IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

L’antropologo Eugenio Imbriani a Martano, al Centro tò Kalòn, per parlare del Folklore in Gramsci e de Martino

Eugenio Imbriani a tò Kalòn

di Anna Stomeo

Martedì 18 Marzo 2025 alle ore 18.30, a Martano (Lecce), in via Marconi 28, presso il Centro Culturale tò Kalòn dell’Associazione Itaca Min Fars Hus, condotto da Anna Stomeo e da Paolo Protopapa, un incontro di grande rilevanza con il Prof. Eugenio Imbriani, professore associato di Antropologia culturale e Storia delle tradizioni popolari presso l’Università del Salento, che dedicherà agli amici di tò Kalòn una lectio magistralis su uno dei temi più significativi della sua ricerca scientifica e accademica: il folklore nei suoi risvolti non solo antropologici, ma anche teorici, pratici (etici) e storici, con particolare riferimento al pensiero di Antonio Gramsci e all’opera di Ernesto de Martino, due personalità del Novecento i cui interessi e studi si incrociano, anche se in tempi diversi, al confine tra cultura e politica, tra conoscenza e azione, tra passato e presente.

Con questo incontro, grazie al prof. Imbriani, gli amici di tò Kalòn faranno un ulteriore passo avanti nella conoscenza di alcuni aspetti metodologici e storici del patrimonio culturale e antropologico nazionale e salentino, già approcciato, quest’ultimo, con il miniciclo di incontri sul tarantismo iniziato l’autunno scorso e che proseguirà, ci auguriamo, in futuri incontri, anche grazie al contributo di altri studiosi specialisti che, come il prof. Imbriani, ci hanno promesso la loro costante collaborazione.

Eugenio Imbriani è autore di un testo importante uscito nel 2022, F come Folklore, Bari, Nuvole Progedit, in cui si ritrovano direttamente alcune tematiche della lectio, insieme allo studio del folklore, nei suoi aspetti organici e inorganici rispetto al contesto storico, antropologico ed etnografico. Studioso della cultura popolare, dell’etnografia, dei rapporti tra memoria e oblio nella produzione dei patrimoni culturali e delle identità locali, ha prodotto, in decenni di pubblicazioni, numerosi volumi e monografie, saggi apparsi su riviste e in volumi collettanei e Atti di Convegni personalmente curati, tra questi ultimi Ernesto de Martino e il folklore (Progredit, 2020) e Il peso dei rimorsi. Ernesto de Martino cinquant’anni dopo, (Milella, 2018). È direttore della rivista “Palaver”, dirige la sezione etnografica del Museo civico di Giuggianello (Le).

La ricerca di Imbriani si alimenta di riferimenti storici puntuali e pertinenti e cerca sempre di legare la riflessione antropologica al contesto che la determina e al processo che l’ha generata, come esito teoretico e teorico di molteplici coincidenze e confronti.

Il suo contributo al tema del folklore nei “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci mette nella dovuta evidenza l’apporto del grande intellettuale sardo, perseguitato dal fascismo, alla fondazione e definizione di alcuni temi portanti della cultura italiana del dopoguerra, specificatamente riferiti alla cultura popolare e al problema del folklore, come nodo teorico da cui partire per riconsiderare le tematiche storico-antropologiche oltre i limiti e i veti posti dalla filosofia di Benedetto Croce.

Per Gramsci il folklore non è “coltivazione di preistoria”, né raccolta erudita di materiale “pittoresco”, ma è l’espressione “mobile e fluttuante”, molto di più della lingua e dei dialetti, dei contenuti culturali e intellettuali di un popolo. La lingua, ed è questa un’altra peculiarità innovativa di Gramsci nella cultura italiana, fa da cartina di tornasole nello studio delle culture subalterne, del canto popolare e anche del folclore come “modo di concepire il mondo e la vita, in contrato colla società ufficiale” come afferma Gramsci nel famoso “Quaderno 27” (Osservazioni sul folklore).

Il folklore, come la lingua, è, secondo Gramsci, un’entità ‘stratificata’ nelle espressioni che si sono storicamente determinate in una società e in una cultura e si presenta come “un agglomerato indigesto di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia”, legandosi al concetto, altrettanto storico-politico, di “egemonia culturale”.

