IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Articolo di Riccardo Rescio

di Riccardo Rescio

“Nel nome di Dio”
Dio e guerra è un ossimoro che graffia la coscienza, un abbinamento che raschia l’anima.
È una contraddizione in termini, come pretendere di spegnere il fuoco gettandovi sopra altra fiamma, come guarire una ferita infliggendone una più profonda.
Eppure, in nome di Dio, l’ inconcepibile, inaccettabile, assurda affermazione, utilizzata per uccidere, annientare, conquistare, è il filo rosso, anzi vermiglio, che si dipana tortuoso attraverso la tela lacerata e i mille frammenti sparsi della storia umana.
È il grido di battaglia che ha squarciato il silenzio delle epoche, il sigillo mistico apposto con sangue su ogni brama di potere.
Fin dalla notte dei tempi, quando tribù si scontravano sotto cieli popolati di numi ancestrali, la forza bruta si è ammantata di sacralità.
Il dio della tempesta diventava patrono del furore guerriero, la dea della terra giustificava il possesso del suolo altrui come atto di devozione.
Ma fu quando le grandi fedi monoteiste piantarono il loro stendardo nel cuore degli imperi che il paradosso assunse dimensioni titaniche.
Le crociate, le moltitudini di pellegrini trasformati in fiumi di soldati, il mistico “Deus vult” che copriva il rumore delle spade e il gemito dei massacrati.
La riappropriazione, la purificazione della terra macchiata, un’epopea nazionale intrisa di sangue versato per la Croce.
Le guerre di religione che lacerarono l’Europa, cattolici contro protestanti, entrambi certi di brandire la spada di Dio, trasformando città in roghi e campi in macelli, ogni carneficina santificata da preghiere identiche rivolte al medesimo, incompreso Padre.
E non solo le guerre apertamente per la fede, anche quelle per espansione, dominio, ricchezza, potere, anch’esse, quasi senza eccezione, hanno indossato la maschera luccicante della benedizione divina.Imperi coloniali si sono espansi come metastasi benedette, la conquista delle Americhe un’opera di “evangelizzazione” che procedeva sul selciato di ossa indigene.
Il “fardello dell’uomo bianco” era un mandato celeste, il saccheggio delle risorse un’offerta gradita all’Altare.
Re e condottieri, da Costantino a Carlo Magno, da Isabella di Castiglia agli zar di tutte le Russie, hanno brandito lo scettro e la spada con una mano, mentre l’altra indicava il cielo, legittimando ogni crudeltà terrena con un sigillo ultraterreno.
Dio diventava il garante del potere costituito, il notaio celeste di ogni trattato iniquo, l’alfiere invisibile di ogni esercito invasore.
È un meccanismo perverso, un’alchimia oscura che trasforma la devozione in fanatismo, l’amore per il divino in odio per l’umano diverso.
Il Nome, che dovrebbe essere un rifugio, un faro di pace, viene marchiato a fuoco sugli stendardi della distruzione.
Diventa la chiave che scardina ogni resistenza morale, la giustificazione assoluta che rende l’inaccettabile non solo accettabile, ma doveroso.
L’avversario non è più un uomo, ma un’offesa a Dio, un ostacolo al disegno celeste, un eretico, un infedele, una macchia da cancellare.
La violenza, così, si sublima, si santifica.
Ogni colpo inferto è un atto di fede, ogni vita spezzata un sacrificio gradito.
È l’assurdo elevato a sistema, il fuoco che pretende di purificare usando le stesse fiamme che divorano.
Attraversare la storia con questo sguardo è come camminare in un campo minato di paradossi. Montagne di corpi ammucchiati ai piedi di altari, fiumi di sangue che scorrono verso finti paradisi, il ruggito dei cannoni che copre le preghiere.
“Nel nome di Dio si può” diventa la formula magica nera che scioglie ogni vincolo etico, che trasforma il più sacro dei nomi nel più potente dei pretesti.
È la prova più amara che l’uomo, assetato di dominio e di senso, è capace di piegare persino l’idea del divino alle sue più terrene, oscure e sanguinarie volontà.
La domanda che brucia, allora, non è se sia mai stato giusto, ma come sia stato possibile, come quel Nome di pace sia potuto diventare, così spesso e così tragicamente, il grido di battaglia della guerra più feroce.
Se si vuol porre fine alle guerre, si cerchi nel nome di Dio un compromesso, se invece si sceglie di distruggersi, lo si faccia nell’ora della suprema superbia umana, senza profanare il nome di Dio invano.
Riccardo Rescio



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