“L’ARIA DEL CONTINENTE” COMMEDIA DI NINO MARTOGLIO – Lettura e commento di Giovanni Teresi
L’aria del continente di Nino Martoglio (1), la commedia più rappresentata del teatro siciliano, è capostipite del teatro siciliano, pilastro e archetipo di una rappresentazione storica della Sicilia, anzi del siciliano di un tempo andato.
Cola Duscio è un ricco proprietario della provincia catanese. I suoi congiunti sono ipocriti e moralisti. Si scandalizzano quando egli, dopo un soggiorno a Roma di qualche mese, si presenta al paese con una “distintissima signora romagnola” che si fa chiamare Milla Milord. Duscio non solo se n’è innamorato, ma pretende, respirata “l’aria del Continente”, di aver acquisito, anche grazie a lei, una mentalità aperta e moderna che vorrebbe imporre a familiari e compaesani. Non riesce che a rendersi ridicolo, oltre che scialacquatore; ed è costretto e tenersi le corna che gli mettono non solo gli amici del circolo, ma anche cognato e nipote: i quali solo a questo effetto si adeguano alla mentalità del nord. Alla fine si scoprirà che la donna si chiama Concetta, è una stonata canzonettista e nativa del paesello di Caropepe. La commedia fa ridere dall’inizio alla fine; sotto il riso ha un contenuto tragico. La viltà dell’uomo anziano innamorato. Il bisogno d’illudersi dell’uomo anziano, ch’è poi la necessità che ogni uomo ha per attraversare la dura realtà dell’esistenza. La stessa Milla Milord è una vittima: una sventurata costretta eroicamente a fingere per sopravvivere.
Il capolavoro di Martoglio è un apologo sulla vita stessa. Rappresentata per la prima volta nel 1915 al Teatro Argentina di Roma, la commedia è la fonte di un vastissimo universo, non solo teatrale, ma soprattutto letterario, ideologico e persino iconografico. Da essa discendono le considerazioni di Brancati, di Patti, di Sciascia, di Camilleri: il sempiterno complesso di inferiorità dei siciliani nei confronti dei “continentali”, le cui scaturigini sono visibili nei mille luoghi comuni del vissuto popolare; la placida, indolente accettazione di una civiltà “altra” ed anche “alta” in perpetua contrapposizione all’arretratezza “locale”; ma – contemporaneamente e paradossalmente – pure uno smisurato orgoglio, un frainteso senso di appartenenza ad un buonsenso robusto quanto salvifico, sentimenti che di fatto impediscono ogni possibile progresso sociale e culturale. Il ritratto, più che di un luogo geografico, di una condizione dell’anima. E, va da sé, anche di un umorismo, di una ironia, di una comicità assurda e paradossale che va dagli eroi tratteggiati da Musco per Pirandello, Martoglio e Capuana fino al Montalbano televisivo.
Figure, personaggi schizzati, abbozzati; oppure completi, complessi, variegati che hanno dato un senso ed un orientamento, non solo ai difetti degli isolani, ma anche alle pulsioni più profonde degli italiani in genere. Martoglio scrive per un pubblico borghese (medio ed alto), naturalmente perbenista e conservatore; per ingraziarselo ricorre all’arma sicura del populismo e del moralismo. Ma tuttavia si intuisce sotto come un fondo di rimpianto. Un non detto che ci costringe a tifare per Cola Duscio persino quando il baratro del ridicolo s’è spalancato sotto i suoi piedi. La Sicilia alla quale torna a fine vicenda ci appare così com’è: claustrofobica, miserabile, sessista, arretrata appunto. E forse era meglio starsene a Roma.
Non una tragedia, ma il piccolo dramma di un uomo ridicolo. Con la differenza che il nostro Eroe ha sempre saputo di esserlo. Quanto meno intuito. E’ Pirandello (complice dell’originale stesura martogliana, ricordiamolo) che riaffiora nel suo complessivo sguardo d’insieme.
Cola Duscio è stato affidato alla bravura di Enrico Guarneri; bravura che ci spinge al tentativo di un nuovo progetto drammaturgico: comico ma delicato. Una vicenda completa e modernissima, che ci aiuti a ridisegnare le promesse non mantenute della vita: la giovinezza perduta sempre troppo presto, l’amore che si è sognato da bambini. La felicità che non risiede né nelle cose, neppure nei luoghi, ma solo in altri esseri umani.
(1) Nino Martoglio (Belpasso, Catania, 1870 – Catania, 1921), dopo aver conseguito il brevetto di capitano di lungo corso e aver navigato per quattro anni, fondò a Catania, nel 1889, il settimanale politico-letterario D’Artagnan. Nel 1904, dopo una breve parentesi politica come consigliere comunale del suo paese, si trasferì a Roma per dare spazio alla sua passione teatrale. Dotato di grande talento, diresse compagnie siciliane che rivelarono attori come Giovanni Grasso e Angelo Musco. A lui si deve la vera nascita del teatro dialettale siciliano, fino ad allora povero di attori e autori. Ricorse, infatti, a nomi quali Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, Rosso di San Secondo, affinché fornissero un repertorio adeguato di trame. Scrisse una trentina di commedie in dialetto catanese, caratterizzate da una comicità estrosa: San Giuvanni decullatu (1908), portato sullo schermo anche da Totò, L’aria del continente (1915), Il marchese di Ruvolito (1920). Compose anche versi, sempre in dialetto, di notevole forza satirica. Sua, inoltre, la regia di Sperduti nel buio, del 1914, il più celebrato capolavoro italiano del muto, da un dramma di Roberto Bracco. Morì tragicamente a Catania nel 1921, precipitando nella tromba dell’ascensore in costruzione nell’ospedale dov’era ricoverato il figlio tredicenne Luigi Marco.