Pensavo fosse amore invece era … resilienza.

Di Gianvito Pipitone.
Il binomio Trump & Musk è quanto di più coerente ci potevamo attendere dalla risultante di questo strano ultimo trentennio: dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, fino all’avvento del Covid nel 2020. Un periodo relativamente lungo durante il quale, da un sistema di diarcato imperante (Urss vs Usa), si è passati bruscamente al dominio di un’unica superpotenza: gli Stati Uniti d’America. Certo, non ci siamo mai illusi che quello fosse il migliore dei modi possibili, ma nessuno si sarebbe aspettato che, all’indomani della pandemia più devastante degli ultimi secoli, i destini del mondo sarebbero potuti passare nelle mani di due pericolosi, squilibrati e facinorosi turbo-capitalisti.
Non la voglio fare troppo lunga ma, con la sconfitta di dei sistemi ispirati al socialismo, protagonisti (in negativo) della Guerra Fredda, il mondo è sembrato a poco a poco ritornare ad un’atavica inerzia. Come nel gioco dell’oca, quando si ritorna sempre al medesimo punto di partenza: l’eterno ritorno dell’uguale. Con un aggravante rispetto al passato: il mondo è tornato a dividersi in un ineffabile coacervo di interessi (di natura militare, strategica, finanziario, geopolitica etc). E anche questa non sembra essere una buona notizia.
In questa visione ciclica della Storia, come un dejà vu, assistiamo oggi ad un’inquietante riproposizione di modelli autoritari del passato, rinvigoriti dalle gesta iconiche dei suoi nuovi interpreti: il vile gesto del saluto romano di Musk o l’irricevibile plastica protervia dell’eloquio di Trump.
È il trionfo dello stato di natura, di cui parlava Hobbes, un sistema basato sull’apparente massima libertà e sulla falsa indipendenza reciproca degli individui. Una condizione che, in un passato non troppo remoto, ha finito per riesumare i più bassi istinti primordiali, quelli della “guerra di tutti contro tutti”. Succede nei momenti di stanca, di annebbiamento e di debolezza della democrazia e rischia oggi di far franare la società verso sistemi populisti, oscurantisti e contraddistinti da una violenta carica di emotività.
Su cosa si basa questo nuovo autoritarismo? sul vuoto di potere democratico, sulla manipolazione dei sentimenti del popolo, sul disinnamoramento, quanto non addirittura sull’odio, che una parte sempre più folta di cittadini mostra non sono nei confronti della politica ma anche verso le regole basilari del vivere democratico.
Così, la costruzione del “nuovo occidente” di Trump alimenta l’inerzia dominante e non stupisce la direzione imboccata dal dibattito politico negli ultimi drammatici anni. I pesi e i contrappesi della Democrazia con le sue spinte egualitarie, frutto di un lungo e travagliato compromesso sociale, sembrano ormai fumo negli occhi delle nuove classi dominanti. Mentre il mondo civile, quello cioè basato sul diritto positivo, con il suo farraginoso meccanismo di leggi e regolamentazioni, non sembra essere più “di moda” in questi tempi bui.
Eppure, si potrebbe obiettare: la destra fa la destra. Pura e cruda. C’era da aspettarselo. Non solo: non ha mai nascosto di voler fare quella cosa là, se solo si fossero create le giuste condizioni. Ne eravamo tutti al corrente. E sarebbe quanto meno bizzarro pretendere dalla destra che possa fare qualcosa di diverso da quello per cui nasce e si alimenta, dall’Atene dei Trenta Tiranni ad oggi: un’individualità portata all’esasperazione, il diritto del più forte smerciato come libertà di agire e pensare (anche l’impensabile), il laissez-faire contro la “noiosa” regolamentazione con cui la buona politica ha provato a fornire di (buone) regole la società.
Dall’altro lato, per le forze politiche che si ispirano a principi social-democratici, c’è molto da recriminare. In America così come in Europa. In primis, la loro responsabilità principale sembra quella di aver abdicato alle ragioni delle classi deboli, all’egualitarismo sociale, e conseguentemente l’aver disancorato colpevolmente quella fetta di cultura importante dai temi identitari. O di non averli rinvigoriti con coerenza e consapevolezza.
