IL PENSIERO MEDITERRANEO

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Quando Lecce subì l’Interdetto

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Basilica-Santa-Croce-Lecce

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Di Giorgio Mantovano

Nei primi anni del Settecento la struttura sociale della città di Lecce visse, durante il Viceregno austriaco (1707-1734), un prolungato periodo di esplosiva tensione nei rapporti tra Stato e Chiesa, a causa degli esorbitanti diritti feudali goduti dal potere religioso.Contro tali diritti si era registrata la dura presa di posizione dell’Università (l’Amministrazione comunale), che attribuiva l’indebitamento delle finanze locali proprio all’abuso dei privilegi goduti dagli ecclesiastici.

Dopo la Controriforma erano fortemente cresciuti di numero gli appartenenti al clero ed agli ordini monastici, per questo le immunità personali e reali, riconosciute dallo Stato, avevano finito con il pesare molto sulle finanze pubbliche, tanto grande essendo il numero dei beneficiari.Nella città di Lecce, pochi anni prima che fosse eletto Vescovo Fabrizio Pignatelli, dentro e fuori le mura sorgevano trentasei conventi di monache benedettine, clarisse, francescane, angiolille, domenicane, teresiane, scalze, cappuccinelle, pentite, paolotte e di frati celestini, teatini, carmelitani, alcantarini, agostiniani, gesuiti, francescani e domenicani. In questo contesto, nel 1710, fu emanata l’ordinanza del potere centrale di demolizione di 33 mulini, siti nei conventi e fuori le mura, di proprietà dei monasteri e la limitazione delle franchigie di godimento degli ecclesiastici.

Il Vescovo Fabrizio Pignatelli tentò di procrastinare l’esecuzione del provvedimento convocando sindaco e decurioni; la loro diserzione, tuttavia, acuì lo scontro con l’autorità religiosa. Di fronte al netto rifiuto del Pignatelli di recarsi sia a Napoli, convocato dal Viceré cardinale Vincenzo Grimani, sia a Barcellona, invitato dallo stesso Imperatore Carlo VI d’Asburgo nel tentativo di giungere a una composizione dei contrasti, il Viceré, il 28 maggio 1710, dispose la confisca delle rendite vescovili e l’obbligo per il Pignatelli di lasciare la diocesi.L’11 novembre 1711, prima di partire per Roma, Pignatelli lanciò l’interdetto alla città e a tutta la diocesi, a causa “dell’insulto arrecato alla libertà e giurisdizione ecclesiastiche e del grave oltraggio inflitto alla dignità vescovile con lo sfratto dalla città e da tutto il Regno di Napoli” (Mario Spedicato, La città e la chiesa, in Storia di Lecce dagli Spagnoli all’Unità, a cura di Bruno Pellegrino, Roma-Bari 1996).L’ interdetto, confermato dal Papa che allora era Clemente XI, creò un doloroso periodo di anarchia ecclesiastica. Dal 1711 al 1719, assente il Vescovo, nella città di Lecce i riti furono stravolti, le porte delle chiese restarono chiuse, gli abitanti furono privati di alcuni dei sacramenti, i morti anche della sepoltura religiosa. Ogni fenomeno penoso fu attribuito alla condizione di interdizione religiosa della città e ritenuto effetto della scomunica.

Le tempeste di vento, i temporali spaventosi, la mortalità delle bestie, la miseria dilagante e il degrado morale furono, per il popolo superstizioso, i tremendi effetti dell’ira divina. La fine dell’Interdetto fu vissuto, dunque, dalla cittadinanza come la fine di un incubo. Fabrizio Pignatelli, il cui episcopato durò dal 1696 al 1734, alla fine di quella buia parentesi, dopo il dissequestro dei beni della Mensa vescovile, fu festosamente accolto dal popolo.E del suo ingresso trionfale ne parlerà nelle sue Memorie anche Giuseppe Cino, l’insigne architetto che legò il proprio nome a quello di Fabrizio Pignatelli, progettando il Palazzo del Seminario. Per ulteriori dettagli rinvio al bel libro di Vincenzo Cazzato – Marcello Fagiolo, Lecce architettura e storia urbana, con ricchi aggiornamenti storiografici di Mario Cazzato, Mario Congedo Editore, 2013.

Di interesse anche la monografia di Emilio De Giorgi, L’ Interdetto contro la città e diocesi di Lecce, Centro di Studi Salentini, 1984.

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