Quando le etichette diventano muri e la devianza perde il suo nome

Howard Becher
di Yuleisy Cruz Lezcano
Viviamo in un’epoca in cui l’identità sembra tutto.
Avere una definizione, un’etichetta, un pronome, un hashtag, una comunità di riferimento è spesso vissuto come garanzia di visibilità e di riconoscimento. Ma cosa accade quando la realtà individuale sfugge a queste categorie? Cosa succede a chi non riesce, o non vuole, essere classificato? La risposta non è sempre la comprensione. Anzi, sempre più spesso è l’esclusione.
La sociologia ci insegna ci sono devianze che non hanno forma. Da tempo si è messo in discussione l’idea che esistano comportamenti “devianti” in senso assoluto. Howard Becker, già negli anni ’60, parlava della devianza come costruzione sociale: non è l’atto in sé a essere deviante, ma l’etichetta che la società vi applica. E se l’etichetta non arriva? O se l’etichetta non basta a spiegare? Nel nostro tempo, c’è un nuovo tipo di devianza: quella non etichettabile, sfuggente, che si manifesta nei comportamenti inattesi, ambigui, non codificabili, nei quali le persone agiscono fuori dallo schema, fuori dal linguaggio comune. Non si tratta di devianza criminale o patologica, ma di devianza relazionale, emotiva, simbolica. Gesti, silenzi, rifiuti, reazioni scomode che non rientrano nei codici — né nel politicamente corretto né nel moralismo. E allora, più che tentare di comprendere, si espelle. Chi sfugge all’etichetta diventa estraneo, a volte minaccioso. E in una società sempre più frammentata, questo meccanismo crea solitudini invisibili, incomunicabilità e un crescente senso di alienazione.
Studi recenti di comunicazione sociale e culturale, in particolare quelli che incrociano la sociologia e la psicologia dei gruppi, evidenziano come nella società contemporanea la comunicazione tenda a diventare difensiva: si parla per proteggere la propria identità, non per costruire ponti. Si comunica per delimitare il proprio perimetro di sicurezza, non per entrare in quello altrui. Il filosofo e psicologo austriaco Paul Watzlawick (1921-2007) sottolinea che ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, dove quest’ultimo classifica il primo. In altre parole, non è solo ciò che diciamo a essere importante, ma anche come lo diciamo e quale relazione implica il nostro messaggio. Questo processo può portare alla creazione di barriere comunicative, dove l’altro viene percepito come un nemico da cui difendersi piuttosto che come un interlocutore con cui confrontarsi. In un contesto di crescente polarizzazione, queste dinamiche possono accentuare le divisioni tra i sessi, creando conflitti e rinforzando stereotipi che ostacolano la comprensione reciproca. In questo contesto, le etichette diventano armi. Servono a dire chi siamo, ma anche e soprattutto chi non siamo. Servono a escludere, prima che ad appartenere.
Il linguaggio si irrigidisce, la conversazione si polarizza. Il rischio, come avvertono molti studiosi, è che l’empatia diventi impossibile: ogni differenza diventa minaccia, ogni ambiguità sospetta. E se non c’è spazio per l’ambiguità, non c’è nemmeno spazio per la vulnerabilità. E senza vulnerabilità condivisa, non può esistere una comunità umana autentica. Esiste poi un fenomeno illusorio, un paradosso, un’inclusione che invece di coinvolgere esclude. Infatti, spesso siamo sommersi in slogan senza azioni pratiche che creano l’illusione che la moltiplicazione delle identità porti a una società più inclusiva. Ma in realtà, ciò che spesso vediamo è una nuova forma di frammentazione sociale: comunità che si chiudono su sé stesse, che dialogano solo al proprio interno, incapaci di affrontare l’altro nella sua complessità. In tutto questo panorama subentra anche il femminismo radicale, che può diventare esclusivo se trasforma ogni uomo in potenziale oppressore. Un attivismo identitario può diventare violento se non ammette ambiguità, errore, cambiamento. Anche i movimenti nati per la giustizia sociale, se non lasciano spazio al dubbio, rischiano di trasformarsi in nuove ortodossie.In questo contesto, i comportamenti non normati — anche se innocui, complessi, emotivamente confusi — vengono visti come minacce da neutralizzare. Il risultato? Esclusione, isolamento, solitudine. E, come conseguenza estrema, la crescita di fenomeni come quello degli “incell”: uomini giovani che, incapaci di trovare uno spazio affettivo o relazionale nel discorso pubblico, si rifugiano in comunità online dove le frustrazioni diventano odio. Questo non giustifica i loro comportamenti, ma ci interroga sulle responsabilità collettive nella costruzione della solitudine sociale.
La via d’uscita non sta nel negare le identità, ma nel superare l’ossessione della purezza ideologica. Serve un nuovo patto comunicativo: dove la parola non sia un’arma, ma un ponte, dove l’errore non sia una colpa, ma un’occasione, dove le persone possano essere ascoltate non per come sidefiniscono, ma per ciò che vivono. L’empatia — quella vera, non quella di superficie — non nasce dall’appartenenza, ma dalla disponibilità a vedere l’altro nella sua interezza, anche quando ci mette a disagio. Se vogliamo davvero costruire una società più giusta, dobbiamo imparare a non etichettare tutto. E a lasciare che la fragilità dell’altro parli alla nostra.
Senza paura.