Un’affermazione, nota Imbriani, che “ha fatto versare fiumi di inchiostro e ha sollecitato tanti pensieri” nella cultura italiana del secondo Novecento e ancora oggi. Superando le limitazioni crociane “all’avanzamento dello spirito” nelle culture subalterne, Gramsci afferma ed esalta i tratti dinamici e innovativi del folklore e della cultura popolare (dal dialetto al contesto ambientale, alle narrazioni e alle storie) che contribuiscono ad una crescita collettiva della società in generale.

Così anche l’approccio di Imbriani al fondamentale pensiero di Ernesto de Martino (da considerarsi indubbiamente, ci sembra, il fondatore, insieme ad Antonio Gramsci, ma in tempi diversi, dell’antropologia italiana nei suoi esiti più innovativi e avanzati) muove, non a caso, dal retroterra crociano, ampiamente rivoltato e contestato da Ernesto de Martino sin dall’inizio, nei suoi presupposti metodologici e, poi con il maturare della propria ricerca, nei suoi incerti risultati scientifici.

La priorità assegnata all’indagine sul campo ‘qualificata’ (cioè non estemporanea e solitaria, ma articolata in più competenze specifiche) che de Martino pone in essere, sin dai primi anni Cinquanta del Novecento, con le ricerche in Basilicata e poi nel Salento, costituisce lo spartiacque tra l’approccio idealistico-storicista di Benedetto Croce, che aveva invaso e abitato la cultura e la ricerca italiana per diversi decenni, bloccandone l’espansione conoscitiva in direzione europea, e il nuovo approccio scientifico-antropologico demartiniano, che si alimentava dei precedenti gramsciani (de Martino era stato tra i primi lettori attivi dei Quaderni del carcere di Gramsci, quando erano stati pubblicati per la prima volta nel 1948) e dell’inevitabile e più volte evocato Cristo si è fermato Eboli di Carlo Levi.

Il rapporto con le classi popolari meridionali del dopoguerra, filtrato attraverso la scelta etica di una condivisione pratica e politica, è, per de Martino, come egli stesso afferma, non solo “uno stimolo alla ricerca, ma addirittura una condizione fondamentale per la sua stessa possibilità”.

L’attività politica, di socialista e sindacalista militante, che de Martino ha svolto e svolge, in concomitanza delle escursioni antropologiche di équipe nelle zone più socialmente desolate del Sud Italia, maturano in lui la convinzione che lo studio del folklore, in quanto fenomeno culturale dinamico (che Gramsci aveva definito, appunto, “agglomerato indigesto”, multiforme ed incoerente), non può esaurirsi in una semplice descrizione topologica e tipologica, ma implica una visione diacronica e sincronica, secondo i canoni di uno storicismo ben diverso, anzi alternativo, e quello di Croce, consolante e inclusivo delle classi dominanti, dal quale ormai de Martino era lontano anni luce già dai primi anni Quaranta del Novecento. Un pensiero alternativo, che si afferma definitivamente dopo la lettura dei “Quaderni” di Gramsci, per orientarsi verso una ricerca sul campo in cui l’etnografia e la filosofia della prassi sembrano coincidere.

Le ricerche etnografiche di de Martino, condotte sul campo negli anni Cinquanta, in Basilicata e nel Salento, si alimentano, infatti, di collaborazioni multiple di esperti professionisti e di studiosi organizzati in équipe, per un obiettivo unitario: narrare il presente antropologico e sociale delle popolazioni del Mezzogiorno, senza perdere di vista il riscatto dall’emarginazione e dalla miseria, ma anche la rivendicazione del ‘riconoscimento’ (“Dite, raccontate che noi cafoni non siamo poi delle bestie, e che quaggiù non c’è soltanto miseria”).

