Letteratura e sport: raccontare la fatica, la gloria, la sconfitta
di Stefano Salierni
La letteratura e lo sport, apparentemente mondi distanti, condividono una tensione profonda verso il senso dell’umano. Entrambi raccontano il corpo e la mente al limite, il desiderio di superarsi, il confronto con l’altro e con se stessi. Il gesto atletico, nella sua essenzialità, è già narrazione: ogni corsa, ogni salto, ogni resistenza è una storia che si scrive nel tempo e nello spazio. E la letteratura, con la sua capacità di scavare nell’interiorità, ne coglie la dimensione simbolica, esistenziale, universale. Raccontare lo sport significa raccontare la fatica, la gloria, la sconfitta — ovvero le tre tappe fondamentali di ogni percorso umano.
La fatica è il primo elemento, quello che spesso resta invisibile agli occhi dello spettatore. È il tempo dell’allenamento, della disciplina, della ripetizione ossessiva. È il corpo che si piega, che si consuma, che si plasma. La letteratura ha saputo dare voce a questa dimensione nascosta, trasformando il sudore in parola, il dolore in ritmo. In autori come Erri De Luca, la montagna diventa metafora di ascesa interiore, e ogni passo è un atto di resistenza. In David Foster Wallace, il tennis è un campo di battaglia mentale, dove la concentrazione e la solitudine si fondono in un esercizio di sopravvivenza. La fatica, nella letteratura sportiva, non è mai solo fisica: è anche morale, emotiva, spirituale.
Poi c’è la gloria, il momento dell’apice, della luce, dell’applauso. Ma anche qui la letteratura non si lascia ingannare dalla superficie. La gloria è spesso ambigua, effimera, carica di contraddizioni. Può essere il traguardo di una vita, ma anche l’inizio di una crisi. Può esaltare, ma anche isolare. In “Open”, l’autobiografia di Andre Agassi, la vittoria è raccontata come un peso, una prigione dorata. In “Il giovane Holden”, Salinger fa dire al suo protagonista che odia le gare perché mettono le persone l’una contro l’altra. La gloria, nella letteratura, è sempre interrogata, problematizzata, mai celebrata in modo ingenuo. È un punto di passaggio, non di arrivo.
Infine, la sconfitta. Forse il tema più letterario di tutti. Perché nella sconfitta si rivela il carattere, si misura la dignità, si scopre il senso profondo del gioco. La letteratura ama i perdenti, i fragili, gli esclusi. Non per pietismo, ma perché in loro si manifesta la verità dell’esperienza. In “Febbre a 90°” di Nick Hornby, il tifo calcistico diventa una scuola di delusione, una palestra di resilienza. In “Il pugile” di Reinhard Kleist, la boxe è il teatro della caduta e della rinascita. La sconfitta, nella narrazione, è spesso più eloquente della vittoria: insegna, trasforma, umanizza.
Letteratura e sport si incontrano, dunque, nel racconto del limite. Entrambi parlano di ciò che accade quando si corre fino allo stremo, quando si lotta contro il tempo, quando si affronta il dolore. Ma soprattutto, entrambi ci ricordano che il vero valore non sta nel risultato, bensì nel percorso. Nella tensione verso qualcosa che ci supera. Nella capacità di dare forma al caos, di trovare senso nel movimento. In questo, lo sport è poesia in azione. E la letteratura, il suo eco più profondo.