IL PENSIERO MEDITERRANEO

Incontri di Culture sulle sponde del mediterraneo – Rivista Culturale online

Oboli, contributi, sottoscrizioni. Il costo amaro, ma necessario della democrazia

Obolo

di Paolo Protopapa

Cosa assimila i suddetti termini, sostanzialmente uguali, dal momento che essi implicano comunque una dazione di qualcosa a qualcuno, persona, ente o associazione ? Le sfumature di significato rispetto all’uso linguistico di una peculiare sinonimìa possono mai determinarne un diverso valore morale? Indubbiamente no. Tranne che per il termine ‘sottoscrizione’, infatti, sia obolo sia con-tributo ineriscono direttamente ad una misura o ad uno scambio di beni materiali o di danaro. L’obolo è il sesto della dracma, moneta dell’antica Atene. ‘Contributo’ rinvia, invece, alla ‘tribus’ romana, con tutti i derivati lessicali che spaziano dalla politica all’organizzazione militare, ma anche agli oneri istituzionali e fiscali della esazione e della gestione interna ed esterna delle risorse della Città eterna e dei suoi apparati di dominio, sin dalla originaria fase repubblicana e sino all’impero. È, peraltro, noto ed ampiamente acclarato il ruolo fondamentale svolto dalla ‘Questura’ (altra parola semanticamente ricca) entro lo spazio economico e giuridico che impatta con il ‘Fiscus Caesaris’, espressione pubblico-privata attinente l’erario statale e, soprattutto, indicativa delle complicazioni tra i poteri delle magistrature preposte al suo controllo civile.

Può essere interessante, a tal proposito, sceverare – seppure per accenno – alla lieve linea di confine tra maneggio del danaro e implicazioni morali e, dunque, ai temi che si aprono nei rapporti sociali tra economia, diritto, politica e etica. Se aggiungiamo, in ultimo, il terzo aspetto del problema, vale a dire il valore del lemma ‘sottoscrizione’, quale atto volontario del vincolo di solidarietà interpersonale, il quadro si completa dei tanti atteggiamenti possibili nel concorrere allo scopo di aggregare segmenti di persone attorno al costume collettivo della realizzazione di un compito predeterminato, come, nel nostro caso, la sovvenzione e il finanziamento della competizione politica nel fondamentale bagno politico dell’esercizio del suffragio universale in democrazia.

Nella cui circostanza (prossima ventura) del voto regionale, non possiamo non menzionare, anzitutto, la mancanza di una legge nazionale che disciplini il finanziamento pubblico dei partiti politici. Aggiungiamo anche, per efficacia e verità del discorso pubblico, che i partiti attuali ‘de facto’ languono e sono ridotti a poco più di larve istituzionali, orfani come appaiono, di vita interna partecipata e di trasparenza e controllabilità tecnica. Il che risulta, allo stesso tempo, causa ed effetto del gravissimo, esiziale fenomeno dell’astensionismo elettorale, vera e propria patologia della nostra emergenza democratica.

Ecco perché l’obolo (si chiama ancora così) di 2500 euro, richiesto dal PD pugliese ai propri candidati per il Consiglio Regionale, assume un rilievo particolare, a mezza strada tra ‘l’obolo di San Pietro’, svergognato nel ‘500 da Martin Lutero contro il vescovo di Magonza e il papato, e l’urgenza sacrosanta di una responsabile sovvenzione a favore della democrazia. Della condivisione di principio di quest’ultima risorsa privata, giudicata appropriata poiché pertinente all’uso pubblico della prestazione partitica, sono debitore ad un mio ex alunno, oggi capace funzionario parlamentare.

Con la pedissequa consapevolezza che ogni eventuale contrasto tra politica e morale, in materia di finanziamento pubblico dei partiti politici, deve essere privilegiata la politica, non già in quanto teoricamente e laicamente separata dalla morale (constatazione ineccepibile da Machiavelli in sù), bensì perché la democrazia, a differenza del notabilato, vive di risorse pubbliche. Si organizza e funziona se è libera, eguale per i soggetti che vi concorrono, giusta nella misura che eticamente la ispira. E non può assolutamente apparire ‘falsificabile” nella sua ontologia costituzionale, nonostante la fattualità abnorme di corruzione diffusa e – questa sì immorale – della presenza dei finanziatori, occulti o meno occulti, prepotenti e/o discreti, opportunisti o semplicemente prodigali. I quali inquinano la pratica politica ormai da decenni e contro ogni decenza, decoro e civica sopportabilità, la offendono e sfregiano impunemente. Perché, dunque, temiamo il finanziamento pubblico dei partiti ed accettiamo obliquamente le più o meno disinvolte dazioni di danaro da parte di privati interessati ad un voto di scambio iniquo e sovente corrotto? Perché, a mio avviso, abbiamo avuto ed abbiamo ancora paura della democrazia. Specialmente dei suoi costi di rappresentanza e propaganda pubblica, della inaffidabilità delle sue procedure organizzative e della scarsa produttività dei suoi risultati concreti, verificabili, controllabili.

È qui, in effetti, che si intrecciano la lealtà etica e la competenza del personale politico impegnato nell’esercizio civile tipico della classe dirigente. Di fronte a cui il cittadino intende esercitare il principio sovrano della vigilanza e della partecipazione. Cos’altro può significare “la sovranità appartiene al popolo”? Non già allo Stato, al governo, alla magistratura, bensì ‘al popolo’. Sapendo, naturalmente, che l’astrattezza teorica di un concetto (popolo) si deve redimere necessariamente nell’onere civico della concretezza politica, cioè procedurale, organizzativa e ‘institué’ in tutti gli organi che tale sovranità spalma nel tessuto delle Autonomie degli enti locali. Solo così l’universalità del fondamento unitario della nazione potrà incontrare la particolarità dell’ autogoverno istituzionale e territoriale delle comunità. È una grave ferita politica che dopo un quarantennio da Mani pulite non sia stato risolto il problema del finanziamento pubblico e della immunità parlamentare dei rappresentanti del popolo. E che il conflitto tra politica e magistratura, nel suo permanente scontro apicale e talora corporativo, condanni il popolo ad una condizione di sudditanza e subalternità. Una comunità cresce se l’equilibrio e la distinzione (non la divisione corporativa) tra i poteri sa guadagnare legalità e mitezza cooperativa in nome del popolo e al servizio del popolo. Il contrario è esattamente la morte e l’illanguidimento di ogni idea democratica.


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