Suona strano adesso, nel bel mezzo di un grave allarme di rischio “autoritarismo”, fare le pulci ai responsabili della politica e della cultura democratica e di sinistra. Eppure questo è. Per chi, come quelli della mia generazione, ha annusato tutto il peso della responsabilità della politica durante gli anni difficili di Tangentopoli, sembra davvero incomprensibile interpretare il vicolo cieco in cui sembra ormai essere finito il dibattito politico attuale. A quei tempi, forse un po’ ingenuamente, si pensava che la politica potesse ancora creare una società diversa, che si sarebbe potuta sviluppare con dinamiche diverse e prosperare investendo nello sviluppo umano, nell’uomo in quanto motore razionale capace di plasmare mondi e di trovarne altri, sorretto da una rinnovata fiducia di riuscire a leggere dentro sé stesso.
E invece, sembra proprio lì che la politica abbia perso la sua battaglia. Il non aver saputo scommettere su quella alternativa, giudicata troppo idealista e, in una parola, perdente, consegnandosi mani e piedi al turbo-capitalismo che tutto fagocita.
I cattivi esempi e il proliferare di pessimi maestri hanno ormai fatto perdere l’obiettivo nobile della politica. E su questo versante i social media hanno una responsabilità gravissima, fungendo da implacabile cassa di risonanza, moltiplicatore di mediocrità, nonché palcoscenico per le più turpi nefandezze.
Eppure qualcosa non torna. quell’uomo che oramai si sente Dio, anzi, che si è sostituito a lui, e governa il mondo dal suo piccolo o grande centro di potere, chiuso all’interno della sua stanza dei bottoni, quell’uomo che apparentemente non deve chiedere mai, ci appare, in ultima analisi, più fragile di prima, più insicuro, perso nelle sue idiosincrasie, schiavo dei social, lobotomizzato dalle mode, intruppato com’è nel suo inutile ruolo che la società sembra aver ritagliato per lui, spesso frustrato dall’incapacità di generare e di provare felicità
Si perché, oltre all’inerzia di cui si parlava all’inizio, c’è un’altra costante che ritorna, sempre uguale a sé stessa nella Storia: la paura. Fin dalla notte dei tempi, quando dall’interno delle caverne, ascoltava il sordo rumore del mondo, l’uomo ha sempre avuto paura di morire. Nei primi del Novecento aveva paura di una futuribile guerra mondiale, dopo le guerre sul campo ha provato il terrore per la guerra fredda; mentre ultimamente pare terrorizzato dall’idea che gli automi dell’ Intelligenza Artificiale possano rivoltarglisi contro.
Mutatis mutandis, la struttura resta sempre la stessa, cambia il punto di applicazione, ma i risultati sembrano sempre uguali. L’uomo in ogni tempo è inseguito dalla paura della morte, grande tabù invalicabile della società occidentale.
Per finire, come dicevano gli antichi latini: “in cauda venenum”. Corriamo veloci verso un mondo sempre più senza senso, dominato dal turbo-capitalismo, da plutocratici personaggi senza scrupoli etici e morali che sembrano ormai cibarsi solo del proprio ego che tutto fagocita e vomita sotto forma di like. E questo è il dramma che viviamo. Siamo diventati schiavi di un sistema malato che ci ha ormai vivisezionati e ingabbiati vivi, rendendoci poco più che zombie, perfetti automi, dipendenti dallo scroll sullo smartphone, incapaci di pensare e di agire autonomamente.
Non importa se nella nostra sfera pubblica o in quella privata, adesso più di prima, divisi come siamo da noi stessi e dagli altri, folli, egocentrici e innamorati della nostra false libertà (il divano, lo smartphone, i fini settimana sulla neve, i likes su fb e le pose su Instagram, le vacanze al mare, in montagna, con il cagnolino), siamo diventate tante piccole pedine innocue, di cui da qui a breve nessuno si preoccupera’. Nessuno probabilmente ci chiederà se stiamo bene, se abbiamo fame o respiriamo, se siamo vivi o boccheggiamo oppure … se abbiamo ancora voglia di vivere.
Resilienza. Se ha finalmente un senso usare questa parola, non a sproposito, è adesso. Ora o mai più.