Missili, fanfare e fichi secchi: l’Europa con la difesa alta
Di Gianvito Pipitone (https://gianvitopipitone.substack.com/)
Ci siamo. Anche l’Europa ha deciso di armarsi. Dopo anni passati a fare la maestrina del mondo — tra Erasmus, etichette alimentari e regolamenti su come si stira la democrazia — Bruxelles cambia pelle. Indossa l’elmetto, serra i ranghi e si prepara al combattimento. Non più mammolette, ma sentinelle.
Già, l’Europa si fa seria. La nuova strategia Readiness 2030, presentata da Ursula von der Leyen e sostenuta dalla Commissione, promette di “proteggere ogni centimetro del territorio dell’Unione”. Un piano epico, quasi hollywoodiano, che ci fa sembrare già sotto assedio. Sicurezza assoluta, si dice a monte. Ma a valle? Casse svuotate, servizi affamati, welfare a dieta forzata. E intanto, ognuna delle 27 nazioni giocherà con la propria squadra. Coordinamento? Vedremo. Per ora, ad ognuno il proprio fucile e la propria fanfara.
E poi, mica si fanno le nozze con i fichi secchi: l’importante è l’effetto che fa. L’Europa si mette in marcia, anche se il passo non è ancora sincronizzato.
Il documento sarà discusso al vertice del 23 ottobre 2025, con l’obiettivo di avviarne l’attuazione già nei primi mesi del 2026. Quattro i pilastri: muro anti-drone, sorveglianza del fianco orientale, scudo aereo e scudo spaziale. Una tabella di marcia che punta a rendere l’Europa “pronta, autonoma e coordinata” entro il 2030.
Ma mentre Bruxelles alza lo scudo, molti cittadini si interrogano su chi proteggerà loro: non dai droni russi, ma dalle conseguenze di una spesa militare che rischia di divorare lo stato sociale, le pensioni, la sanità, l’istruzione. Tutto ciò che rende l’Europa ancora vivibile, e non soltanto difendibile.
Secondo stime interne alla Commissione, gli investimenti previsti potrebbero superare i 6.800 miliardi di euro entro il 2035. Una cifra mostruoso che fa tremare le vene ai polsi dei ministeri del Tesoro. Ma secondo il Commissario Andrius Kubilius, “dobbiamo essere pronti per i piani di Putin”. Se lo dice lui.
A questo punto, la domanda è inevitabile: chi pagherà? E cosa verrà sacrificato sul piatto della bilancia? In tempi di austerità mascherata, la difesa rischia di diventare il nuovo totem intoccabile — come i refrain di un tempo: i parametri di Maastricht o il rigore del Merkel pensiero — mentre lo Stato sociale viene trattato come un lusso da ridimensionare. Con il rischio che non è solo contabile, ma diventa politico: una democrazia che smette di prendersi cura dei suoi cittadini, può ancora dirsi tale?
Certo, c’è chi sostiene che l’Europa non possa più permettersi di restare vulnerabile. Che l’aggressività russa, la volatilità globale, e la dipendenza dalla Nato impongano una svolta. Che investire nella difesa significhi rafforzare la sovranità, proteggere i confini, e dare un senso concreto all’integrazione. Tutto vero. Ma il punto è: a quale costo? E con quale equilibrio?
Intanto, serpeggia un sospetto sempre meno peregrino. L’atmosfera di ostilità montante al confine orientale — droni ballerini, sabotaggi fittizi, attacchi simulati — sembra orchestrata ad arte. Non per difendersi, ma per spaventare. Per innalzare la soglia di preoccupazione. Un pretesto per costruire consenso attorno a una narrazione bellica che giustifica ogni spesa, ogni rinuncia, ogni silenzio.
Così come le dichiarazioni del segretario generale della NATO, Mark Rutte, che in una conferenza stampa agli inizi del mese ha affermato che “i missili di Mosca potrebbero colpire Roma, Amsterdam o Londra” e che “non possono essere intercettati con i nostri sistemi antimissile tradizionali”. Parole che molti analisti hanno giudicato sovradimensionate, se non apertamente inopportune. Più che un avvertimento, un’escalation retorica. E ancor più eloquenti i silenzi della Commissione europea, che non ha preso le distanze né ha offerto chiarimenti.
