Oltre la buona volontà: senza formazione specialistica non c’è sistema antiviolenza efficace
Di Yuleisy Cruz Lezcano
Nell’Italia in cui ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo, continuare a pensare che basti la sensibilizzazione o la “passione civile” per combattere la violenza di genere è una pericolosa illusione. Lo dimostra la distanza, ancora abissale, tra la realtà delle vittime e la capacità del sistema di ascoltarle, proteggerle, accompagnarle verso una vera autonomia. Serve una competenza autentica, costruita su percorsi universitari specifici, aggiornamento continuo, rigore metodologico e capacità di lavorare in rete. Serve formazione, non improvvisazione.
Troppe volte chi lavora nei centri antiviolenza, nei servizi sociali, nella sanità o nella giustizia si ritrova a operare senza una preparazione specifica, senza strumenti per riconoscere i segnali della violenza, per gestire le situazioni di trauma complesso, per orientare correttamente le vittime nel labirinto normativo e burocratico. Lo stesso vale per le forze dell’ordine e per la magistratura: non si può affrontare un fenomeno strutturale come la violenza sulle donne senza un’adeguata formazione tecnica e culturale, capace di decodificare i reati spia (o sentinella), interpretare il rischio evolutivo, costruire risposte coerenti e tempestive.
In questo contesto emergono iniziative come i Master universitari di I e II livello in Studi di Genere, Criminologia Femminile, Psicotraumatologia e Interventi Multidisciplinari sulla Violenza, promossi da atenei come Roma Tre, Bologna, Padova, Milano Bicocca, e altre università riconosciute come E-Campus. Questi percorsi formano professionisti specializzati: assistenti sociali, psicologi, medici, avvocati, educatori, mediatori culturali, funzionari pubblici. L’obiettivo è creare una figura competente e trasversale, capace di leggere la violenza non come un evento ma come processo, non come patologia individuale ma come espressione di rapporti di potere strutturali. I master dovrebbero provvedere tirocini nei centri antiviolenza, lezioni con esperti del settore, casi studio, moduli sulla normativa nazionale e internazionale, strumenti per la valutazione del rischio, strategie di intervento integrato. Una formazione che non è opzionale, ma condizione minima per operare con efficacia.
La violenza di genere è un campo in continua evoluzione: cambiano le strategie dei maltrattanti, si aggiornano gli strumenti normativi, emergono nuove forme di abuso (digitale, economico, spirituale). Per questo, la formazione non può fermarsi a un corso iniziale, ma deve diventare parte integrante del lavoro quotidiano. I centri antiviolenza virtuosi – come dimostrano esperienze consolidate anche al Sud – prevedono percorsi di aggiornamento obbligatori, supervisione costante, confronto interprofessionale. Dove questo manca, cresce il rischio di errori gravi, di vittimizzazione secondaria, di percorsi interrotti.
Oggi l’accesso ai fondi pubblici destinati alla lotta contro la violenza sulle donne non richiede titoli specialistici: bastano criteri generici, spesso aggirati, che finiscono per premiare l’improvvisazione o la gestione emergenziale. Il risultato è che progetti fondamentali vengono affidati a soggetti impreparati, e le donne si trovano in balia di operatori senza competenze. Occorre dunque che lo Stato, le Regioni, i Comuni introducano criteri obbligatori di professionalizzazione: personale con titoli universitari dedicati, esperienza certificata, aggiornamento continuo. Non basta “voler aiutare”: bisogna saperlo fare.
Serve una rete che sappia parlare lo stesso linguaggio. Che metta in relazione: psicologhe formate sulla violenza e sul trauma, avvocati esperti di diritto di famiglia e penale in ottica di genere, forze dell’ordine con competenze relazionali, operatori sociali in grado di coordinare case rifugio, affidi, progetti lavorativi, mediatori culturali capaci di affrontare le specificità delle vittime migranti, educatori che lavorino sul cambiamento culturale a lungo termine. Tutte queste figure devono essere formate in modo coerente, riconosciute e retribuite in maniera adeguata, non lasciate alla precarietà del volontariato.
La campagna “Non rimanere in silenzio”, pur utile, rischia di restare uno slogan vuoto se, quando la donna trova il coraggio di parlare, non trova personale in grado di capire, rispondere, proteggere. Il rischio di fallire al momento cruciale – quello della richiesta d’aiuto – è altissimo se il personale non ha una formazione specialistica. Per questo, la formazione è la vera infrastruttura del sistema antiviolenza. Senza di essa, anche le migliori leggi e i fondi più cospicui non serviranno a nulla.
Conclusione: formare per non fallire
Se vogliamo davvero costruire un sistema antiviolenza che non escluda nessuna, che funzioni, che sia giusto e accessibile, dobbiamo smettere di pensare che basti “buona volontà” o “sensibilità personale”. Serve un impegno politico e istituzionale forte per finanziare master universitari, stabilizzare percorsi formativi, pretendere titoli dedicati per chi opera in questo settore. Come diceva Simone de Beauvoir, “non si nasce donna, lo si diventa”. Allo stesso modo, non si nasce esperti di violenza di genere: lo si diventa solo con studio, ascolto, esperienza e formazione rigorosa. Perché il prezzo dell’improvvisazione, in questo campo, è altissimo: si paga in vite.