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Punto di domanda: ci serve ancora Marx?

di Paolo Protopapa

Non c’è abbaglio peggiore che confondere Karl Marx con la categoria retorica dei moralisti. E, quindi, immaginare la tensione etica di un filosofo rivoluzionario come un tentativo di “mettere le brache al mondo” da parte di un velleitario e presuntuoso pensatore solitario. Dove lo studioso e filosofo Karl Marx si coniuga con l’organizzatore comunista Marx è, invece, proprio nella concezione della politica “prassi trasformatrice”. Esattamente la liberazione (come sempre egli ribadì!) dai miasmi teorici dei socialismi moralistici. Inconcludenti perché ‘sovrastrutturali’ e sovrastrutturali perché attardati nel settarismo bilioso dei populismi sentimentalistici, irrelati e auto-conclusi. La sferza di Marx è, pertanto, da riscontrare dentro la travagliata storia di un marxismo equivocato per manicheismo nell’eterna lotta tra buoni e cattivi, gli onesti e i malvagi storici.

Il capitalismo non è il male metafisico e la classe operaia non è il bene salvifico. Il capitalismo, e tutto ciò che ne consegue, è rapporto tra soggetti, scontro di forze storiche e, sul piano del dominio sociale, intelligenza generale di lotta politica laica. Ove così non fosse, saremmo rimasti astoricamente agli utopisti ottocenteschi ‘alla Fourier’ o ai Vinti delle Letterature gratificanti. Riprendiamoci, dunque, un bel Marx, che forse non voleva tanto che fossimo ‘marxisti’, quanto ricercatori veri di possibili verità storiche modificabili perché innervate di concreto.
Mi chiedo, di conseguenza, quanto sia importante parlare di Marx dopo averlo letto e, continuando a leggerlo criticamente. Dobbiamo sforzarci, tuttavia, a non fraintendere la radicalità tipica di certi conati giovanili 44eschi, come una certa miopia estremistica tentò di accreditare alcuni decenni fa dopo la lettura entusiasta dei Manoscritti economico-filosofici del ’44. Come allora, tra le righe migliori di eminenti analisti della feconda lettura dell’opera giovanile marxiana, occorre la centralità dell’azione politica organizzata per riformare la società dal profondo, che rimangono la lotta e l’azione inconcusse.

Gran parte della sua polemica anti socialdemocratica ruota ancora su questo snodo, in cui Marx ha probabilmente perso, ma non già perché molte sue intuizioni non abbiano avuto ragione e continuino ad avere ragione, ma perché il mondo cambia.
Finita la centralità del soggetto rivoluzionario per eccellenza, il proletariato, si tratta ora di ridefinire sia il concetto stesso di rivoluzione, sia di soggetto storico della responsabilità trasformatrice. È una parte significativa dell’impianto marxiano che va, dunque, capovolta. Il suo approccio sistemico, infatti (che Popper definì ‘totalitarismo’), come intuì Ludovico Geymonat molti anni fa, deve essere ‘smontato’. Smontare significa riassestare una macchina precedentemente assestata. Assestata come? Funzionante (o non funzionante) entro quale paradigma teorico? Ecco il punto. L’organicismo ottocentesco, tipico della tradizione classico-tedesca, avrebbe dovuto cessare proprio con Marx. Il capovolgimento o arrovesciamento della dialettica che il filosofo comunista operò sul ‘corpo mistico’ hegeliano, avrebbe dovuto segnare il luogo di svolta nel quadro epistemico revisionistico. Non già nello spezzettamento dello Zibaldone idealista acriticamente e, in parte (anche se in buona parte) epistemologicamente già aggredito; quanto nell’anima ispiratrice e fondatrice di quell’artefatto teorico, raggrumatosi filosoficamente nel concetto di dialettica. Qui, però, io sarei prudente, chiedendomi: quale dialettica?
In Hegel lo Spirito (l’Idea o Assoluto) si realizza immanentisticamente ‘per ‘Haufebung’, ossia per processualità logico-storica che “si oltrepassa conservando e si conserva oltrepassando”.

Parliamo del superamento per tesi oppositive agite dal negativo (“La contraddizione è l’anima della dialettica”), senza fissare la differenza specifica e, direi, ontica, tra pensiero ed essere.

La potenza in atto, ovvero lo spirito perennemente ‘atto in atto’ – avrebbe detto Giovanni Gentile nella sua Riforma della Dialettica hegeliana – matura e si espande mediandosi per contraddizioni progressive ed approdi di superiore civiltà spirituale-umana futura. Questo avviene per l’idealismo, che non vuole cambiare il mondo, ma capirlo nella sua compiuta, surrettizia e conclusa verità.
E Marx? Dove e quando la sua giovanile, densissima ‘Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico’ può o meno delineare una post (e anti)-liberale democrazia comunista, liberatoria e socialmente redentiva?
Il Capitale e tutta la fatica teorica preparatoria segnano questa soluzione del mistero; e avviano il passaggio fondativo e sostantivo dalle ” armi della critica” alla “critica delle armi”. Nella democrazia politica (diciamo) reale ed effettuale cessa la transustanziazione mistica dell’avvicendamento ottimistico del Cristo-moneta egemone nella società borghese in quanto espressione politica del dualismo antagonistico e si apre la stagione (aurorale) della giustizia tra eguali. Può accadere che, cessato il Moloc della proprietà privata dei mezzi di produzione – seguita dallo svuotamento pedissequo della legittimazione giuridica – l’alba finalmente appaia nuova. Quanto e come sia nuova, se in senso prospettico-metodologico, oppure nell’edificazione storico-concreta, rimane ancora oggi problema ‘a noi medesimi’ in tutta la sua formidabile evenemenzialità e virulenza sia ideologica, sia etica.
Può essere – e perché no? – che dentro la crisi di questa nostra democrazia (che non sa e non può essere sostantiva, ma che neppure si può accontentare di conservarsi perdente e tristemente regressiva), forse si giochino oggi le sorti del nostro tormentato destino politico, dentro il quale il genio sperimentale di Marx possa ancora servire.


Carlo Marx