Marisa Salabelle, La bella virtù, Arkadia Editore 2025, pag. 154

di Marisa Cecchetti
“La bella virtù era mantenersi puri, evitare i cattivi pensieri, tenere le mani lontane da certe parti del corpo proprio e altrui, in poche parole si trattava di mettere a tacere le pulsioni e di rispettare alla lettera il sesto comandamento.” Questo è il pensiero di Felice, il protagonista del romanzo di Marisa Salabelle.
La madre morta di tisi quando lui aveva otto anni, il padre commerciante che va su e giù per l’Italia, lui viene affidato al nonno materno insieme alla sorella più piccola; due fratelli finiscono in istituto e i parenti si prendono l’altra sorella, ma sono interventi a cui si prestano malvolentieri.
“Se devi fare la vita del miserabile – gli dirà il padre – tanto vale che tu stia con me. Non ti posso garantire molto, ma un piatto di minestra l’avrai sempre!” Così tornano a Cagliari, dove avevano vissuto gli ultimi tempi con la mamma. Ma il padre si assenta e i due fratelli dipendono dalla carità dei vicini per un piatto di minestra. Viene tolto dalla strada da don Angioni e cresciuto dai Salesiani che lo fanno studiare.
Era un bel giovinetto, quando con la sorella arrivò a Sanluri, a cinquanta chilometri da Cagliari in tempo di guerra, povero ma dignitoso, diverso dalla marmaglia proprio per l’educazione ricevuta, e non sfuggì agli occhi di Maria Ausilia, figlia di un medico e nipote di un notaio.
Nonostante la differenza di classe sociale, la famiglia di lei acconsente al fidanzamento perché il giovane promette bene, e dal matrimonio nasceranno un maschio e due femmine: “La famiglia Serra-Zedda apparteneva alla migliore borghesia cagliaritana, e io chi ero? Un orfano, un figlio di nessuno, un bambino di strada.”
Romanzo dalle molte voci questo della Salebelle, che si alternano e raccontano la storia secondo i vari punti di vista: l’arco temporale va dall’età di otto anni di Felice fino al suo ottantacinquesimo, e la narrazione non rispetta l’ordine temporale: a parlare sono la figlia di lui, Carla, la terza e la più attaccata al padre, quella che ne ha sempre condiviso l’amore per la letteratura; Maria Ausilia, lei che si è innamorata all’istante di Felice, che ne ha accettato le stranezze, che continua a discutere con lui su ogni cosa, a ripetere “accidenti a quel giorno,” ma non lo lascerebbe mai. E Felice stesso, fino al suo ultimo giorno di malattia, nonché il figlio di Carla, Kevin, che nel 2019 deve preparare la tesi di laurea.
Di stranezze ne ha proprio tante Felice! “Bello era bello, intelligente, niente da dire, ma la vita che mi ha fatto fare! Perché una cosa che bisogna sapere di Felice è che era legato mani e piedi ai preti. Lo facevano studiare per carità, già che era povero in canna, e gli avevano riempito completamente la testa con tutti i loro discorsi. Un bigotto, ne avevano fatto. Rigido come un baccalà.” Queste sono le parole di Maria Ausilia che per i sette anni di fidanzamento ha dovuto accettare la bella virtù di Felice, che le stava accanto rigido come un baccalà. Lei ne era innamoratissima ma doveva controllare i propri gesti, lui si macerava dal desiderio, ma si manteneva distaccato: “Se allungavo una mano per carezzargli i capelli quasi quasi si ritraeva. Baci solo sulla guancia o meglio ancora sulla fronte.”
Il matrimonio non lo ha cambiato, l’atto sessuale consumato come un dovere, nella penombra, senza che mai l’uno vedesse il corpo nudo dell’altro, perché, se il rapporto carnale tra gli sposi è finalizzato alla procreazione, “ci si doveva limitare a compiere l’atto fecondativo senza tanti fronzoli, altrimenti la bella virtù dove sarebbe andata a finire?”
Quando la moglie rimane incinta non la cerca più “… perché non appena la nuova vita si manifestò in lei io non vidi più la giovane donna di cui mi ero innamorato ma una madre, simile in tutto alla Santa Vergine celeste.”
Maria Ausilia lo sa che tutto dipende dai preti che lo hanno educato, quelli che gli hanno tolto la fame con fette di pane e marmellata, tanto da renderlo un pretino, perché era sempre attorno alla sottana di don Angioni. Anche se lo capisce scalpita per tutta la vita: “Non voleva contrariarlo, lo temeva. E la sua educazione cattolica la induceva a pensare che fosse suo dovere accudire il marito fino in fondo. Ma qualcosa dentro di lei scalpitava, avrebbe voluto ribellarsi ma non ne aveva la forza.” Continua solo a dire, accidenti a quel giorno.
Con un arco temporale ampio una vita intera, il romanzo ci porta nella città di Cagliari devastata dalle bombe, poi alle trasformazioni sociali del dopoguerra, con la donna che rivendica il suo diritto di lavorare, i figli che difendono la propria libertà di scelta andando contro la volontà e i desideri paterni; ci porta a Pisa dove Felice ha la cattedra di Letteratura latina e greca all’Università, e fa entrare in famiglia un badante di colore.
Felice non si adatta alle trasformazioni sociali, rimane rigido nei sui principi: non può accettare l’idea che suo figlio vada a vivere con una compagna perché ciò è immorale e peccaminoso, come non accetta le minigonne, i pantaloncini e i maglioncini attillati della figlia più grande. Perciò tiene molto alla educazione della più piccola: “La cosa che più mi stava a cuore, man mano che passavano gli anni, era di instillare in lei quella castigatezza, quella pudicizia che è indispensabile in una fanciulla beneducata.” Nonostante l’amore per Maria Ausilia, qualcosa di lei non gli va bene perché la moglie ha una personalità forte e non sa tacere: “La donna è il contrario dell’uomo, in definitiva, e il suo principale pregio consiste nell’essere docile e mite, ciò che la mia cara moglie non è e non è mai stata.”
Man mano che seguiamo la vita di Felice e gli accadimenti anche dolorosi della sua famiglia, va avanti la ricerca di Kevin, la cui tesi di laurea prevede la ricostruzione dell’albero genealogico del nonno materno imparentato con famiglie importanti, fino a trovare il suo legame con la figura di un santo. Siamo ormai in tempo di Covid, Felice se ne è andato da “mammina” col rimpianto della vita, perché non è riuscito ad adattarsi all’idea della morte, nonostante la sua religiosità.
Invece Kevin, ben lontano dalla bella virtù del nonno, interrompe volentieri la ricerca per spassarsela con la sua compagna: “Ora, però, non ti sembra che abbiamo lavorato abbastanza per oggi? Vieni di là con me, che ti voglio mostrare una cosa…”
Come tutti gli eccessi, anche l’ossessione di Felice per la bella virtù, narrata dai familiari con oggettività ed evidente sopportazione, dal protagonista con indiscussa convinzione, finisce per scivolare nella comicità e far nascere un sorriso, rendendo simpatica questa figura severa fuori del tempo.