrese, devastata e saccheggiata da orde barbariche di politicastri e banditi, faccendieri e criminali, banchieri e narcotrafficanti. Eppure la Calabria ha nel proprio patrimonio genetico l’italianità, come dire, ce l’ha nel sangue, nella sua peculiarità. La Calabria è forse più italiana di tutte le altre regioni. Non a caso, fu la prima regione della penisola ad essere chiamata Italia. Secondo gli studiosi, “Italia” è un nome osco e deriverebbe da vitulus, ossia vitello. Festo, nell’opera Sul significato delle parole, spiega che l’Italia è detta così perché possiede “grandi Itali”, cioè grandi buoi, essendo i vitelli chiamati in questo modo dagli abitanti della penisola.

Terra dei vitelli, oppure terra degli itali, secondo altri studiosi. Il vitello sarebbe stato l’animale totemico delle prime tribù italiche stanziate sul territorio. In origine, il nome designava solo l’estremità meridionale della Calabria, che i Romani chiamarono Bruzio, poi si estese all’intera Magna Grecia, ovvero l’Italia meridionale, e gradualmente passò a designare tutta la penisola. Che poi le ricostruzioni storiche siano abbastanza fantasiose è un dettaglio che poco conta in questa sede. Conta, eccome, invece, la radicata italianità della terra calabrese.

Ma nei media, nelle trasmissioni di approfondimento giornalistico e nei tg, la Calabria assurge agli onori delle cronache solo per i tristi episodi di malasanità o ancor peggio di criminalità organizzata, e la Ndrangheta è diventata un marchio a fuoco inciso sulla pelle, quasi un segno distintivo, esattamente come il sigillo apposto sulle anfore e le bottiglie di vino “enotrio”.  Ma i tempi stanno cambiando per la Calabria; ed anche in questo caso, poco importa se io non ci credo o ci credo poco: lo scrivo lo stesso, quasi come una pratica di training autogeno sicché attraverso questo esercizio mentale io possa convincermene veramente e farmi anche latore di cambiamento, essere io stesso funzionale al processo in atto. Ci berrò su, allora, magari col vino Acroneo.

Un “Prosit” alla Calabria.


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