L’ECONOMIA PATRIARCALE: Il lavoro delle donne tra precarietà e invisibilità

Economia -patriarcale
di Pompeo Maritati
“Il lavoro delle donne ha sempre avuto un doppio volto: quello che si vede – sottopagato – e quello che non si vede – non pagato affatto.”
Parlare di economia patriarcale significa riconoscere che l’organizzazione del lavoro, della produzione, del potere e della ricchezza nel mondo contemporaneo è stata storicamente concepita su misura maschile, escludendo o marginalizzando le donne non solo nei fatti, ma anche nei criteri con cui si misura il valore del contributo umano. La centralità della prestazione continua, della mobilità, della disponibilità assoluta al tempo produttivo, unita all’invisibilità del lavoro di cura, ha prodotto un sistema che non solo penalizza le donne, ma fonda la propria esistenza sulla loro sottomissione silenziosa.
Gender pay gap: lo stipendio dimezzato del talento femminile
Uno degli indicatori più noti e più resistenti della disuguaglianza economica di genere è il gender pay gap: la differenza media tra le retribuzioni orarie percepite da uomini e donne a parità di mansioni.
Secondo dati Eurostat (2023), nell’Unione Europea le donne guadagnano in media il 12,7% in meno degli uomini, ma il divario sale se si considerano le carriere dirigenziali, il tempo pieno, o le fasce di età comprese tra i 30 e i 50 anni (ovvero l’età della maternità).
In Italia, il dato “ufficiale” del gap salariale medio è del 5% – uno dei più bassi in Europa, ma si tratta di una media che nasconde una realtà molto più diseguale. Il dato reale, infatti, esplode se si considera il gap cumulato su base annuale (a causa della diffusione del part-time involontario, più diffuso tra le donne), oppure se si analizzano settori come finanza, tecnologia, management, dove il divario può superare il 20–30%. Inoltre, il gender pay gap si moltiplica e si somma ad altri divari: il “bonus gap” (meno premi di produttività o incentivi), il “pension gap” (che penalizza le donne a fine carriera), e il “wealth gap”, ovvero la differenza patrimoniale e nella proprietà di beni e capitali.
Le donne non solo guadagnano meno, ma riescono ad accumulare meno risorse nel tempo, con effetti intergenerazionali negativi sulla loro autonomia e sicurezza economica.
I carichi familiari: lavoro gratuito, invisibile, essenziale
Se il lavoro retribuito delle donne è spesso sottopagato o marginalizzato, quello non retribuito è invece strutturalmente dato per scontato. Parliamo del lavoro di cura: gestire la casa, accudire figli, anziani, disabili, sostenere il benessere psicologico ed emotivo della famiglia. Secondo l’OCSE (2023), le donne dedicano in media più del doppio del tempo rispetto agli uomini alle attività domestiche e di cura: in Italia, quasi cinque ore al giorno, contro meno di due per gli uomini.
Questo lavoro, essenziale per il funzionamento dell’intero sistema economico e sociale, non viene conteggiato nel PIL, non dà diritto a pensione, non è tutelato in termini previdenziali.
È un lavoro “fantasma”, senza valore monetario, ma con un altissimo valore sociale, tanto da essere il prerequisito stesso della produttività maschile e del benessere familiare.
Il problema non è solo di giustizia redistributiva, ma di modello di civiltà. Finché il lavoro di cura sarà considerato “naturale” per le donne e “opzionale” per gli uomini, nessuna vera parità sarà possibile.
È qui che l’economia patriarcale rivela il suo volto più ipocrita: pretende uguaglianza sul mercato, ma mantiene disuguaglianza nella casa, con un carico asimmetrico che pesa quotidianamente sulle spalle femminili.
Maternità come penalità sociale
Tra tutti i fattori che spiegano la disuguaglianza economica di genere, la maternità è il più emblematico e crudele. In teoria, in molti Paesi, Italia inclusa, la legge tutela il diritto alla maternità e garantisce il rientro al lavoro. In pratica, le donne che diventano madri subiscono penalizzazioni dirette e indirette che compromettono la loro carriera, il loro reddito e spesso anche la loro autostima.
In Italia, circa una donna su cinque lascia il lavoro dopo il primo figlio (dati ISTAT). Molte altre subiscono demansionamenti, esclusioni da percorsi di carriera, pressioni per rinunciare spontaneamente.
La cosiddetta “motherhood penalty” non è solo italiana: negli Stati Uniti, ad esempio, il tasso di occupazione femminile cala drasticamente dopo la nascita del primo figlio, in assenza di un sistema di congedi retribuiti universale. In Germania, pur con un welfare generoso, le madri rientrano spesso solo part-time, perdendo progressivamente potere contrattuale e visibilità.
Al contrario, la paternità non comporta penalizzazioni comparabili. In alcuni casi, l’uomo padre viene persino premiato (il cosiddetto “fatherhood bonus”) perché considerato più stabile e affidabile. La radice di questa distorsione è culturale: la maternità è considerata “una scelta privata”, la paternità “una responsabilità sociale”.
Questa narrazione deve essere capovolta. Finché la cura dei figli sarà un affare esclusivamente femminile, la maternità resterà una trappola sociale.
I lavori “da donna”: segmentazione e stereotipi professionali
Nel mercato del lavoro, le donne non solo guadagnano meno, ma lavorano in settori meno riconosciuti, più precari, più esposti a crisi. Infermiere, insegnanti, commesse, operatrici sociali, colf, baby-sitter, addette alla ristorazione: sono tutte professioni a prevalenza femminile, con salari bassi, poca crescita e scarso prestigio.
I lavori “da uomo” (tecnologia, finanza, edilizia, trasporti) godono invece di maggiore legittimazione economica e culturale.
Il fenomeno è noto come segmentazione orizzontale e verticale: le donne sono confinate in alcuni settori, e in quei settori fanno fatica a raggiungere ruoli apicali. Le cosiddette “professioni femminili” sono spesso una scelta obbligata più che un’espressione di vocazione.
E anche laddove le donne sfondano il “soffitto di cristallo”, si trovano spesso ad affrontare solitudine, ipercontrollo, ipercompetenza richiesta, e burnout.
La stessa economia digitale, che pure promette flessibilità e orizzontalità, riproduce le stesse logiche escludenti. Le donne sono sotto-rappresentate nelle start-up, nelle Big Tech, nei ruoli tecnici. E l’intelligenza artificiale rischia di riflettere e amplificare i pregiudizi maschili presenti nei dati e negli algoritmi.
Uno sguardo oltre
L’economia patriarcale non è solo un sistema di diseguaglianza: è un fallimento collettivo. Spreca talento, crea stress, alimenta solitudine, costruisce un mondo che premia la competizione invece della collaborazione, il profitto invece della relazione.
Superarla non significa “femminilizzare” l’economia, ma restituirle umanità.
Riconoscere il valore del lavoro di cura, redistribuire il carico familiare, abbattere i pregiudizi sulle competenze, creare un sistema che non punisca la maternità ma la sostenga, non è solo una battaglia femminista: è una necessità sociale, economica e persino demografica.
La domanda che dobbiamo porci è: quale tipo di economia vogliamo per il futuro? Una che esclude e consuma, o una che include e genera valore condiviso?
La risposta a questa domanda sarà decisiva nel delineare la società del domani. E se non sapremo cambiare modello, allora non sarà solo la donna a restare indietro, ma l’intera umanità.