Con il senno di poi, la strategia perfetta per innalzare l’asticella del rischio e far passare la pillola senza dolori.
A questo punto la vera questione non è più Putin. Che continua a fare il suo sporco lavoro. Non solo, almeno. È Bruxelles. Siamo di fronte a un colpo di mano ben orchestrato. L’Europa tecnocratica — malconsigliata dalla Nato — dimostra di saper fare a meno della politica, di saper usare la propaganda con efficacia chirurgica, e di manovrare la paura dei cittadini come leva strategica. In nome della difesa, si è costruita una macchina comunicativa che somiglia più alle autocrazie che si propone di combattere, che alle democrazie che dovrebbe incarnare.
E no, questo, dalla cara vecchia Europa, non ce lo saremmo mai aspettato.
Certo, qui non c’è un uomo solo al comando come in Russia, Cina o — verrebbe da dire — negli Stati Uniti. Qui c’è un apparato che decide, comunica, agisce in maniera farraginosa. Un potere dove le logiche di comando sono circonfuse dalle nebbie dei sotto-apparati. Laddove il cittadino europeo resta spettatore ignaro, al meglio all’oscuro, al peggio indifferente.
Trattare i cittadini come cani di Pavlov — da stimolare con la paura, da orientare con l’allarme — non è forse più subdolo che tenerli prigionieri? Il paradosso è che, nel nome di una libertà sbandierata, si esercita controllo. E mentre si simula trasparenza, si fabbrica consenso. No, non era questa la libertà che avevamo immaginato in Europa. E allora: quanta democrazia resta nelle roccaforti della democrazia? La risposta è inquietante. Poca. E sempre meno.
Che l’Europa soffra di una sindrome da apparato non è una novità. Continua a moltiplicare agenzie come se fossero anticorpi contro se stessa. Anche stavolta, la roadmap sarà supervisionata dall’Agenzia Europea per la Difesa (EDA), organismo “esterno e super partes” incaricato di garantire coordinamento e neutralità. Nulla di nuovo: il solito sistema di pesi e contrappesi che Bruxelles ha elevato a religione. Architetture multilivello, comitati di sorveglianza, equilibri calibrati al millimetro.
Tutto in linea con l’ossessione europea: né troppa Francia, né troppa Germania, né troppo spazio agli outsider. Una malattia antica, che si traveste da prudenza. Ma quando crescerà, questa Europa? Quando smetterà di vivere in una perenne adolescenza istituzionale, fatta di deleghe incrociate e responsabilità diluite?
Non è dato saperlo.
Intendiamoci: la difesa è un argomento di importanza capitale. Specie in un mondo armato fino ai denti. Ma deve essere sostenibile, integrata, proporzionata. È giusto non restare il coccio debole, ma non si può nemmeno diventare il vaso vuoto. Allo stesso tempo, bisogna ricordare dove risiede davvero la forza dell’Europa: nei diritti, nella diplomazia, nei cittadini. Non nella guerra. E che la difesa deve servire da deterrenza per chi ha intenzioni ostili.
Ma se la difesa diventa il pretesto per smantellare tutto il resto, allora il nemico non è più fuori. È dentro.
Per finire. La difesa comune, in Europa, è sempre rimasta ai margini dell’integrazione. Nonostante le promesse, le urgenze, i vantaggi evidenti — economici, strategici, simbolici. Un esercito comune significherebbe meno duplicazioni, meno sprechi, più coordinamento. Un solo comando, una sola testa, un principio di unità negli intenti e negli interessi.
Eppure, l’Europa ha scelto ancora una volta di non scegliere. Di restare sospesa. Né carne né pesce. Una creatura ibrida, indefinita, che ricorda la Sfinge: metà leone, metà donna, metà aquila, metà serpente. Un essere mitologico che interroga, ma non risponde. Enigmatica, senza offrire soluzioni.