Una sorta di “dramma storico collettivo”, dice Imbriani, quello su cui incide l’analisi di de Martino, che si trasforma in “dramma permanente” dei singoli individui e obbliga l’etnologo a fare i conti con la propria presunta identità, oltre che con le caratteristiche apparenti dell’oggetto di studio.
Il “mondo magico” del folklore si apre a de Martino come testimonianza dell’angoscia e della “crisi della presenza” in cui gli individui appartenenti al mondo subalterno vengono lanciati e schiacciati senza punti di riferimento. Un punto di ripartenza per un’esigenza di riscatto sociale e culturale.
Il rapporto tra l’etnologo e il folklore, come oggetto di indagine, si trasforma in relazione al contesto e alla percezione che lo stesso etnologo ha di quell’oggetto, tra solidarietà etica, riconoscimento delle responsabilità e avvertimento della colpa ‘storica’ della cultura egemone da cui proviene, ma anche in relazione alla fluidità dell’oggetto stesso.

Quel folklore, che la cultura borghese dell’Ottocento aveva visto come residuo, magari pittoresco, del passato e non come soggetto diacronico di storia, si trasforma in oggetto di indagine etnografica, condotta dall’interno, con un lavoro scientifico e sinergico di équipe, che non guarda al passato come a qualcosa da trasportare, pericolosamente, nel presente, magari per scopi reazionari di conservazione, ma come a qualcosa di fluido e multiforme, che ritorna per inquietare la coscienza (conoscenza) etnologica ed innescare il “rimorso” per “il ritorno di un cattivo passato che non fu scelto” e che non vuole perdersi. Il cattivo passato “infiltrato” nel presente è prova della difficoltà (impossibilità) di trascendere una dimensione critica che ormai abbiamo inglobato e metabolizzato come cronica e caratterizzante la nostra falsa ed impossibile ‘identità’.

Il folklore, come storia vivente in fieri, che collima e si confronta con la cultura dominante, mentre se ne distingue, è destinato a scontrarsi con tutte quelle concezioni, più o meno recenti che lo vedono come “inerzia”, “rottame disorganico”, “sopravvivenza” e che perciò, indirettamente, richiamano la necessità di un esercizio più efficace della ragione e di quell’ethos del trascendimento di cui Ernesto de Martino è il promotore filosofico, prima che storico-metodologico. Di fronte al “cattivo passato che ritorna e che non fu scelto”, la “terra del rimorso” si estende come il senso di colpa dell’etnografo e del soggetto studiato e ostacola “l’avanzamento della coscienza” di entrambi.

Occorre perciò, dice esplicitamente Eugenio Imbriani riferendo de Martino, rompere il sistema di inerzie, di contraddizioni e di intolleranze che facilitano il “cattivo passato”, nella consapevolezza che “lasciarlo morire da sé”, come un relitto, senza il rito e il buonseso (come nel caso del tarantismo), significa non esercitare la coscienza critica e razionale di riscatto e crescita collettiva, correndo il rischio che “ricompaiano mostri e fantasmi che dovrebbero rimanere ben custoditi”.

Studioso raffinato del pensiero antropologico di Ernesto de Martino, che ha analizzato in numerosi interventi e pubblicazioni scientifiche di alto livello , Eugenio Imbriani, antropologo egli stesso, non mancherà di sollecitare l’interesse e la curiosità di un uditorio che, come quello di tò Kalòn, lo attende da tempo per fare insieme il punto su un mondo di ricerche, di ipotesi e anche di ipostatizzazioni, non sempre adeguate alla complessità dell’oggetto etnografico e antropologico nella sua ‘significanza’ teorica e storica. Lo stesso Imbriani non ha mancato in qualche intervento, di evidenziare devianze e oscurità, persino nello stesso pensiero etnologico critico di de Martino, chiamato in causa ‘personalmente’ sul tema del “rimorso” e del “ritorno del cattivo passato”.

Di qui la necessità di “capire”, di discutere e di ri-discutere su quanto, riguardo il folklore, a tutt’oggi, si propone, si ripropone e si pubblica: sulla profondità e la leggerezza di alcuni contenuti, sulla rilevanza e l’irrilevanza di alcune opinioni e precisazioni, che possono risultare devianti e persino devastanti, se assunte come strumenti teorici di analisi e non come meri rilievi a margine.

La grande competenza del Prof. Imbriani, e la sua inclinazione all’analisi chiarificatrice storicamente documentata, ci aiuteranno ad aprire la mente sulla realtà culturale che ci circonda e sulle sue contraddizioni, in una serata che si preannuncia densa di conoscenze inattese e di problematiche scoperte.
Davvero un incontro da non mancare.
Anna Stomeo


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